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Stare dentro i fatti e curare i vuoti che lasceranno

È come un viaggio indietro nel tempo. Del resto, l’antropologia ti riporta sul campo infinite volte, anche quando è ormai concluso, riproponendo nuovi interrogativi e nuove connessioni. Mi sono resa conto di quanto i momenti bui di oggi in Italia mi riportino a quelli di ieri vissuti durante il mio lungo campo in Burundi nel 2015. Beninteso, ci sono enormi differenze tra le due situazioni, ma dal mio personale punto di vista l’accostamento è inevitabile, perché sono gli unici due casi in cui ho sperimentato una quotidianità seriamente troncata e per certi versi surreale.


Mi capita spesso in questi giorni di sentirmi come risucchiata nello spazio e nel tempo e ritrovarmi catapultata nelle strade di Bujumbura. Mi occupavo di violenza nelle sue molteplici sfaccettature - ma con particolare attenzione a quella politica - e di come essa, da un punto di vista antropologico, si ripercuoteva sulla collettività in contesto urbano, obbligando sostanzialmente gli individui a ripensare il quotidiano sulla base di strategie di resistenza. L’etnografia fu molto più densa di quanto mi aspettassi. La grave crisi politica che investì il paese nel 2015, innescata da elezioni presidenziali estremamente controverse, trasformò la capitale in uno spazio di violenza che paralizzò completamente le pratiche quotidiane e impose forti restrizioni alla libertà delle persone sotto tutti i punti di vista.

La violenza in Burundi è un fenomeno strutturale, non occasionale, e per capirne le ragioni e le peculiari forme che ha assunto nel tempo bisognerebbe partire dalle devastazioni operate dai colonizzatori europei. In questa sede, tuttavia, mi basta dirvi che il continuum della violenza in Burundi ha prodotto una certa consuetudine, costringendo a fare i conti con la morte in maniera piuttosto frequente. Nei momenti peggiori, quando non ci si trova soltanto di fronte alla sospensione delle normali attività quotidiane, ma alla sospensione dei diritti fondamentali dell’uomo, la morte e l’orrore sono tangibili nella vita di tutti i giorni. È il terrore generato da questa sospensione che svuota le strade, immobilizza il quotidiano e inebetisce di fronte a corpi torturati o svaniti nel nulla, la cui assenza imprigiona i vivi in un’agonia perenne. L’impossibilità di ritualizzare la morte è una cosa seria e causa di gravi ripercussioni psicologiche. 

I miei diari di campo sono pieni di testimonianze e riflessioni sulla “gestione della morte”, e rileggendole in questi giorni mi hanno fatto pensare a quanto sarà difficile, anche qui, gestire la morte di persone che stiamo contando una dopo l’altra senza poterle raccontarle perché sono tante, repentine, ravvicinate nel tempo. Queste morti sono troppo dolorose per chi non ha potuto viverle da vicino assistendo i propri cari che, così, se ne sono andati via in solitudine. La violenza del virus negherà inoltre a parenti, amici e a tutti quelli che avrebbero voluto farlo, di stringersi attorno a quei corpi e metabolizzarne la dipartita. 

Qui non ci sono colpi stato e colpi d’arma da fuoco a mettere a rischio la nostra vita obbligandoci dentro le mura di casa, c’è la violenza della malattia. L’antropologia spesso ci porta lontano, ci permette di costruire connessioni e riflettere sulle diverse forme di umanità, sulla struttura che si sono date, su come hanno deciso di abitare gli spazi, organizzare il tempo, suddividere i ruoli, su come hanno imparato ad adattarsi a situazioni ostili e molto altro, per poi riportarci a casa più consapevoli. Sull’adattamento a situazioni ostili, comprese quelle che per un motivo o per un altro mettono a serio rischio la vita dell’individuo e della collettività, questa inedita emergenza ci porrà inevitabilmente di fronte alla necessità di curare una sofferenza nuova, almeno nella forma che sta assumendo. Soprattutto nelle zone più colpite, le pagine dei necrologi sono state paragonate a bollettini di guerra, drammaticamente stracolme di nomi, cognomi e piccoli volti in fotografia. La solitudine in cui sono sprofondate ormai più di 5.400 persone in Italia e lo strazio di chi rimane a galla, dovranno far pensare a cure adeguate e a riparazioni simboliche del trauma.

Questo distanziamento, non solo tra i vivi, ma anche tra i vivi e i morti, che ha impedito la cura dei legami e creato vuoti, sarà un punto su cui lavorare. 

Torino, 23 marzo 2020
Marta Mosca
Dottorato in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell'Educazione
Università di Torino

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.