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Tabu

Nel corso della sua esistenza, l’antropologia sociale e culturale ha elaborato innumerevoli concetti per permettere la comprensibilità dei fenomeni sociali che caratterizzano gli esseri umani. Le infinite varianti in cui le società umane si sono organizzate e in cui hanno pensato sé stesse, hanno generato il bisogno di proporre numerose teorie, le quali si sono rivelate, tuttavia, spesso tanto specifiche quanto effimere. Classificazioni che parevano auto evidenti e certezze teoriche apparentemente inamovibili, si sono velocemente susseguite una dopo l’altra in una disciplina che ha a lungo faticato a trovare stabilità teorica. E nonostante ciò, sarebbe a mio avviso un errore rifugiarsi in solipsismi autoflagellanti che dichiarano l’impossibilità della pratica etnografica o l’inutilità tout court delle teorie antropologiche. Ma ben prima di me Eric Wolf (1990) espresse queste idee meglio di quanto possa fare io e con parole che mi paiono tuttora attuali. Per questo lascerò che parlino per me riportandole qui:

“I think that the world is real, that these realities affect what humans do and that what humans do affects the world, and that we can come to understand the whys and wherefores of this relationship. We need to be professionally suspicious of our categories and we should be aware of their historical and cultural contingencies; we can understand a quest for explanation as approximations to truth rather than the truth itself. But I also believe that the search for explanation in anthropology can be cumulative; that knowledge and insights gained in the past can generate new questions, and that new departures can incorporate the accomplishments of the past.” (enfasi mia).

E’ sulla base di questo assunto che ritengo opportuno guardare a concetti passati dell’antropologia per aiutare a comprendere un’attualità sfuggente e drammatica. Ovviamente sarà necessario concedere una certa licenza poetica per stirare fin quasi al punto di rottura concetti creati per ambiti a volte profondamente diversi da quelli in cui si tenterà di applicarli. Ma gli orizzonti di pensabilità dischiusi dall’uso di idee quasi dimenticate, potranno forse aiutare a ordinare un reale opaco e in rapidissimo riassestamento.

Il concetto che propongo qui di maltrattare, costringendolo in un contesto apparentemente estraneo a quello della sua origine, è quello di Tabu: un oggetto (materiale o simbolico) interessato da interdizioni e attentamente normato, tanto da venire spesso reso intoccabile, a volte indicibile o addirittura impensabile. E’ chiaro come d’altronde concetti come questo non possano venire usati in modo ingenuo e acritico, quanto piuttosto come strumenti di ragionamento che tengano conto delle loro criticità e limitazioni (per una illustrazione introduttiva sull’origine e il contesto di costruzione del concetto di Tabu in antropologia, oltre che della sua organicità ad una visione evoluzionista e funzionalista, si rimanda a Pignato, 2001). Il motivo per il quale tale concetto mi pare interessante da rievocare in questi giorni di crisi sanitaria, è che vi sono diversi elementi del dibattito pubblico che sembrano rientrarvi abbastanza confortevolmente. Di alcune cose nell’attuale configurazione socio-storica, è impossibile, o molto difficile, parlare pubblicamente. E questa impossibilità genera delle ellissi nella spiegabilità dei fenomeni drammatici in cui siamo immersi, fortemente caricati di un’emotività collettiva, costretta a trovare oggetti alternativi su cui posarsi. Ciò che vorrei quindi fare è proporre una breve serie di temi che mi pare di aver individuato come possibili candidati per successive indagini nel tema dell’emersione o della soppressione dell’indicibile.


