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Spaesamento

Il dépaysement, ha osservato Claude Lévi-Strauss (2015: 110), è un’esperienza fondante dell’antropologia culturale.  Lo straniamento che emerge dal confronto con altri modi di essere uomini e donne in società porta a denaturalizzare istituzioni, comportamenti e abitudini che sembravano ovvi ai nostri occhi. In questo senso, il viaggio attraverso le apparenti stranezze degli altri è la via più breve per riflettere su noi stessi (Remotti 1990). Quando però lo spaesamento affiora nel cuore stesso di ciò che ci è più familiare, è come se i fili che tessono la trama invisibile della quotidianità si logorassero sino a renderla irriconoscibile.

Le misure imposte per limitare il contagio da SARS-CoV-2 hanno segnato uno spartiacque tra quanto in precedenza era ritenuto consueto e scontato e la situazione attuale in cui, mentre l’Italia entra tra speranze e timori nella cosiddetta “fase due”, la possibilità di una prossimità diffusa in un certo senso pare «cosa arcana e stupenda» (1) .


A Sesto San Giovanni, da dove scrivo, lo stacco tra un “prima” e un “dopo” ha preso anche la forma di una frattura sonora: per più di un mese il rumore pressoché incessante del traffico è stato sostituito da un silenzio interrotto con una triste frequenza dalle sirene delle ambulanze e dagli elicotteri della polizia. Un cambiamento così drastico nel paesaggio sonoro (2) della città forse è paragonabile solo a quello avvenuto nel 1995, quando la sirena che lungo tutto il corso del Novecento aveva segnalato il cambio di turno presso le acciaierie Falck è stata spenta in seguito alla chiusura degli stabilimenti (3).

Allora la brusca interruzione di quel suono usuale sancì in modo inequivocabile che un mondo era finito; oggi lo scarto ha rappresentato una parentesi, e il rumore delle macchine è tornato a essere un sottofondo costante. Eppure, mentre il dibattito pubblico si polarizza attorno alle posizioni di chi sostiene che ora cambierà tutto (in meglio o in peggio) e di chi è convinto che non cambierà nulla (4), rimane ben salda la dolorosa consapevolezza sia del difficile momento storico che stiamo vivendo sia della cesura che ci ha spinto a guardare con sospetto quello che reputavamo domestico e familiare (luoghi, persone, lo stesso mondo esterno nel suo complesso).

Nelle pagine dedicate allo studio delle apocalissi culturali, Ernesto De Martino (2002) ha parlato del disfacimento della domesticità del mondo come di una destrutturazione progressiva dello sfondo di ovvietà non problematizzato che permette di agire efficacemente all’interno di un mondo culturale. La banalità del quotidiano dipende da un «felice oblio» di tale sfondo; quando questo si incrina, rischia di svanire un intero orizzonte di operabilità (ibidem: 644) (5). Un certo grado di automatismo e di ottundimento, come ha sottolineato Francesco Remotti (2011: 229), è indispensabile per ridurre l’arbitrarietà di un modello culturale, ma al tempo stesso ne riduce la densità e lo spessore poiché sottrae le idee di cui il modello si sostanzia alla critica e alla contestazione. 

Lo spaesamento che accompagna questo tempo incerto, se da una parte ha destrutturato alcune trame stereotipate della nostra esperienza quotidiana, dall’altra ha contribuito a porre in questione attitudini e disposizioni tacite che raramente erano state rese oggetto di una riflessione così esplicita. Il disfacimento di un orizzonte domestico potrebbe quindi costituire una occasione per accrescere la consapevolezza degli elementi cardine che lo sostenevano, esponendoli a un potenziale ripensamento  (6).
La limitazione delle libertà individuali imposta per la tutela della salute pubblica, ad esempio, ha indotto a interrogarsi su quello a cui si è disposti a rinunciare in nome del desiderio di sicurezza e a riflettere su ciò che distingue un’esistenza qualificata dalla mera sopravvivenza (7). La discussione sul binomio libertà/sicurezza non ha coinciso soltanto con una disamina dell’attuale stato di eccezione, ma ha anche riguardato una possibile estensione di quest’ultimo nel tempo. Tuttavia, nei discorsi sulla libertà sono stati talvolta riprodotti in modo più o meno consapevole stereotipi di stampo nemmeno troppo vagamente orientalista sulla presunta differenza tra un’Asia in cui i cittadini sarebbero pronti ad accettare forme di sorveglianza e di controllo sociale e un Occidente dove interventi lesivi dei diritti individuali e della privacy risulterebbero insopportabili (8).


Il disorientamento di fronte a un virus percepito come un nemico da combattere ha fatto emergere la nostra difficoltà a riconoscere le interdipendenze che ci legano agli attori ambientali e ha stimolato interventi che, ribaltando la retorica del virus invasore, hanno preso in esame la connessione tra deforestazione e intensificazione dell’agricoltura industriale da un lato e rischio di sviluppo e diffusione di agenti patogeni dall’altro (9). Questi interventi hanno permesso di mettere in luce processi sociali ed economici che, se trascurati, avrebbero considerevolmente ristretto lo sguardo sulla pandemia e sul suo impatto.

Lo sconcerto provocato dai pareri non sempre concordi degli epidemiologi ha portato all’attenzione questioni sollevate nell’ambito degli studi di sociologia della scienza quali la natura della produzione della conoscenza scientifica e il grande lavoro di fabbricazione, discussione e composizione che occorre per giungere a una qualche certezza in materia di fatto (Latour 2004: 178). Inoltre, riflettere sul rapporto tra “esperti” e decisori politici ha spinto a tematizzare la posizionalità storica e sociale delle conoscenze e a rendere esplicito che le domande di ricerca non sono indipendenti dai contesti socio-culturali che le hanno prodotte.

