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Di pietà per i morti, di rituali mutilati, della solitudine disumana di numeri e percentuali

1. Premessa

La riflessione riportata in questo breve articolo è stata elaborata inizialmente il 18 marzo 2020 in previsione di un'intervista avvenuta il 23 marzo 2020 e pubblicata a firma di Arianna Viesi il 27 marzo 2020 sul quotidiano Il Dolomiti.
Un ulteriore approfondimento mi è stato chiesto in occasione di un intervento alla trasmissione Tempi Diversi del 1 aprile 2020 condotta da Florencia Di Stefano-Abichain per l’emittente Radio Popolare di Milano (qui trovate il podcast, il mio contributo si trova dopo un’ora e 9 minuti dall’inizio).
In questa situazione di emergenza e continuamente in divenire, la scansione cronologica è importanti per comprendere il significato dei riferimenti inseriti. Le parole che trovate poste tra virgolette all’interno dell’articolo sono il frutto di un lavoro di ricerca etnografico iniziato il 16 marzo 2020 e che si sta protrarrà per tutto il mese di aprile. Le conversazioni avute con i testimoni (diversificati per provenienza geografica, estrazione sociale, età…) sono state raccolte per questo personale progetto di ricerca etnografico (non sostenuto da alcun finanziamento) che come studiosa in antropologia cul-turale mi sono sentita in dovere di intraprendere e hanno a loro volta arricchito la riflessione sull’argomento della morte e della ritualità ad esso correlata, profondamente mutata in questo perio-do di quarantena.


2. La dimensione del lutto

L’emergenza nella quale ci ha costretti la diffusione anche in Italia del Covid-19 ha aperto una serie di problematiche non solo sanitarie o strettamente legate alla dimensione della salute del corpo, ma ha messo in evidenza altre significative fragilità presenti nella nostra società e fino ad ora apparen-temente relegate ai suoi margini. Una di queste è certamente la relazione con la morte e con i rituali funebri ad essa correlati.
La dimensione del lutto e della perdita dei propri cari (parenti ed amici) in queste settimane è emersa nel peggiore dei modi nella nostra quotidianità poiché la stessa natura della pandemia ha separato forzatamente chi rimane in vita da chi purtroppo decede. Questa è una dimensione che possiamo ri-trovare nel corso della storia umana solo in altri momenti eccezionali o stra-ordinari (extra-ordinari).
L’antropologia culturale, (non dimenticando i lavori fondamentali del professor Adriano Favole) si è confrontata fin dall’inizio con questo evento della vita e ha cercato di comprendere attraverso la me-todologia che è sua propria, che cosa gli esseri umani pensassero a proposito di questo momento: una delle caratteristiche che probabilmente ogni cultura porta in sé è certamente la gestione del passaggio da questa realtà ad un’altra attraverso azioni ritualizzate.
Si è notato che non potere dire addio ai propri cari come si è soliti fare in tempi “normali” ci scon-volge e rende questo periodo ancora più straziante.

«La morte è vicina a noi ma nello stesso tempo è lontana, non possiamo avvicinarci, è spaventoso, ovvio ho paura che i miei genitori anziani si possano ammalare e magari anche non farcela, ma di più mi terrorizza che siano là da soli»

Purtroppo la decorso specifico di questa malattia respiratoria (come è accaduto per altre pestilenze che avevano medesime modalità di sviluppo e diffusione), rende solitario il momento del decesso: la lontananza che in questo caso può essere definita anche come giusta distanza, per citare il titolo del generale lavoro di ricerca che ospita questo mio contributo, è così giusta? Certamente è più che giu-sta, se si tratta di mettere in salvo dal contagio la maggioranza della popolazione: razionalmente è più che corretta, ma emozionalmente possiamo dire lo stesso? Forse no.

«Mi fa paura, ho una sensazione di profonda angoscia vedendo, leggendo, queste testimonianze. Non è umano morire da soli» 

Questa giusta distanza diventa disumana e inaccettabile, se si pensa alla condizione interiore provata da chi muore e da chi assiste impotente. Anche socialmente è difficile da accettare: la società aiuta l’individuo a superare il lutto attraverso una serie di azioni di accompagnamento che servono soprat-tutto a chi resta, così è da sempre (e stavolta questo sempre non è una iperbole, come capita a chi di noi si occupa di rituali di sentire dai nostri informatori privilegiati della comunità che descrivono i propri riti come identici dalla notte dei tempi «si fa sempre così», «il rito è sempre uguale» «certo è antichissimo si fa così da tempo immemorabile» ).


3. Il rituale comunitario di accompagnamento dei defunti

Il rito, nella dimensione comunitaria, è un momento importante per tutti gli individui per riconoscersi come partecipanti di un gruppo umano e anche i rituali che accompagnano la morte possono avere questo intento. Il Covid-19 invece impone una morte solitaria, in un luogo lontano dagli affetti, ac-canto a macchinari asettici (nelle descrizioni che alcuni testimoni hanno rilasciato in queste settimane queste stanze vengono rappresentante con aggettivi tetri, mi ha colpito anche la dimensione del ru-more che queste macchine che aiutano a sopravvivere portano con sé), e ad esseri umani talmente coperti per la propria giusta protezione da non apparire più come esseri umani. Quello che emerge dai racconti di questi ultimi testimoni della vita altrui sono i ricordi di occhi imploranti che cercano altri occhi per un ultimo dono di umanità.

