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Foucault negativo sintomatico: alcuni spunti etnografici // FASE 2

Nei dibattiti scatenati dall’epidemia di Covid-19, una delle figure chiamate più spesso in causa è quella di Michel Foucault. In particolare, per la sua idea di “biopolitica”. Ma le variegate forme dei riferimenti al filosofo francese – che vanno da un ricorso piuttosto sloganistico e superficiale alle sue proposte teoriche fino a un vero e proprio sarcasmo da social network nei suoi confronti – sono un’occasione per riflettere non tanto sul bisogno di prendere o meno le difese del filosofo, quanto sulla pertinenza del pensiero foucaultiano come chiave di lettura dell’emergenza in corso. Evitando ogni velleità di valutazione o rivalutazione in termini di storia della filosofia politica, un modo per farlo è quello di declinare tale pensiero in chiave di possibile riserva di suggerimenti etnografici per lo studio di quanto sta avvenendo e di quanto avverrà in relazione all’epidemia. Si tratta, cioè, di dare un’occhiata a cosa un ritorno sul concetto di biopolitica in Foucault può farci venire in mente per uno sguardo antropologico – in particolare nella prospettiva dell’antropologia medica – su quanto stiamo vivendo e per l’apertura di future piste d’intelligibilità etnografica.

C’è però bisogno di chiarire un presupposto. Per non cadere nei foucaultismi – che sono cosa diversa dai riferimenti critici al pensiero di Foucault – un primo passo consigliabile è quello di leggerlo e constatare, per esempio, come paradossalmente il concetto di “biopolitica” trovi pochissimo spazio nella produzione del filosofo francese. È poco più che accennata: un’analisi promessa e poco mantenuta. È come se i Corsi al Collège de France e altri interventi di quel periodo fossero un lungo preambolo alla discussione vera e propria del concetto di biopolitica, discussione che, in realtà, non è mai iniziata, perché lo studioso non ne ha avuto tempo, spento lentamente da un’epidemia precedente a quella del Covid-19 ma tuttora minacciosa: quella di HIV/AIDS. Foucault aprì dunque un cantiere limitandosi, in qualche modo, a porre solamente la prima pietra: per certi versi, aizzò una rissa e poi lasciò gli altri scannarsi, allontanandosi fischiettando. Chiarito questo presupposto, quello che in questa sede possiamo permetterci non è tanto entrare nell’arena filosofica e discutere i meriti e i demeriti speculativi del filosofo, quanto vedere se, da alcune delle sue tesi più rievocate e dibattute (e talvolta svilite) in questi giorni, possiamo in maniera vagamente eretica – fu del resto Foucault stesso a invitare a un uso della teoria sospeso, frammentato, sparpagliato – cogliere qualche spunto da declinare in prospettiva etnografica. Di questi numerosi spunti possibili, ne sintetizzo nove.


Primo punto: il concetto di “evento”. Sappiamo bene come le implicazioni di un’epidemia non abbiano a che fare solamente con le sue dimensioni strettamente biologiche, ma quanto siano conformate da precise scelte politiche rese manifeste da questioni quali le risorse della sanità pubblica, la selezione di chi curare e come, il rapporto fra sicurezza sanitaria e ordine pubblico, e così via. Al di là di tale osservazione ormai banale, emerge la rilevanza del concetto di “evento” nell’accezione foucaultiana, ovvero l’espressione di ciò che a livello politico si è fatto o non si è fatto affinché qualcosa accada o non accada: l’impatto e le conseguenze di un’epidemia, per esempio. In questo senso, un’epidemia va dunque considerata nei termini del rapporto fra l’evento e le strutture in cui quell’evento si manifesta: strutture sanitarie, politiche, economiche, e così via. È un tema che non solo si presta a una prospettiva etnografica feconda, ma che in questo senso ha già dato vita a volumi interessanti quali Unprepared. Global health in a time of emergency dell’antropologo Charles Lakoff e The pandemics perhaps. Dramatic events in a public culture of danger di Carlo Caduff. Sono opere che ci mostrano come le dinamiche di costruzione di un potenziale evento epidemico futuro strutturino alcune dimensioni – in termini di “salute globale”, protocolli, risorse –  del nostro presente, ovvero di una quotidianità che l’etnografia ha gli strumenti per osservare.