La pandemia potrebbe dunque rappresentare uno di quei periodi tumultuosi in cui i legami tessuti nell’uso comune delle cose (gli accordi interiorizzati su ciò che costituisce una “vita buona”, i modi di produzione, la visione della scienza) si aprono a una potenziale ridefinizione o a una riconfigurazione parziale (Descola 2014: 383) se la sospensione del nostro cammino (10), avendo spezzato la «cieca furia del fare» (11), ci consentirà di tradurre le riflessioni sugli elementi fondativi e sulle implicazioni dei nostri modelli economici e culturali in un confronto plurale su ciò che riteniamo socialmente desiderabile. La capacità di aspirare infatti, come ha sostenuto Arjun Appadurai (2014: 397), trae la propria forza da sistemi di significati e valoriali specifici.

Il rischio, tuttavia, è che le lacerazioni inferte al tessuto sociale, accentuando drammaticamente la vulnerabilità di chi si trova già in una condizione marginale, rendano un possibile ampliamento di orizzonti immaginativi una prerogativa di una élite intellettuale. Sebbene l’antropologia abbia posto spesso l’accento sulla creatività culturale e sull’agency di gruppi in condizione di marginalità sociale ed economica, la prospettiva di un riscatto dalla crisi passa (anche) dal riconoscimento del suo impatto ineguale sulle vite delle persone.

Note

(1) Così il coro dei morti definisce la vita nel «Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie» contenuto nelle Operette Morali di Giacomo Leopardi (2008: 337). (2) Il paesaggio sonoro può essere considerato parte integrante della quotidianità di una determinata comunità: è infatti intimamente connesso alla sua organizzazione sociale, ai suoi sistemi di produzione e ai suoi strumenti di comunicazione (Bordone 2002: 134). (3) A partire dal 2004 la sirena ha ripreso a suonare simbolicamente ogni giorno alle 12, ma lo scorso anno è stata definitivamente spenta. Secondo alcuni ex operai, è come se fosse stato silenziato un elemento cruciale nel tenere viva la memoria delle conquiste collettive dei lavoratori. (4) Si vedano, a titolo di esempio, gli auspici dell’avvento di una nuova forma di comunismo o di un nuovo stato sociale, le preoccupazioni per possibili svolte autoritarie e gli inviti a non confondere la spettacolarità di un evento con la sua significazione storica. (5) L’idea del non annunciarsi del mondo come condizione di possibilità perché gli enti risultino utilizzabili senza suscitare sorpresa è stata trattata diffusamente da Martin Heidegger in Essere e Tempo (2010). De Martino (2002: 668) prende però le distanze dal filosofo tedesco scegliendo di considerare non l’essere bensì il dover essere come fondamento dell’esistenza umana. (6) “Ripensare”, è stato notato, è in effetti uno dei verbi che più ricorrono nei discorsi orientati al prossimo futuro. (7) Questo è avvenuto soprattutto sulla scia degli interventi molto dibattuti di Giorgio Agamben. (8) Una visione dicotomica discussa criticamente qui, per esempio. (9) La necessità di una transizione ecologica è stata espressa in numerosi articoli. Questo, tra gli altri, problematizza apertamente l’impianto su cui si è edificata la nostra normalità. (10) La possibilità di sospendere il cammino è stata definita da Lévi-Strauss (2013: 439) come uno dei maggiori benefici concessi agli uomini in quanto permetterebbe di trattenere l’impulso che li costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la propria opera mentre chiudono la propria prigione. (11) Un’espressione utilizzata da Theodor Wiesengrund Adorno in un aforisma di Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (2011: 185). Nel medesimo aforisma Adorno scrive: «L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un’insaziabilità sbuffante, della libertà come superattività, attinge a quel concetto borghese della natura che ha servito sempre e soltanto a sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternità» (ibidem: 184).

Riferimenti bibliografici

Adorno, Theodor Wiesengrund, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 2011 (ed. or. Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1951).

Appadurai, Arjun, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014 (ed. or. The Future as A Cultural Fact: Essays on the Global Condition, Verso, New York 2013).

Bordone, Renato, Uno stato d’animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale italiano, Firenze University Press, Firenze 2002. 

De Martino, Ernesto, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, ed. a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002.

Descola, Philippe, Oltre natura e cultura, SEID, Firenze 2014 (ed. or. Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005).

Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2010 (ed. or. Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Halle 1927).

Latour, Bruno, Politics of Nature. How to Bring the Sciences into Democracy (ed. or. Politiques de la nature. Comment faire entrer les sciences en démocratie, La Découverte, Paris 1999).

Leopardi, Giacomo, Operette Morali, BUR, Milano 2008.

Lévi-Strauss, Claude, Tristi Tropici, il Saggiatore, Milano 2013 (ed. or. Tristes Tropiques, Plon, Paris 1955).
̶  Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 2015 (ed. or. Anthropologie structurale, Plon, Paris 1958).

Remotti, Francesco, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
̶   Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari 2011.

Milano, 12 maggio 2020
Amina Bianca Cervellera
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

Il presente contributo è stato scritto da Amina Bianca Cervellera e raffinato grazie alla revisione dei suoi colleghi di dottorato nell'ambito del Laboratorio di Scrittura realizzato dal DACS. Il testo intende rappresentare la seconda voce di un "Piccolo dizionario antropologico della pandemia", finalizzato a interpretare l'attualità attraverso concetti chiave della disciplina. 

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.