Uno di tali oggetti, fortemente ritualizzato e stilizzato nel discorso pubblico, e pertanto quindi anche sterilizzato dalle conseguenze radicali che una sistematica risoluzione richiederebbe, è quello delle relazioni con la post-colonia. I paesi del terzo mondo continuano a venire intesi come luoghi di un’umanità qualitativamente diversa, in cui quasi un milione di morti all’anno per dissenteria risultano pensabili come normali. L’epidemia corrente, che ha colpito per prima le aree centrali del sistema capitalistico mondiale, ha per un istante catapultato almeno in parte quel centro nella realtà quotidiana della periferia. Eppure lo shock della tragedia decisamente reale che stiamo vivendo, invece di dimostrare l’inaccettabilità universale di ciò che altrove si avvicina alla normalità, sembra nuovamente negare un comune statuto di umanità ad alcune parti del mondo, rimarcando implicitamente la frattura artificiosa tra un noi ed un loro ai quali in fin dei conti si potrebbe applicare, e si è a lungo applicato, una diversa categoria di ciò che è moralmente accettabile.

Un altro oggetto messo tra parentesi è stato quello di classe: concetto che pareva ormai neutralizzato dalla sua carica conflittuale, dichiarato morto, ma che riemerge nel momento in cui si riscopre la rilevanza della stratificazione di lavori (e di lavoratori) ritenuti essenziali o meno. La soppressione di tale tema, parzialmente ribaltata da azioni di contestazione collettiva quali sono stati i numerosi scioperi (in Italia, ma anche nel resto del mondo) durante l’epidemia, impedisce di individuare i luoghi di un contagio che continua a mietere vittime, generando quindi il bisogno di trovare in sparuti corridori solitari i nuovi colpevoli, untori (o, per connettersi con un altro termine antropologico classico, stregoni?) su cui dirigere un dolore sociale soverchiante.

Ulteriore tema che propongo, caro alla tradizione marxista anche in antropologia, è quello della produzione. Apparentemente scomparsa dal discorso pubblico, scopriamo solo in queste settimane la sua centralità nella letale mancanza di oggetti materiali come mascherine e ventilatori, ma anche di sparute dosi di antivirali sperimentali come il Remdesivir e di inibitori JAK e dell’interleukina-6. Questi oggetti acquistano un valore d’uso inestimabile e divengono oggetto di relazioni di dono e reciprocità spesso non disinteressati (altri termini classici dell’antropologia), sul piano di comunità immaginate collettive (ma capaci di esercitare un’azione sul mondo decisamente reale), come case farmaceutiche e istituzioni pubbliche, in cui le prime donano, all’implicito prezzo di enormi risparmi in termini di sperimentazione, le proprie scorte di medicinali per uso compassionevole (il termine indica tecnicamente la possibilità di somministrare farmaci sperimentali a casi in pericolo di vita).

