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L'8 marzo non è stato un qualunque mattino. Riflessioni di parte, prima di partire

Dentro la tasca di un qualunque mattino,
dentro la tasca ti nasconderei.
Gianmaria Testa


È il mattino dell’8 marzo.
È una domenica di quasi primavera che in tempi normali sarebbe sonnecchiosa e lenta, ma stamattina all’autostazione c’è fermento: i pochi bus che arrivano in provincia dal capoluogo sono pieni di ritornanti dal Nord, li aspettano i parenti. Sembrerebbe il periodo di Natale, ma non è così. Lo dicono gli occhi carichi di parole nuove, mai dette o che non si è fatto in tempo a capire, e gli abbracci mancati. Di corsa in macchina e a casa. Dopo aver avvertito il medico curante e il sindaco del paese dell’arrivo, il ritornante non pranza nemmeno, non ha preso di corsa l’ultimo treno notturno stracolmo dopo aver fatto una valigia alla meglio, non ha mostrato documenti ad ogni controllo, non sì è fatto visitare dai medici della postazione mobile alla stazione di arrivo, non si è fatto offendere da mezza Italia per la “cucina di mammà”. Vuole solo dormire.
Non è un qualunque mattino, in poche ore la città che da anni lo inghiotte e lo forma, gli “dà il pane” e lo ha fatto emergere è “area a contenimento rafforzato”. In realtà, probabilmente, al suo arrivo nel paese d’origine in Gazzetta Ufficiale ancora non è stato pubblicato il DPCM 8 marzo che, per pochi giorni, avrebbe diviso l’Italia in due.


Se “la giusta distanza” imposta all’osservazione partecipante in questi tempi pandemici mi permette solamente di immaginare questa introduzione attingendo dalle immagini e dalle notizie del web e dei TG, posso continuare questa riflessione con dati reali, a me vicini (è strano quasi anche scriverlo questo aggettivo). Per farlo devo giustificare un altro ritorno, il mio.
Nel 2012 decido di ritornare in paese, ho studiato antropologia a Roma e Napoli, e, vista la vicinanza geografica del campo di ricerca del mio percorso dottorale che inizia l’anno successivo all’Università di Messina, ci resto. Qui, alternando percorsi di restanza e cammini di ricerca, un mese dopo aver discusso la tesi di dottorato, mi candido alle elezioni comunali e, dal 2017, divento vicesindaco di uno dei tanti paesi delle aree interne della Campania che prova a non far partire nuovi emigrati e che, dall’8 marzo 2020, non vuole neppure farli ritornare.

Tutti gli individui che hanno fatto o faranno ingresso in Regione Campania, con decorrenza dalla data del 7/03/2020 e fino al 3 aprile 2020, provenienti dalla Regione Lombardia e dalle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, hanno l’obbligo: 
- di comunicare tale circostanza al Comune e al proprio medico di medicina generale ovvero al pediatra di libera scelta o all’operatore di sanità pubblica del servizio di sanità pubblica territorialmente competente; 
- di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario, mantenendo lo stato di isolamento per 14 giorni dall’arrivo con divieto di contatti sociali;
- di osservare il divieto di spostamenti e viaggi; 
- di rimanere raggiungibile per ogni eventuale attività di sorveglianza.

In ottemperanza di questa Ordinanza Regionale, la n. 8 firmata da Vincenzo De Luca l’8 marzo, incrocio tutti i ritorni in paese, fornisco schede da compilare e ne ricevo di compilate, comunico ai Carabinieri l’elenco che giorno dopo giorno si fa sempre più lungo. Seppur il campione non sia esaustivo (ma mi hanno insegnato che gli antropologi non parlano di statistiche, prediligono le storie) non arrivano solamente studenti universitari, quei “cervelli in fuga” così crudelmente sbeffeggiati, ma operai di cantieri edili chiusi, lavoratori licenziati, docenti e personale scolastico precari. La maggior parte di loro ha qui coniuge e figli e, semplicemente, torna a casa. Per restarci. 
Li aspetta una quarantena volontaria che di lì a poche ore, con il DPCM del 9 marzo, si estende, in un certo senso, a tutta l’Italia “zona protetta”.