Secondo punto: il normale patologico. Uno dei pilastri portanti della teoria di Michel Foucault è la constatazione secondo cui nella modernità si sarebbe verificata una confluenza genealogica dell’esercizio del potere e della definizione e gestione del normale e del patologico. Tutto ciò sarebbe avvenuto attraverso le istituzioni sanitarie e il loro controllo politico, ed è il prodotto della tensione costitutiva fra legittimità politica e legittimità medico-scientifica. Uno degli interrogativi posti dalla crisi epidemica in corso è la definizione di parametri netti – ma strutturalmente incerti – entro cui individuare non solo i malati (i “contagiati” oppure, e già le cose si complicano, i “positivi sintomatici”), ma anche le persone sane ma minacciose (i “positivi asintomatici”, per esempio) o le persone sane ma a rischio (e quest’ultima categoria, in fondo, include la stragrande maggioranza della popolazione). In questa prospettiva, un tema di rilievo etnografico è l’osservazione delle procedure locali (i singoli ospedali o medici, le ASL o le Regioni), nazionali (il ministero della Salute) e sovranazionali (l’OMS) nel definire le categorie di sano e non-sano, di innocuo e minaccioso, di malato e di guarito, con tutte le relative conseguenze in termini di pratiche sanitarie e di ordine pubblico. 


Terzo punto: fra istituzione medica e destituzione politica. Una delle critiche più spesso rivolte a Foucault era il suo basarsi, nel parlare di potere e medicina, su una visione eccessivamente omogenea, se non monolitica, delle istituzioni scientifico-mediche. Cogliendo lo spunto di questa ragionevole obiezione, una possibile pista di ricerca etnografica si concentrerebbe sulla difformità e sulla frammentazione del sistema sanitario e delle concezioni che lo plasmano in funzione di agende politiche variabili. Sono difformità che è possibile osservare tanto negli uffici degli alti dirigenti sanitari quanto nei corridoi dei reparti degli ospedali. Il tentativo sarebbe allora quello di mettere in evidenza gli scarti locali rispetto alla norma e le maniere in cui tali scarti fanno emergere differenti concezioni da parte delle figure implicate, le loro interpretazioni e rielaborazione delle regole istituzionali, oltre agli spazi di “resistenza” e adattamento che si aprono. ù

Quarto punto: una biopolitica soggettiva. Nell’accezione che Foucault attribuisce al concetto di biopolitica, è più di governo delle popolazioni che di governo delle vite che si sta parlando. In una conferenza pronunciata in Brasile, a Bahia, nel 1976, Foucault dice: “La vita è ora diventata un oggetto del potere. Prima c’erano solo soggetti giuridici dei quali si poteva prendere i beni, e del resto anche la vita. Ora, invece, ci sono corpi e popolazioni”. La biopolitica foucaultiana è dunque prima di tutto una politica delle moltitudini: è una nozione che si riferisce a ciò che misura (la statistica, per esempio), a ciò che regola, a ciò che costruisce collettività umane attraverso tassi di mortalità o programma di pianificazione familiare, alle regole di igiene e alle disposizioni sanitarie, e così via. Se dunque la nozione di biopolitica rimanda più al corpo sociale e alla demografia che ai corpi dei singoli, una possibilità che abbiamo è quella di declinare in termini etnografici ciò che Foucault mirava a far emergere in termini di, da una parte, tecniche di oggettivazione e, dall’altra, tecnologie di soggettivazione. Ovvero: un’etnografia dello spazio che si apre fra le misure che riguardano intere popolazioni e la costruzione di sé stessi da parte degli individui. Le pratiche in relazione alle norme, le persone in relazione alle popolazioni. La società, dunque.


Quinto punto: obbedienza in cambio di protezione. Una delle chiavi di ricerca che l’idea di biopolitica ci offre riguarda i modi in cui certe forme di regolamentazione sociale costruite per affrontare situazioni di pericolo come una pandemia rimangono vive nelle pratiche e nelle regole anche dopo la fine dell’emergenza (a tutti i livelli, dai codici giuridici fino alle procedure amministrative locali ai regolamenti interni delle aziende o delle scuole materne, per esempio). Ma si tratta di uno scenario che non è reso possibile solo da un’imposizione dall’alto di tali poteri: perché essi resistano e siano effettivi, serve anche un processo di assimilazione e legittimazione dal basso. Processo su cui l’etnografia può concentrare la propria attenzione. Lo può fare prendendo in considerazione i discorsi e le pratiche che si relazionano a quelle regolamentazione, assecondandole o contestandole, e lo può fare chiedendosi qual è la disponibilità a offrire obbedienza (politica) in cambio di protezione (sanitaria). Qual è e in che modi si manifesta, dunque, la  richiesta – o il rifiuto – di autorità? Per ispirare una prospettiva etnografica su questo tema, verrebbe quasi da parafrasare il titolo del libro fondamentale del sociologo Michael Lipsky, Street-level Bureaucracy, in Street-level Biopolitics.