«Mi sovviene un ricordo lontano, una specie di incubo dove morivo ed ero solo, questo male-detto virus me lo ha fatto riemergere e sono terrorizzato».

Il Covid-19 ha interrotto il culto dei morti attraverso una frattura la cui portata sarà doveroso analiz-zare anche dal nostro punto di vista, quello antropologico. Possiamo e stiamo parlando del durante, ma sarà altrettanto importante scrivere del dopo!
La devozione per i defunti trascende le diverse religioni dell’umanità: è comparsa in un momento storico della nostra presenza sulla terra molto lontano e ovviamente mantiene caratteristiche antichis-sime. L’interruzione o il drastico ridimensionamento mutila sostanzialmente questo rituale fondativo dell’umanità: potrebbe essere definibile come una costante in tutte le culture che, seppure molto di-verse fra loro, mantengono alcune caratteristiche simili. La devozione dei defunti trascende la reli-gione perché caratterizza le culture di tutte le epoche. La nostra specie ha imparato ad addomesticare il cibo la prima volta che ha acceso un fuoco (Homo erectus c.a. 200 mila anni fa), allo stesso modo, in un certo senso, ha imparato ad addomesticare la morte.
La convivialità che contraddistingue l’atto del nutrirsi e che dona un senso comunitario a coloro i quali siedono attorno alla stessa mensa, è importante tanto quanto la ritualità funeraria fatta in grup-po.
Probabilmente la nascita della sepoltura e quello della spiritualità possono essere associabili: fu Neanderthal il primo gruppo umano a decidere di interrare in una fossa un proprio compagno dece-duto e a praticare una sorta di primordiale funerale. Gli archeologi infatti hanno trovato in Medio Oriente poi anche in Europa queste prime tombe dell’umanità e hanno evidenziato che in alcuni casi sopra i resti sono state trovate tracce di polline o evidenze di celebrazioni rituali complesse .
È possibile che questi nostri antenati avessero ricoperto di fiori il loro caro o avessero praticato dei gesti rituali particolari dopo la sua morte, iniziando a praticare quella sorta di rispetto per i defunti che fino a prima non c’era (ovviamente fino a prova contraria). Ad un certo punto della propria sto-ria, l'umanità divenne artefice di un salto culturale destinato a cambiarne le sorti.
Ci sono stati solo alcuni momenti particolari che non hanno permesso di continuare a celebrare un rito nato quasi 100.000 anni fa: le pestilenze e le epidemie, ad esempio, che hanno messo in grave pericolo la sopravvivenza della specie. Anche nei contesti di guerra vi sono stati momenti di tregua dove fu possibile seppellire i propri morti; solo alcune atrocità del Novecento invece non hanno per-messo la manifestazione di questa pietas universale (genocidi, campi di sterminio della Seconda Guerra Mondiale).


4. L’ultimo saluto

L’ultimo saluto al congiunto morente è presente sia nella memoria letteraria e poetica occidentale (se restiamo nella nostra società) sia nella tradizione folklorica e popolare: il comitato o il raccogliere le ultime parole o volontà era necessario per accompagnare degnamente il caro nel viaggio dell’oltretomba.

«La paura c’è ogni giorno, ho mio padre molto anziano e ammalato, è in RSA, non lo posso ve-dere da settimane… e se muore… cosa faccio…. Mi aveva sempre detto che mi voleva accanto come aveva fatto lui con suo padre, voglio ascoltare le sue ultime parole, guardarlo, tenere la sua mano… Mi sento impotente e arrabbiato»

Il mondo dei vivi e quello dei morti da sempre sono stati concepiti come separati e  come tali restano nella maggioranza delle culture umane passate e presenti: caratteristica comune è il momento del passaggio (il limite da varcare) denso di preoccupazioni che ogni cultura ha risolto secondo le pro-prie convinzioni.
Nella cultura romana, ad esempio, ai morti veniva messa una moneta in bocca da dare a Caronte, il traghettatore dell'Ade. Ci sono culture dove si fanno doppie o triple sepolture (per un approfondi-mento si veda Favole A. Resti di umanità Laterza Bari-Roma). Tutti gli uomini seppelliscono, tutti gli uomini salutano i morti. Se questa dinamica si interrompe, si incrina qualcosa di profondo dentro di noi. Infatti la partenza delle bare dalla città di Bergamo non ha lasciato nessuno indifferente.

«Sono giovane non ho paura di morire, sembra che i giovani siano meno colpiti, ma ci penso, certo che ci penso, e non solo per i miei o per la nonna, ma, forse sono ipersensibile, ma chi non lo è in questi giorni, quelle bare da Bergamo, io, io, me le sogno di notte, davvero».

