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Sulla resurrezione (aprile non è il più crudele dei mesi)

Vorrei rassicurare tutti con ciò in cui credo, facendo appello alla mia anima: forse il poeta aveva torto e aprile non è il più crudele dei mesi. Ma poniamoci delle domande: cosa ha da dire il Covid-19 alla filosofia? E cosa ha da dire a noi credenti in Gesù Cristo? Chi è oggi il nostro prossimo da amare come noi stessi? In che modo la pandemia, in cui siamo presi drammaticamente, mi interpella come filosofo e come Cristiano? E vorrei porre infine un ultimo interrogativo di preghiera: quale senso ha assunto per noi il percorso che nella trascorsa settimana Santa ha visto unite nel passaggio la passione, la morte e la resurrezione di Cristo, fino alla Santa Pasqua? Nell’opinione pubblica, nel senso comune, impera ancora l’espressione “risorgere” per indicare l’uscita anche da questa crisi che ci isola e ci sgomenta. Ma questa parola ha significati politici e teologici molteplici. Quella imposta dal virus è senza dubbio un’esperienza di passione e di morte per troppi. Di una morte solitaria, vera e non rassicurata da metafore teologiche. Certamente non possono essere sottomesse alla violenza parole sacre e ancor meno si può piegare il senso della religione. Ora il Coronavirus ci coinvolge, ricordandoci la nostra limitatezza, perché riesce a condizionare le nostre libertà costringendoci nel privato, uno spazio visto ora come limite, chiusura.


Per altri invece Covid-19 ha significato moltiplicare il proprio impegno per donarsi al prossimo in forme inedite e inattese. Sono quelli, ad esempio, che affrontano il virus come  si usa dire “in trincea”: medici e infermieri di cui parliamo per la gratitudine che dobbiamo loro. Continuando con la metafora militare si sente poi dire che il Covid-19 sia un “nemico invisibile”, poiché può entrare nei nostri corpi e da lì fare di noi gli ‘aggressori’ di un altro che a sua volta non sarà più il nostro prossimo da cercare. Ma può un virus ridisegnare il Volto dell’Altro? Può annullare il prossimo nostro? No, nel prossimo il Cristiano da sempre è chiamato a vedere il divino. Il volto dell’altro oggi suscita d’improvviso la sensazione militaresca del “nemico”, quasi a incarnare la separazione, la distanza, la divisione in zone del nostro paese: quelle più colpite e quelle meno. 

Siamo costretti a questa riconfigurazione del rapporto con l’altro, sia per decreto statale sia per l’inedita percezione dell’alterità che tende ora a farsi strada. Viviamo perciò una nuova solitudine, più o meno accentuata a seconda delle condizioni sociali, economiche. Solitudine sembra la cifra di questa singolare Pasqua di Resurrezione. Ma la solitudine evoca il Silenzio, non come spazio negativo, piuttosto come momento di “arresto”. 

Questa forma del silenzio per un cristiano è ancora evocata significativamente in due momenti distinti: quello del Sabato Santo e quello dalla Domenica della Pasqua di Resurrezione. Sabato Santo è stato il tempo dell’Attesa. Una parola che oggi può acquisire simbolicamente e realmente un valore universale, non evocabile soltanto dai cristiani: l’attesa di una guarigione, l’attesa di poter uscire da questa situazione così drammatica. L’attesa messianica di ciò che non dipende da noi, proprio come la venuta del Cristo, attraverso l’Incarnazione, e la sua morte, e  poi la sua Resurrezione. 

È la solitudine, vissuta come momento di silenzio interiore, a predisporci a questa attesa, all’Attesa. Un tempo diverso. La solitudine ci invita a vivere pienamente questo tempo e ad aprire un nuovo spazio all’Altro, apprezzandone in modo inedito la presenza, dopo averne avvertito la mancanza. Lasciamo lo spazio all’altro e che questo continui a sorprenderci. Non ne siamo spaventati, pur restando a distanza, nemmeno nella diffidenza.  
Solitudine e silenzio necessitano pazienza e qualificano l’Attesa come una sorta di passività del pensiero in atto. Un essere lì, non rassegnati, ma pazienti e nella certezza di una Speranza. 

Questa Pasqua è stata quindi per me, per noi, la scoperta che il sepolcro vuoto non è lì per evocare un’assenza, ma al contrario per rivelare una presenza nuova, sorprendente, fuori dalle categorie attraverso le quali possiamo pensarla. Del surreale in quei giorni abbiamo fatto esperienza, vivendo un evento inedito in grado di cambiarci interiormente. Quello della Resurrezione resta per sempre il grido di chi dopo il buio vive la luce.
Il nascosto si rende presente, o torna ad essere presente. 
Viviamolo questo silenzio, per imparare ad accogliere nuovamente e più di prima gioie e dolori dell’altro, per riconoscerlo quando viene, per vederlo in modo nuovo superando le diffidenze e  comprendendo profondamente che l’altro siamo noi ed è uguale a noi.


Il silenzio è luogo del divino, è “il Verbo di Dio”, come ci ha rivelato Simone Weil: esso è presenza e possibilità di incontrare l’altro, facendogli spazio, accogliendolo. Lontananza e vicinanza che prima, quando eravamo vittime della frenesia del presente e di una corsa inarrestabile in avanti, avevamo scordato di guardare o avevamo volutamente accantonato.  Questo tempo di silenzio contiene mille voci e può aprire dei vuoti nei quali emergono tracce di umanità, vie di senso e infine spiragli del Sacro. Nel vuoto del silenzio, l’altro trova spazio. Questo momento può arricchire noi stessi solo se riusciamo a donarci agli altri con questa apertura. Silenzio, rileva Parmiggiani è “Una presenza oggi necessaria e, anche se può sembrare un paradosso, un modo di assumere una posizione”. 

Acquisiamo un nuovo senso di responsabilità, per gli altri, per l’ambiente in cui viviamo, in un modo nuovo. Perché inedite sono le sfide di questo tempo. Ritroviamo il senso smarrito di un’epoca che sembrava averlo perso per sempre: è quello il senso forse troppo a lungo sopito, di una Resurrezione che è invito a riconoscerci in una comune umanità. 
Resurrezione è insieme memoria del passato, vita del presente e speranza per un futuro nuovo. Uno spazio rinnovato in cui sapremo riconoscere le gioie e i dolori che abbiamo vissuto, noi esseri umani di tutte le epoche, di tutti i tempi, di ogni luogo. 

Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008
Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, Le Lettere, Firenze, 2010

Perugia, 23 aprile 2020
Massimiliano Marianelli
Professore Ordinario di Storia della Filosofia
Università degli studi di Perugia

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.