Sesto punto: verticalità e co-costruzione. Foucault invitava a rendere le questioni mediche – quali lo sguardo clinico o i protocolli terapeutici –  oggetti di dibattito, di contestazione e di dialogo, più o meno possibile o fecondo, con e fra le istituzioni sanitarie e politiche. È una dialettica che, per esempio, ha costituito uno dei punti di maggior interesse del mondo militante che si è costituito dagli anni Ottanta attorno all’HIV/AIDS. In questo senso, indagare etnograficamente le dinamiche di quelle interazioni e le relative configurazioni e riconfigurazioni è una prospettiva che permette di dare la parola a tutti gli agenti coinvolti – infermiere e infermieri, medici e mediche, epidemiologhe ed epidemiologi, malate e malati, amministratori e amministratrici, e così via – e di cogliere spazi di co-costruzione delle forme terapeutiche e delle misure di contrasto al contagio. Oppure, al contrario, di dare conto di quali sono gli elementi alla base della verticalità delle decisioni, ovvero della verticalità gerarchica del governo dei corpi e i suoi effetti pratici.


Settimo punto: un’indisciplinata etnografia della disciplina. A partire da esempi storici quali le misure contro la peste del XVII secolo, Foucault analizza i modi in cui, a suo parere, la disciplina medico-sanitaria è diventata disciplina tout court, a tutti i livelli sociali e istituzionali (scuole, eserciti, fabbriche, prigioni…).  Eppure, limitarsi ad affermare che il biopotere estende le sue logiche a tutti gli ambiti della vita collettiva è una scorciatoia tutto sommato poco feconda. Da un punto di vista etnografico, al contrario, si aprono spazi per l’analisi delle variazioni, dei dilemmi, dei conflitti, delle convergenze, delle forme di riproduzione o contestazione delle gerarchie, che siano gerarchie politiche e amministrative, o gerarchie fra malattie, o gerarchie fra elementi di rischio patogeno, o gerarchie dei malati da curare o meno e delle vite da proteggere o meno. In tutta questa situazione, i paradossi non sono anomalie o incoerenze: sono esattamente ciò che stabilisce il perimetro dello spazio di dialettica politica, nelle sue sembianze di conflittualità, convergenza, articolazione o organicità. In questo senso, possiamo farci l’augurio di un’etnografia dei paradossi.

Ottavo punto: la vita stretta fra corpi e popolazioni. Sappiamo come Foucault identificasse con il concetto di “anatomopolitica” l’insieme delle discipline che si esercitano sul corpo, che costringono a specifici comportamenti e che determinano un ordine sociale delle cose. In questo senso, potremmo individuare come pilastri della sua analisi del potere la disciplina, i regolamenti, l’anatomopolitica e la biopolitica. Da questa rigida categorizzazione potremmo poi dedurre che, isolando il prefisso bio- dalla politica, Foucault pare dissolvere la vita in due oggetti: i corpi e le popolazioni. Ammessa e concessa questa lettura, possiamo autorizzarci a un approccio etnografico che s’infili proprio in mezzo a quelle due sponde, in mezzo ai corpi e alle popolazioni, cioè che sappia stagliarsi nell’orizzonte della tensione fra quei due poli, e che lo faccia per osservare sul campo come, nella pratica e nelle pratiche, gli individui si costituiscano come, potremmo dire, “intrapolitiche” incorporate e le popolazioni come “intracorpi” politicamente qualificati.

Nono punto: il vivente e i viventi. Nel capitolo «Diritto di morte e potere sulla vita», verso la fine de La volontà di sapere (1976), il filosofo afferma che le forme di potere e di sapere si affacciano sui processi della vita e tentano di modificarli e controllarli. Viene allora da chiedersi se, come suggerisce Didier Fassin ne Le vite ineguali, non sia il caso di parlare, piuttosto che di biopolitica, di biolegittimità, ovvero la postura secondo cui la vita è da proteggere a ogni costo e soprattutto, problematicamente, a scapito di una sua qualificazione politica. Da questa prospettiva possiamo allora trarre l’indicazione di un’altra pista etnografica da seguire: l’analisi del rapporto fra le retoriche della protezione della vita e le pratiche effettive del giudizio differenziato del valore delle singole vite. Ne risulterebbe una etnografia delle traduzioni concrete delle idee di vita e di protezione delle vite, e dei modi in cui le pratiche quotidiane modificano o conformano quelle idee. In questo senso, l’idea di biopolitica risulta da intendere e declinare – o perfino sostituire – in termini di politica della vita: una politica che ha il vivente come oggetto e i viventi come soggetti. E lo stesso potremmo dire di un’etnografia della vita al tempo del Covid-19.

Milano, 24 aprile 2020
Lorenzo Alunni
Docente di Antropologia medica
Università di Milano Bicocca

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