«Ho visto ieri sera quelle bare partire sui camion, non ho dormito, tutta la notte ci ho provato, chiudevo gli occhi e eccole lì davanti, aprivo gli occhi… niente da fare non andavano via, e ne ho viste di cose nella mia vita»

Il funerale ha a che fare anche con la gestione collettiva del dolore. Ci sono dei riti che servono ai vivi per poter capire quello che è successo. È interessante poi notare come da sempre la morte sia vi-sta come un ritorno a ciò che si era: come se inizio e fine coincidessero. I morti dall’inizio del paleo-litico alla fine del neolitico, infatti, erano seppelliti in posizione fetale come se dovessero tornare nel-la pancia della madre, in questo caso la madre terra che veniva venerata come divinità (la Dea Madre rappresentata sia nell’arte rupestre sia in quella mobiliare), in alcuni casi venivano utilizzate anche grotte o ripari sottoroccia per sottolineare forse l’idea del ventre. Tale pensiero appare davvero molto raffinato: predisporre sepolture simili è come affermare che nascita e morte sono parte di un mede-simo processo, quando si muore si ritorna da dove si è venuti.
Anche alcune popolazioni nomadi hanno luoghi dei morti stanziali dove è consuetudine ritornare per portare l’omaggio, dove il ricordo e la memoria sono celebrati e possono servire a mantenere coeso il gruppo umano. Anche nella nostra cultura religiosa cristiana c’è ad esempio un periodo (e non a caso è compreso tra il 31 ottobre e il 2 novembre) nel quale ci dedichiamo al ricordo dei defunti: vi sono alcuni luoghi in Italia (documentati dalla nostra antropologia) dove vengono celebrate delle feste, dove i cimiteri si riempiono di colori, si rinnovano, dove si banchetta sulle tombe.
La morte quindi mette in evidenza la nostra profonda umanità, i rituali ad essa collegati rinsaldano i nostri legami con i presenti, con il passato e ci proiettano nel futuro.

«Mi ha colpito quella foto del prete la bara in mezzo e l’unico parente consentito, tutte e due a un metro di distanza, dalla bara…. avevano la testa bassa, ma quella testa quell’atteggiamento non erano solo secondo me di tristezza per la morte di un caro, erano l’immagine più cruda della solitudine e della impossibilità a poter fare diversamente… Ho dovuto distogliere lo sguardo»

Questa pietà umana viene riservata a tutti, invece in questo momento non viene riservata più a nes-suno.


5. Numeri disumanizzati

La sospensione della dimensione del lutto individuale, dell’accompagnamento, del saluto e del ritua-le collettivo del funerale hanno mostrato anche un lato più angoscioso: la riduzione a numeri e per-centuali di persone con nomi e cognomi, con volti e storie di vita, soprattutto se si tratta di anziani la cui testimonianza mutilata poteva continuare ad arricchire la nostra conoscenza.
Ogni pomeriggio dal 24 febbraio 2020 è stato scandito dall’attesa del bollettino quotidiano che ag-giungeva al giorno precedente un nuovo dato numerico atto a trasformarsi in un puntino in un grafi-co.
Nella memoria sovvengono i versi ungarettiani dedicati ad un altro tremendo contesto: «Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/neppure tanto/ Ma nel cuore/ nessuna croce manca/ È il mio cuore/ il paese più straziato».
Tuttavia non è possibile accontentarsi di numeri e percentuali, per ritornare umani è forse importante rievocare volti e nomi, accompagnare i vivi con il ricordo collettivo dei morti, senza vergogna, senza tabù.

«Diversi hanno sollevato la vera questione quando si citano gli ultra o vecchi, come il sottoscritto, che sono costretti nelle case di riposo attuali e lì le stragi del Coronavirus sono funeste e dirompenti. Si citano anche i numeri che in questo caso sono altissimi. Ma vi sembra umano e razionale, tirare in ballo solo numeri e percentuali come a dire che in fondo questi desapareci-dos non hanno nome e cognome, sono solo vecchi, per di più rinchiusi nei dovuti ambienti di confino e per questo emeriti sconosciuti? Numeri e percentuali ogni sera. Questa è la brutalità della nostra società odierna . Triste quel popolo che ragiona in questa maniera perché ci vuole un nulla poi per parlare di Auschwitz contando solo dei numeri, e non di persone, e non di Shoà. Siamo in una mala società egoista e individualista, che è condannata a sparire, quando si dimentica la pietà per i morti si è senza speranza».

Per fare sì che ci sia una memoria per il dopo, che tutto non sia accaduto invano, che attraverso le parole dei testimoni si possa comprendere quanto è accaduto, è importante continuare a riflettere.

Trento, 16 aprile 2020
Marta Villa
Dottore di Ricerca in Antropologia della Contemporaneità
Docente a contratto di Antropologia culturale
Università degli Studi di Trento

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.