Questo non è il tempo per giustificare nessuno, né chi non ha preso il treno del ritorno né chi l’ha fatto, così come non è giusto applicare qualsivoglia categoria che va dall’eroe all’untore: usiamo questo spazio temporale per provare a capire e – soprattutto – farci domande.
Nonostante a tanti sfugga, chi è stato tratteggiato come una vera e propria “bomba epidemiologica” ritorna alla sua residenza perché l’alloggio temporaneo, venendo a mancare il lavoro, è revocato con la chiusura del cantiere o lo stesso affitto diventa, successivamente al licenziamento e nessuna alternativa, una spesa da tagliare. “Restate a casa” ci dicono, giustamente, di fare, qualcuno si è chiesto cosa intendere per “casa”? Quattro mura e un tetto o l’insieme di affetti, relazioni, ricordi, sicurezza? Un lavoratore precario della scuola, magari con figli che l’aspettano “giù”, cosa avrebbe dovuto fare? Si dirà, “sì, ma gli studenti, perché sono scappati?” Perché magari i familiari li hanno richiamati o obbligati a tornare, perché la paura non è solo di chi fugge ma anche – e soprattutto - di chi aspetta che qualcuno ritorni in un posto ritenuto più sicuro. “Sì” – potrebbe dire qualcuno – “ma sono pericolosi per i propri cari, rischiano di ucciderli e, al tempo stesso, mandare in crisi un sistema sanitario regionale che non saprebbe affrontare l’esplosione epidemiologica”. Questo dovrebbe prima far riflettere sulle cause del divario tra sanità pubblica nazionale che procede a diverse velocità poi, magari, concentrarsi sulle giuste regole da seguire per evitare di contrarre il virus che, se non rispettate anche al Nord, si sarebbero rivelate pericolose. In tanti giudizi s’immaginava magari che, lasciati gli aperitivi ai Navigli, i ritornanti si sarebbero buttati – incoscientemente - tra le braccia di nonni e bar di paese? L’evolversi giornaliero dei dati del contagio nelle regioni meridionali, con focolai individuati in case di riposo o accadimenti specifici, non permette ora di valutare la reale incidenza epidemiologica dei ritornanti. Oggi possiamo solo vedere che la stessa reazione della notte tra il 7 e l’8 marzo alla Stazione Centrale di Milano si sia verificata, ad esempio, nelle grandi città francesi con stazioni e aeroporti ricolmi di persone che, prima dello scoccare dell’entrata in vigore delle misure di limitazione del contagio da COVID-19 preannunciate dal presidente Macron il 16 marzo, vogliono ritornare nei loro paesi e piccole città di provincia. Se nelle stesse ore la Farnesina si fa carico con appositi voli del ritorno in Italia di studenti, turisti, lavoratori dalla Spagna e dalle altre nazioni europee oramai chiuse per virus, l’UE decide di regolare gli spostamenti negli stati europei, garantendo la circolazione delle merci, limitando quella di persone. E cosa dire dell’esodo indiano, con milioni di persone che tentano il ritorno ai loro villaggi, stremati?

Forse la reale questione alla base di questo discorso sta proprio nella tensione tra centro e periferia, a tutte le latitudini: si creano, così, traiettorie di fuga dalle precarietà urbane (che il virus ha alimentato) che ripercorrono a ritroso la precedente fuga dalla “fame” rurale. Locale e globale, ancora una volta, distanti ma vicini nelle possibilità negate ma, anche in un discorso che scavalca l’economia e le opportunità di sviluppo personale, centrali nell’interpretazione di questi tempi pandemici di focolai che creano incendi in cui gli uomini, come sempre hanno fatto, si spostano e portano con sé stravolgimenti culturali e sanitari.


Quella scena così manipolata dall’opinione comune di treni presi d’assalto alla stazione di Milano deve farci riflette su come ciascuno reagisca alla paura, quella di chi quei giorni è ritornato a Sud e ha visto circolare la propria foto come se fosse un ricercato pronto per la gogna dei social e di chi si riscopre delatore e segnala a polizia municipale o autorità locali che “in quella casa, lì, c’è un ritornante”. Di fronte alla reazione alla paura è come se ci ritrovassimo di fronte a una scelta etica, ciascuno prende posizione a seconda del suo vissuto, credo, modo di interpretare il mondo, locale e globale.   

Io, in questo costante bilico tra antropologia e ruolo istituzionale, tra osservazione e controllo, quando tutto questo finirà, dovrò stare dalla parte di chi resta, mettermi dietro al tavolo dell’ennesimo convegno che parla di spopolamento delle aree interne, prendere la parola ed elencare tutti i motivi per non partire? Aggrappandomi magari alla retorica e rimpiangendo le menti e le idee che i paesi non riescono a trattenere, diventati di nuovo modelli di successo da attaccarsi al bavero a cui, come si è sempre fatto, guardare con un pizzico di invidia? Guardando con nostalgia i legami spezzati, le famiglie lontane, dovrò chiedere loro di ritornare? Oggi che questi eroi dell’andare sono diventati sprovveduti e pericolosi, kamikaze virali da isolare e ostracizzare, oggi, in tempo di virus, di ritorno al posto più sicuro di tanti, la politica meridionale ha perso l’occasione per far pace con un grande rimorso, per costruire un nuovo futuro quando tutto dovrà ricominciare. Ragioni di sicurezza sanitaria, forse.
L’ennesima dimostrazione delle carenze strutturali. 

Dopo ciò che è successo nelle stazioni di partenza e di arrivo a inizio marzo, le quarantene  volontarie, le offese e i giudizi di chi, probabilmente, è il primo a non rispettare le direttive ministeriali, i sindaci che si ritrovano a dover fare elenchi (anche con il contributo di delatori del posto) di chi tenere sotto controllo (a cui magari in periodo di elezioni paga i biglietti del treno per accaparrarsi una preferenza in più nel seggio), isole e regioni chiuse, sindaci che si atteggiano a muro umano per evitare gli sbarchi (ricorda qualcosa?)… dietro quel tavolo vorrei prendere in prestito le parole di Vito Teti che scrive:

Anche partire e tornare, non solo restare, domani, già oggi, assumeranno un nuovo senso, avverranno in maniera diversa. Lo abbiamo già visto nei nostri paesi. Con i ritorni improvvisi, auspicati, temuti, scongiurati, avvenuti, soltanto pensati, rinviati dei nostri fratelli che vivono fuori dalla loro terra. E forse bisognerà riflettere sul fatto che la partenza, l'emigrazione, l'esodo, l'esilio (parole e fenomeni certo diversi) hanno sempre rappresentato una "rottura" rispetto al "prima" e al luogo lasciato. In un certo senso, "non si torna mai" al punto di partenza.

Ecco, consapevoli che non sappiamo capire la paura, ma le scelte individuali quelle sì le dobbiamo capire, da quella notte non si ritorna più, si deve solo partire.

Palomonte (SA), 7 aprile 2020
Simone Valitutto
Dottore di ricerca in "Antropologia e studi storico-linguistici"
Università di Messina

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.