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Antropologia dei disastri: spunti di riflessione #2

(continua) Il disastro non è un fenomeno fisico, immediato e repentino. L’abbiamo già detto, è un evento,  un fenomeno sociale, ma soprattutto è un processo – determinato da un agente fisico che impatta con la comunità umana. Come tale si compone di molteplici passaggi, di periodi di gestazione, di maturazione, di avvertimenti: ogni gruppo umano è caratterizzato da una propria dose di vulnerabilità, fisica e sociale, determinata anche dalle modifiche apportate nel tempo nella relazione uomo-ambiente-tecnologia e dalle scelte intraprese dai decisori politici. È chiaro, ma non per questo scontato, che siamo ormai per lo più esposti ad un grado così alto di vulnerabilità che la fragilità è intrinseca alla nostra realtà, la crisi costantemente in agguato.

Veniamo al virus. Su di esso è ampio, diffuso, rapido e urgente il discorso scientifico, del sapere esperto. Fonti e voci autorevoli non mancano. Ciò che nel tardo Novecento si è iniziato a mettere in discussione è però il valore univoco, oggettivo, universale, unanime di questo sapere. Infatti, purtroppo, non è così: la ben nota scienza esatta è inevitabilmente accompagnata da fattori di incertezza e di incompiutezza, di parzialità e di disaccordi interni alle stesse comunità scientifiche.

Per tale motivo sono stati introdotti l’elemento del rischio e conseguentemente la risk analysis. Nuovamente si pongono i limiti del tecnocentrismo: queste analisi, basate per lo più su numeri e statistiche – indispensabili, certo – necessitano di essere integrate dalle variabili culturali, al contrario assenti da contesti estrapolati, appiattiti su un indistinto spazio-tempo, interpretati come deculturati e privi di agency. Da qui sono spesso derivate le incomprensioni e l’inefficacia dei provvedimenti emanati dalle istituzioni politiche e/o sanitarie, percepite come estranee alla comunità. La comprensione del contesto sociale, culturale e ambientale, delle trame del suo tessuto, delle relazioni, delle peculiarità dei tanti microcosmi che compongono il più ampio puzzle dell’umanità è fondamentale per rispondere tempestivamente e concretamente alle dinamiche che prendono vita in un disastro. La percezione del rischio, sul piano sia individuale sia condiviso, la percezione dell’agente contaminante stesso devono essere oggetto di analisi e comprensione. Per una parte del sentire comune, il virus non è quello descritto dalla medicina, dall’epidemiologia: assume forme e connotati che variano in base all’accesso all’informazione di cui ciascuno dispone, in base al livello di istruzione, in base ai propri sistemi di credenze. Ecco allora chi esce senza motivo, chi inizialmente non ci ha fatto caso, chi ha dato adito ad episodi di razzismo, chi è intransigente, chi ha paura, chi non ha fiducia.


Infine due aspetti: il processo di blaming, di attribuzione di colpa e quello di aggregazione e disgregazione che coinvolge la società civile. Per quanto concerne il primo, è un iter che ricorre in ogni situazione di crisi emergenziale, si ricerca inevitabilmente un responsabile, qualcuno da incolpare o, in assenza, un capro espiatorio che funga non solo da valvola di sfogo ma anche da riferimento simbolico cui addossare malcontento e disgrazie, esorcizzando i nostri mali. Ciò viene spesso indirizzato contro i decisori politici, rei di non aver saputo gestire una data situazione e che vedono quindi vacillare il loro potere, la loro credibilità, per contro rafforzarsi quella di altri. Ma la colpa può essere attribuita anche a chi non è “gerarchicamente” diverso da noi – e qui si fondono i due processi nominati a inizio paragrafo: tutti coloro che mostrano lineamenti asiatici, i runners, chi esce con il cane, chi esce con il bimbo, chi esce a fare compere giudicate superflue. Trattandosi di un nemico invisibile potenzialmente presente in ognuno di noi, rabbia, diffidenza, malumore, sospetto e facili accuse e riprovevoli delazioni si riversano su chiunque, si auto alimentano mano a mano che i sintomi di disagio da prolungato isolamento si fanno sentire a vario grado per tutti. Disaggregazione e individualismo, egoistico spirito di sopravvivenza, menefreghismo per il benessere altrui sono uno dei tanti tasselli che compongono il mosaico di azioni interne alla rete dei rapporti sociali. Non manca la solidarietà attiva da parte di chi offre supporto di ogni genere – dai volontari che organizzano la spesa per chi è in difficoltà, donazioni, coloro che prestano servizio in vari settori a vario titolo, operatori di sorta e via dicendo – contribuendo a rafforzare il senso di collettività, di vicinanza e coesione, di aggregazione, sì da colmare il vuoto generato dalla distanza fisica cui bisogna attenersi. 

C’è poi la solidarietà spesso bieca, ipocrita, buonista e molto parziale di chi millanta, da dietro uno schermo, la riscoperta di presunti valori tradizionali, pregni di maschilismo, di stampo conservatore, che inneggia a cambiamenti futuri in cui riscopriremo un ameno e idealizzato pianeta buono ma maltrattato, di cui improvvisamente sapremo tutti prenderci cura, lavandoci la coscienza dai decenni di paraocchi, di noncuranza e inazione. Invariabilmente in un’ottica antropocentrica, dove l’anthropos è l’uomo bianco, europeo, tutto-sommato-benestante, che non ambisce ad altro che al mantenimento del precedente ordine economico mondiale. Attorno a questo “vogliamoci bene” da tastiera si creano forme di aggregazione fittizie, inconsistenti e superficiali destinate ad esaurirsi al primo giorno di libera uscita che ci verrà concesso e a tramutarsi nel solito blob della normalità, scissa tra chi lottava prima e lotterà poi e chi blatera da dietro uno schermo artificiose banalità avulse da una realtà che molti denunciavano, inascoltati, già tempo addietro. Parte della società è in sospeso, parte è mandata al macello, il resto del pianeta continua a patire i danni arrecati dagli abomini di un’industrializzazione senza freni né remore, da un consumismo sfrenato e aleatorio: tutto ciò è sempre lì che ci aspetta. Fenomeni di portata estrema continueranno a verificarsi, avvalendosi di un elevato grado di vulnerabilità, delle tante falle originate da un sistema incapace di guardare oltre al profitto, innescando così disastri tra loro sempre più connessi. Più consapevolezza e un’inversione di tendenza devono subentrare nelle nostre pratiche di vita quotidiana. A cominciare da adesso.

Bibliografia di riferimento:
"Antropologia dei disastri" di G. Ligi, 2009, edizioni Laterza, Bari. 

Soave (VR), 6 aprile 2020
Lara Bettoni
Laureata in antropologia presso Università Ca' Foscari Venezia

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.