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In stasi, in corsa // FASE 2 - seconda parte

Scambio epistolare tra Vera Pravda [artista] e Giulio Verago [curatore]

SECONDA PARTE

Vera Pravda

Caro Giulio,

Sono felice che tu stia bene, e te lo scrivo non per forma.

Ho temporeggiato a risponderti. La mia testa è densa di pensieri. È entrato lo Shabbat, ho pensato di scriverti dopo l’Havdalà, ma la settimana è iniziata da tempo e i pensieri continuano ad affastellarsi. Stasi inquieta. Scrivo ugualmente, dubito del resto che si acquietino a breve. 

Quanto hai ragione sul futuro, e se la visione è sempre parziale, già nell’immanente, per il futuro sono solo previsioni, giochi d’azzardo. La natura dell’uomo è limitata, finita, i confini qui sono ben delineati, e probabilmente molto più stretti di quanto l’ego vorrebbe. Non ci è dato di sapere, non ci è dato di precorrere il tempo. 

Penso però che, pur nella parzialità estrema - e nella complessità dei sistemi in cui ci muoviamo, di molti dei quali non abbiamo nemmeno coscienza - possiamo esprimere dei desiderata, e che esprimendoli e condividendoli, possiamo sostenere delle idee o delle visioni del mondo e della società. Penso sia il momento della semina, il tempo è propizio e il terreno è aperto, è un caso raro, penso si possa approfittarne per seminare specie che vorremmo più diffuse, rispetto alle colture intensive già in uso, che certamente continueranno ad esistere. Idee come piccoli semi in germoglio.
Personalmente opto per un approccio molto pragmatico: concentrare le forze su obiettivi definiti, fare ‘massa critica’, unire canotti arancioni insieme, per evitare alla nave gli scogli (o gli iceberg) che gli strumenti di bordo non captano perché troppo a ridosso, ma che visti dal vivo, toccati con mano, sono tutt’altro che irrilevanti e rischiano davvero di provocare squarci importanti nella chiglia. Nella mia arte ho deciso di parlare degli iceberg.

Sul ruolo dell’artista sono con te sul preservare il diritto alla contraddizione, alla speculazione, all’errore (errare, vagare alla ricerca di qualcosa): l’allargare i limiti del dibattito è una funzione fondamentale per la società. Altrimenti rischiamo di vedere solo ciò che sappiamo già. È la differenza tra visualizzazione e visione. La visualizzazione porta a business plan a 1-3-5 anni, la visione a riflettere su ciò che vogliamo fare ed essere, a ottimizzare, a ripensarci, a porre sul piatto nuove idee, a evolvere. Servono entrambe e, poiché la visione sia ampia, é fondamentale il dibattito intellettuale, l’apertura, la ricchezza di stimoli, l’humus creativo. Recentemente ho avuto il piacere di tenere una lezione a un master executive su arte e cambiamento e i legami sono molti.

Gli Highlights di /Confini/ su Gli Stati Generali in fondo nascono da questo: artisti, intellettuali e professionisti da saperi altri, chiamati a  riflessioni generali su temi definiti, divulgate fuori dall’ambito di riferimento abituale. Sono contenta che stiamo portando avanti insieme questi contatti e mi sembra che si stia creando un bel think tank. Penso che in questo senso il progetto possa prolungarsi anche dopo la quarantena. Cosa ne pensi? Come potremmo ampliarlo? con che strumenti? 

Come sottolinei l'arte visiva non deve svolgere un ‘compito’, ma certo è una funzione, così come la curatela.
Il punto è come si sostiene questa funzione. 
Attraverso il ruolo la funzione viene esplicata. Penso che in Italia questo ruolo manchi.
Sulla condizione degli artisti visivi ti rispondo con il codice ATECO: 90.03.09, ‘ALTRE creazioni artistiche e letterarie’, nella sezione R, ‘attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento’ dopo teatro, musica, giornalismo, restauro; nella stessa classe di chi redige manuali tecnici. Tutte figure comunque attualmente in gestione separata, che di fatto possono accedere a scarse protezioni sociali, non solo in tempo di crisi. Questo ammesso che si arrivi ad avere un reddito, cosa per nulla scontata nel campo dell’arte visiva, dove si rischia di passare anni a creare la basi per carriere comunque precarie, da integrare necessariamente con redditi altri. È però il reddito che permette di portare avanti la funzione, è una questione di soddisfacimento di bisogni primari e di uso del tempo. Ci troviamo altrimenti con artisti formati, preparati, professionalizzati, ricchi di energie, che decidono di fare altro, perché la vita spinge e non è possibile vivere d’aria. Come sarebbe la nostra società senza gli artisti? Davvero siamo specie in via d’estinzione? Davvero l’arte non serve a nessuno? Non credo, e tu?

Non sono un’economista, ma personalmente penso che una struttura che permetta di inquadrare meglio gli artisti dal punto di vista legale sarebbe utile. Un albo e un ordine professionale non penso sarebbero una cattiva idea. Aiuterebbero il ruolo, e con esso la funzione. Auspicando un maggior coinvolgimento degli artisti nella vita pubblica. Forse nella riscrittura delle regole post-coronavirus si potrebbe prendere in considerazione una revisione del quadro normativo in cui si muovono queste professioni, e magari agevolare il mercato artistico e le collaborazioni con altri settori produttivi, estendendo ad esempio incentivi fiscali come l’artbonus alla produzione artistica contemporanea in toto. E anche rivedendo la legge del 2%, magari estendendola anche ai privati e a importi di cantiere inferiori. Significherebbe sostenere un intero settore, rendendolo produttivo, e permettendone un reddito. Come curatore come la vedi? 
Sono anche io curiosa di sapere come vedi le nostre professioni e come si potrebbe uscire da questa impasse.  