Infine vorrei aggiungere un aspetto che ultimamente mi sembra stare riacquistando forza: quello di un fascismo strisciante che non sembra essere mai morto in un paese che, al contrario di altri vicini europei come Germania o Spagna, non ha mai tagliato i ponti genealogici con quell’eredità (il che non toglie che simili processi di riemersione di organizzazioni di estrema destra non stiano avvenendo anche in tali paesi e nel resto d’Europa, vedi Gingrich & Banks 2006 e Kalb & Halmai 2011). Non ci si vuole riferire qui a vaghe idee di fascismo interiore o ur-fascismo che rischierebbe di trasformare chiunque in una camicia nera (né alla possibilità improbabile di un suo ritorno), ma al fascismo reale, istituzionale e sostanziale, che non ha mai abbandonato parti di una classe dirigente italiana in continuità tra prima e dopo la seconda guerra mondiale. Se è indubbio che il regime democratico-liberale del dopoguerra è stato ed è tuttora molto distante da quello fascista del ventennio, è anche vero che modalità di governo e di gestione della cosa pubblica italiana hanno mantenuto in alcuni casi una notevole continuità (si pensi ad esempio al breve intervallo del governo Tambroni), pur vigendo una cancellazione formale della parola “fascismo” al suo interno. Sarebbe necessario forse indagare come fenomeni di adorazione di massa (anche esplicitamente erotica) di figure leader del contesto politico italiano siano collegabili con tale continuità. Sarebbe forse anche necessario capire se l’impossibilità di esplicitare le cause sistemiche materiali della tragedia sociale che stiamo vivendo concretizzino un rischio di generare nuove adesioni a narrazioni escludenti. Tale tragedia infatti, sembra esplicitare un dramma sociale (Turner 1957), con le annesse accuse di responsabilità stregoniche di forze che agiscono a distanza (spaziale quanto logica, nei termini di quelle ellissi di spiegabilità di cui sopra) in un “conflitto […] endemico nella struttura sociale”, ben distante però nel nostro caso dalla funzione di rimarcare “l’unità del gruppo” (ibidem: 129), a meno che per gruppo non si intendano parti sociali specifiche (in termini partitici e di classe) con interessi altrettanto specifici.  In particolare ci si potrebbe chiedere se, con la probabile lunga coda di questa crisi, la possibile catastrofe epidemica (che rischia di diventare molto peggiore nel sud del mondo che non nei paesi del centro) potrà causare l’attribuzione di responsabilità di nuovi contagi a persone provenienti da tali aree. Attribuzione di responsabilità che rischiano di aggregarsi lungo linee di ragionamento ormai divenute senso comune, relative all’attribuzione di appartenenza e alienità, anche grazie a quelle tabuizzazioni degli aspetti sopra elencati. D’altronde ciò si è già visto brevemente poco prima dell’esplosione pandemica con i numerosi attacchi xenofobi verso persone semplicisticamente identificate come orientali. In effetti l’indice di gradimento dei leader politici italiani crescono sia per il premier Giuseppe Conte che per Giorgia Meloni (quest’ultima dalle simpatie e genealogie ideologiche piuttosto chiare), il cui partito ha assistito ad una recente importante crescita di consensi. Un’enfasi sulla salute pubblica e la protezione dei cittadini potrebbe paradossalmente dar forza infatti a parti sociali mai sopite che si giovano di quei non detti di cui si diceva sopra, pur riconoscendo difficile una loro nuova egemonia. Nondimeno, seguendo l’esempio di interessanti e recenti studi di antropologia su movimenti di estrema destra (vengono alla mente, tra le altre Cammelli 2015 e Pasieka 2019, ma anche Holmes 2000 e 2019) e le condizioni del loro emergere, gli spunti qui indicati possono forse aprire piani d’indagine per la nuova congiuntura che si va in questi mesi aprendo.

Bibliografia

Cammelli, G. Maddalena. 2015. Fascisti del terzo millennio. Per un'antropologia di CasaPound. Ombre Corte Editore.

Gingrich, Andre, and Banks, Marcus. 2006. Neo-Nationalism in Europe & Beyond. Perspectives from Social Anthropology. Berghahn Books.

Holmes, R. Holmes. 2000. Integral Europe: Fast-Capitalism, Multiculturalism, Neofascism. Princeton University Press.

Holmes, R. Holmes. 2019.  Fascism at eye level. The anthropological conundrum. Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology. Volume 2019, Issue 84 (Jul. 2019): Counter Politics, pp. 62-90.

Kalb, Don, and Halmai, Gábor. 2011. Headlines of nation, subtexts of Class. Working-Class Populism and the Return of the Repressed in Neoliberal Europe. Berghahn Books.

Pasieka, Agnieszka. 2019. Anthropology of the far right. What if we like the ‘unlikable others’? Anthropology Today. Vol. 35, No. 1, February 2019.

Pignato, Carmela. 2001. Totem, mana, tabù. Archeologia di concetti antropologici. Booklet Milano.

Turner, Victor. 1957. Schism and Continuity in an African Society. Study of Ndembu Village Life. Manchester University Press.

Wolf, R. Eric. 1990. Distinguished Lecture: Facing Power - Old Insights, New Questions. American Anthropologist, New Series, Vol. 92, No. 3 (Sep., 1990), pp. 586-596.

Milano, 11 maggio 2020
Andrea Tollardo
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

Il presente contributo è stato scritto da Andrea Tollardo e raffinato grazie alla revisione dei suoi colleghi di dottorato nell'ambito del Laboratorio di Scrittura realizzato dal DACS. Il testo intende rappresentare la prima voce di un "Piccolo dizionario antropologico della pandemia", finalizzato a interpretare l'attualità attraverso concetti chiave della disciplina. 

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.