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La liminalità dei corpi [STUDENTS' CORNER]

Sono trascorsi esattamente due mesi da quella notte di marzo in cui venne decretata l’estensione della “zona rossa” a tutta Italia. Gli spostamenti vengono vietati; ai cittadini viene imposto l’obbligo di restare a casa, se non per emergenze di salute o motivi lavorativi. Da quel giorno, l’Italia si blocca. Le mura di casa diventano i confini del proprio mondo, le relazioni interpersonali sono delegate al virtuale. Molti altri paesi dell’Unione Europea e del mondo hanno adottato drastiche misure di contenimento del virus Covid-19, riconfigurando profondamente le vite dei cittadini e gli immaginari collettivi sull’altro, sul passato e sul futuro. Ogni evento, locale o mondiale, si lega inevitabilmente ad un’unica costante: il contagio. Lavoro, tempo libero, economia, religione, relazioni sociali, benessere psico-fisico, educazione. Tutti questi aspetti sono interconnessi nell’incertezza del momento e co-partecipano ad un processo di rivalorizzazione individuale e collettiva. Il virus assume le sembianze di un rituale di passaggio a cui tutto il mondo è obbligato a sottoporsi. Ci troviamo attualmente nella fase liminale (Van Gennep, 2002): una fase di sospensione identitaria, di risignificazione dell’ambiente, del sé e dei propri ruoli, siano essi sociali o legati maggiormente alla sfera dell’intimità. Ne consegue un pervasivo - e forzato - lavoro sul sé.

Contemporaneamente, stiamo portando addosso i segni di questo processo: come spesso accade, in un momento di crisi la società intensifica il controllo dei corpi (Scheper-Hughes, Lock, 1987). I segni della quarantena si imprimono fisicamente su e dentro di noi, incorporando la liminalità del rituale e manifestandosi nella fisicità di tutti noi. Quando questo momento passerà, la condizione di ognuno di noi, obbligato nell’oggi a riflettere più o meno profondamente sul sé, sarà inevitabilmente variata, sia a livello microscopico - nelle relazioni più personali - sia a livello più ampio - nella propria società di appartenenza. 

Richiedenti asilo sull'isola di Lesbo, in Grecia

Il virus è quindi permeante, totalizzate, estremizzante; assume le sembianze dell’ideologia. Niente viene più espresso se non in relazione ad esso. Cosa succedeva nel mondo prima di questa crisi? Di cosa si discuteva? Migliaia di migranti erano bloccati sul confine greco-turco, Lesbo era teatro di scontri violenti, la popolazione di Idlib stava fuggendo da una guerra instancabile. Dov’è tutto questo, ora? Ancora è, esiste, a prescindere dal virus. Ma in funzione di esso viene letto. Non si parla più di profughi al confine greco-turco, ma di quanto potrebbe essere rischioso un loro contagio. Idlib viene nuovamente dimenticata. Allo stesso modo, sui giornali, le notizie non concerni al virus si trovano in sezioni minori, sottolineando l’estraneità di tali notizie alla situazione attuale. 


Come si modifica il nostro atteggiamento verso “l’esterno”? Come cambiano le dinamiche sociali e su quali elementi si pone maggiore attenzione? Sono domande che necessitano risposte complesse e che non possono né devono essere decontestualizzate. Tuttavia, la crisi sanitaria mette sicuramente in evidenzia forme di disuguaglianza dalle radici antiche; le loro intersezioni consolidano la gerarchizzazione di classe la quale, a sua volta, influisce fortemente sulle possibilità di benessere e di sopravvivenza di specifiche fasce di popolazione. Emergono sempre più drasticamente le carenze dei sistemi sanitari, le nature più profonde dei politici, le ingiustizie e le ipocrisie della democrazia, la pericolosità di una comunicazione mal gestita. Ed in tutto questo, il Covid-19 cessa di essere altro da noi, il nemico comune delineato dal linguaggio bellico utilizzato dai media - linguaggio che forse vuole proprio celare e negare l’ormai famigliare convivenza con il virus. Esso si trasforma, diventa una lente attraverso cui guardare alla realtà; un termine di paragone per il passato (“quando non c’era il virus”, “quando si poteva uscire”), in un binomio di contrapposizione al negativo con l’oggi, e per il futuro, il quale dipende profondamente dall’evoluzione incerta e speranzosa della situazione attuale. 

Quello che resta - e che deve restare - è la ricerca di una sempre nuova consapevolezza, un memento sull’importanza della conoscenza anche e soprattutto in momenti così difficili, per rinnegare l’odio, accogliere la differenza e, faticosamente, tenere duro, portando avanti le riflessioni nate nell’oggi ed utilizzando il virus come strumento d’analisi e di maggior comprensione sulla realtà. 

Scheper-Hughes, N., Lock, M.M., 1987,  “The Mindful Body: A Prolegomenon to Future Work in Medical Anthropology”, in Medical Anthropology Quarterly, New Series, Vol. 1, No. 1 (Mar., 1987), pp. 6-41

Van Gennep, A., 2002, “I riti di passaggio”, Torino, Bollati Boringhieri

Milano, 6 maggio 2020
Lidia Tortarolo
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università di Milano Bicocca

Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.