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Dall’anomalia al bisogno di significato [STUDENTS' CORNER]

L’epidemia del coronavirus è un evento anomalo rispetto al normale andamento della vita sociale. L’interruzione dell’ordinario scorrere del tempo pone l’uomo di fronte al problema del significato del suo universo culturale. Il disordine penetra nelle fessure semantiche della società e la smuove. Ed è proprio sul significato che questa epidemia assume nel suo contesto che, secondo me, è interessante interrogarsi.

Il coronavirus si inserisce nel contesto storico-ideologico dell’Antropocene, termine che, nato in seno alla geologia, arriva a sintetizzare la diffusa sensibilità ambientale dell’uomo occidentale contemporaneo. Il rapporto dell’uomo con la natura è un tema che pervade ormai la società ed emerge non solo da molti prodotti della nostra cultura (arte, media, politica…), ma dalla nostra stessa concezione degli eventi. E così anche questo virus appare come una conseguenza degli abusi ambientali.

Prescindendo dalle effettive cause del virus (che comunque vengono presentate in quest’ottica, ma io non sono un giornalista), è diffusa la concezione per cui l’uomo debba subire questa punizione perché ha infranto dei tabù. Osservando il mio piccolo campo etnografico, il web, noto spesso vignette disegnate dove la natura, con gli animali, si prende gioco dell’uomo in questa situazione di pandemia, che è stata creata da lui stesso. Nuovo Lucifero, l’uomo antropocenico ha voluto ergersi al cospetto della Natura e si è fatto demiurgo al posto suo, infrangendo la gerarchia che lo subordinava ad essa. Perciò adesso è in quarantena. Sul piano concettuale, quindi, il trattamento riservato a questo incidente sociale è il suo reinserimento in uno schema razionale, una risignificazione in linea con i principi del suo particolare contesto storico e sociale.

Inscritto in un simile quadro concettuale, il coronavirus emerge quasi come la realizzazione di un’escatologia ambientalista. Un evento tragico e distruttivo che può segnare la fine di un ciclo, ma che può, al contempo, portare a un nuovo inizio. E il nuovo inizio consisterebbe nella speranza di una nuova e più elevata responsabilità nel rapporto uomo-ambiente.


A questo punto farei anche una considerazione sulla concezione del tempo: se a livello cosciente noi pensiamo il tempo come una linea unidirezionale, mi sembra che questa pandemia abbia fatto emergere una soggiacente concezione ciclica del tempo, come quella che Sahlins attribuisce alle popolazioni hawaiane, o come nella mitologia indiana (tra gli altri, Eliade: Il mito dell’eterno ritorno). Forse in questo caso sarebbe più appropriato definirla una concezione a spirale perché, nell’ottica sociale, una volta conclusa la quarantena, ci si propone un miglioramento delle condizioni di vita e non un identico ripetersi della storia. In ogni caso, dopo un momento di destabilizzazione sociale e semantica, l’uomo si reinventa, stabilisce un nuovo inizio e questo inizio comprende anche un nuovo significato, cioè un riposizionamento dell’uomo nel mondo.

Credo che questa concezione sia individuabile anche, a livello più ampio, nella stessa necessità di inventare la nuova era dell’Antropocene: piuttosto che di cicli cosmici, noi parliamo di ere geologiche perché questi termini si confanno di più alla nostra mentalità scientifica, sedicente secolarizzata, e ci soddisfano. Ma probabilmente si tratta di una stessa necessità dell’uomo di concettualizzare e scandire il tempo in modo da renderselo comprensibile, dotandolo di un senso. Così l’uomo si reinserisce nel flusso della storia.

Questo momento di transizione è quindi tutto proteso al futuro, carico di aspettative e fecondo. In Purity and Danger, Mary Douglas scrive: “Nel disordine non vi è un modello, ma un infinito potere di crearne. […] Riconosciamo che è distruttivo per i modelli esistenti, ma anche che ha delle potenzialità. Esso simboleggia sia il pericolo che il potere”. Insomma è un terreno fertile. E se da un lato questa fertilità assume l’aspetto di un frenetico moltiplicarsi delle norme imposte, cioè un potenziamento del biopotere (che qui prende il significato di un ristabilimento forzato dell’ordine sociale e simbolico); dall’altro lato, a livello popolare, questo si traduce in creatività: molti di noi, ad esempio, si stanno dedicando all’arte, in ogni sua forma (compresa quella culinaria). Personalmente credo che l’arte sia non solo una risposta automatica, di tipo psico-fisiologico, al bisogno di un significato della vita, ma che sia espressione di un’implicita padronanza di tale significato.
Ma lo stesso senso di solidarietà e il rafforzamento di una coscienza sociale (seppur temi piuttosto controversi) mi sembrano prodotti della creatività di questo momento, scaturiti dalla medesima necessità di rilegare insieme il tessuto semantico della società.
Perciò a mio parere anche l’aspetto della creatività è riconducibile al tema del significato.

In conclusione, voglio esprimere la mia contentezza, assolutamente inopportuna e fuori luogo, perché se quello che ho scritto è almeno in parte giusto, vuol dire che la ricerca di significato continua ad essere fondamentale per l’uomo. Pur se a livello inconscio o meccanico, che sia espresso in termini scientifici, etici, sociali o individuali, di costrizione o di libertà, di distruzione o di creazione o di qualsiasi altra forma possa assumere, il bisogno di significato sembra uno di quei principi che stanno alla base della vita di tutte le culture, anche della nostra. L’esistenza di un significato giustifica la vita e la sancisce a dispetto del nulla. Perciò noi lo cerchiamo e la nostra stessa ricerca è il motore della vita.

D’altro canto può anche darsi che la mia stessa nozione di significato non sia che un prodotto della mia cultura…

Bologna, 27 aprile 2020
Silvio Mottolese
Studente del Corso di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia
Università di Bologna

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