Siamo ai saluti: niente Munch né Cronenberg, ne ho solo paura. Forse ci saluteremo con gli occhi. In questo caso avverrebbe un contatto più profondo, con i pro e i contro della cosa. Le buone maniere sono un cuscinetto tra noi e gli altri, una zona franca che permette la giusta distanza: ecco, forse si svilupperà un nuovo galateo! Affascinante, anche molto divertente a tratti. Potrebbe nascerne una nuova opera! Che ne dici, ci lanciamo nella creazione?

(to be continued?)

Giovanni Della Casa, Galateo overo de' costumi, 1558 (p.); Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology, 1915; L. 717/1949; Abraham H. Maslow, Motivation and Personality, 1954; De André ‘Un ottico’, 1971; Achille Bonito Oliva, Arte e sistema dell'arte, 1975; http://www.teche.rai.it/2018/11/gino-de-dominicis-lartein-questione/, dal mi. 9,35 ca., 1997; Codice dei beni culturali e del paesaggio, D.Lgs. 42, 22 gennaio 2004; https://www.istat.it/it/archivio/17888



Giulio Verago
Giovedì 30 Aprile 2020, ore 20:47



Cara Vera,

Stasi inquieta è un ossimoro interessante.
Di recente ho conversato con un mio amico che osserva il Ramadan e gli ho chiesto che differenza ci trovi a viverlo in quarantena. Non mi ha saputo rispondere, mi ha detto che proprio non trovava le parole.

E' importante penso, come cittadini prima che come artisti o curatori, impegnarsi per far sì che il vocabolario per descrivere quello che stiamo vivendo sia condiviso, per evitare manipolazioni. Purtroppo anche in Europa (penso alla Ungheria ma anche alla Polonia e non solo) abbiamo governi che stanno imponendo un perimetro tra ciò che può essere detto e ciò che si deve tacere. E sappiamo che c'è chi vuol far passare la pandemia per una scusa. Eppure anche in questi contesti l'arte continua a sopravvivere. Nietzsche giustamente ammoniva contro la presunzione di un’epoca di avere più “giustizia” di un’altra. Resta da capire come gli artisti visivi riusciranno a metabolizzare questa nuova idea di confine che la pandemia sta solo rendendo più evidente. Quale alfabeto inventeranno e quali domande, di fronte a quale specchio ci metteranno.

Gli iceberg di cui mi parli mi sono chiari sia conoscendoti personalmente che approfondendo la tua ricerca. Penso sia fondamentale questa "consonanza" tra ciò che si fa come cittadini e il proprio lavoro. La differenza tra visualizzazione e visione è essenziale ma deve essere chiara all’artista come a chi ci governa.

Sulla condizione degli artisti visivi sto seguendo con grande interesse il dibattito nato da un gruppo di colleghi e artisti di cui ho grande stima - Artist Workers Italia - attorno alla risposta della scena emergente e indipendente. Come anche altre iniziative più vecchie e strutturate, penso al Forum dell’Arte Contemporanea, aiutano a rivendicare la necessità di maggiori tutele per chi crea, di aiuti concreti per chi investe energie e risorse per la creazione emergente. Temo però che un cambiamento reale possa avvenire solo se cambia la percezione del ruolo dell’artista nell’opinione pubblica e per quello ci vuole un cambio di strategia. Giustamente il codice ATECO è una metafora di un problema più ampio, penso ad esempio a quanto le rivendicazioni del mondo dello spettacolo siano più efficaci, perché quel settore si è meglio organizzato e resiliente delle arti visive e non a caso è più presente nei pensieri della politica.

Il ruolo del curatore è evidentemente in una fase di profondo cambiamento, come sta cambiando del resto il senso del fare le mostre. E non mi riferisco solo alla smaterializzazione cui siamo forzati dalla pandemia. Vedo i segni di stanchezza di questa figura di curatore-factotum che ha l’ambizione di assumere “pieni poteri” (legislativo, esecutivo e giudiziario). Forse sono un reazionario ma vedrei utile tornare a una scomposizione delle funzioni reali del sistema  per adempiere le quali ci vuole, più che un master costosissimo, deontologia e il coraggio di esporsi alla critica. Che poi le funzioni possano coesistere nella stessa figura lo deve decidere di volta in volta un meccanismo legittimante che non può più permettersi di scimmiottare quello dello star system.

Penso che nella curatela sia utile uscire dalla comfort zone del proprio statement per provare a semplificare senza banalizzare. L’Italia post-pandemia ha bisogno di percepire il linguaggio dell’arte contemporanea meno distante e autoreferenziale. Il concetto di contemporaneo per me è solo una convenzione utile a scrivere la storia dell’arte ma a prenderla troppo seriamente si rischia di dimenticare la filogenesi, qualcosa che sappia tenere insieme ad esempio i dipinti ottocenteschi di Angelo Morbelli al Pio Albergo Trivulzio con il video girato da Anri Sala nel Duomo di Milano.

Grazie per l’ascolto,
Giulio

(to be continued?)

“The Boat is Leaking. The Captain Lied”, Fondazione Prada - Venezia, 2017 (catalogo); Olafur Eliasson et al. “Chaque matin je me sens différent, chaque soir je me sens le même”, Palais de Tokyo 2002 (catalogo); Kit White, “101 things to learn in Art School”, MIT Press 2011; Enrico Boccioletti, U+29DC aka Documento Continuo, Link Editions, 2014; Hugh Trevor-Roper, “Carlo V e il fallimento dell’umanesimo”, in “Principi e Artisti: mecenatismo e ideologia alla corte degli Asburgo”, Einaudi 1980.

Milano, 8 maggio 2020
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.