Nell’ultimo periodo la consapevolezza della reale impotenza in questa condizione si è fatta più forte. Ho cercato di rifugiarmi nella musica, nell’arte, nella lettura, nella poesia, cercando di uscire dal flusso di pensieri negativi e dal bombardamento mediatico che, attraverso telegiornali, social network, giornali, sta avvenendo in maniera sempre più intensa, colpendo le persone più fragili aumentando il livello di stress, il “male di vivere”, inteso come paura, ipocondria, timore ad uscire a fare la spesa, ad incontrare gli altri. Le tragedie sono sempre impregnate di sofferenza e dolore e le immagini dei carri militari che da Bergamo trasportano le tante salme nei crematori di altre città italiane, rimarranno nei nostri occhi per molto tempo, quasi come simbolo di questo virus mortifero. L’Italia di oggi, affaticata, stremata dal numero di contagi si potrebbe dire che sia quasi assuefatta da quel dolore che la colpisce ormai da settimane. L’abitudine alla tragedia è qualcosa di atroce, forse per la tragicità del tessuto sociale nel quale siamo immersi e per la sofferenza diffusa. La morte può esserci indifferente?
Quando si è trattato di rendermi disponibile per qualche emergenza in passato ho sempre cercato di fare la mia parte. In questa emergenza oltre alla reale impotenza, la sensazione di preoccupazione e paura crescono al crescere della sensazione di minaccia alla quale ci si sente sottoposti, soprattutto quando s’inizia a sentire il virus vicino, nelle parole di amici e parenti che comunicano morti o contagi di persone che abitano nello stesso quartiere. Sembra che l’unica possibilità di reale aiuto sia, oggi, quella di restare nelle nostre case, svolgendo le attività lavorative, di studio, coltivando passioni ed interessi che non riusciamo mai a portare avanti come vorremmo, cercando di costruire o ricostruire quelle relazioni familiari frammentate dalla routine e dalla vita frenetica.
Due settimane fa abbiamo vissuto l’ondata di solidarietà diffusa su tutto lo Stivale, ma anche in Europa verso il nostro dramma. Abbiamo battuto le mani per i medici e le forze dell’ordine, abbiamo cantato, sentendoci un corpo unico, un popolo colpito ma unito. Cantare è stato un appuntamento fisso per il quartiere, per le vie, alle ore 18.00 si alzava la musica e, seguendo un calendario preciso, abbiamo cantato quelle canzoni evergreen che ci hanno resi famosi nel mondo. Ma poi, come tutto, il canto è finito, la gente ha smesso di affacciarsi, la solitudine, la preoccupazione e l’impotenza che citavo prima, si sono fatte più forti. Anche se resta alto lo spirito, il desiderio di rinascita dalle ceneri come l’araba fenice è forte negli animi, si è preferito appendere gli strumenti al chiodo, anche per rispetto dei tanti morti che non sono riusciti a salutare per l’ultima volta i propri cari, nel rispetto di tutti i medici che lavorano strenuamente facendo turni faticosi e psicologicamente provanti. Il comune denominatore di questo virus è la solitudine. Essa è vissuta dai malati colpiti sia in forma lieve che grave, costretti all’isolamento delle proprie case o in una terapia intensiva. I malati sono soli nella solitudine, incapaci di descrivere quello che provano e soli, lontani dai parenti. I medici faticano ad esternare la sofferenza che vivono tutti i giorni. Si è soli nelle proprie case, si è soli anche in mezzo agli altri per paura di essere contagiati. Soli nell’affetto e nell’esternare emozioni.
Mi tornano in mente i versi di una famosa poesia di Salvatore Quasimodo, “E come potevamo noi cantare … tra i morti abbandonati nelle piazze … all’urlo nero della madre (…) Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.” [Quasimodo S., Alle fronde dei salici, 1945] Questi versi esprimono bene il sentimento comune del popolo italiano, unito nella sofferenza e nell’inquietudine che sta vivendo in questo periodo. Il silenzio rispettoso di quelle cetre, che rappresentano le capacità espressive di tutto lo Stato, è terribilmente assordante ma nasconde un tessuto sociale fortemente intrecciato che non vede l’ora di risorgere.
Miano, 5 aprile 2020
Matteo Marucco
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università Milano Bicocca
Università Milano Bicocca
Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.