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Cari antropologi vi scrivo (così mi distraggo un po'...)

In questi (lunghi) giorni di quarantena (quasi) planetaria, alcuni antropologi hanno preso parola. Appartenendo anche io a questa tribù accademica (condividendo con loro un modo di guardare la realtà, raccogliere dati e produrre interpretazioni) so che non siamo epidemiologi, medici, biologi, virologi; inoltre, che non sappiamo fare prognosi, diagnosi, terapie (nel senso medico); e soprattutto, sono consapevole del fatto che non siamo mai voluti essere dei tuttologi. 
Il collega Piero Vereni, giorni fa, ha però scritto: “Abbiamo o non abbiamo gli strumenti per dare una mano alle nostre comunità ferite?”. Una domanda, autentica, a cui ne legherei un’altra: Abbiamo qualcosa da intelligente da dire riguardo ciò che stiamo vivendo?

Come cittadini e cittadine di questo Paese, le ultime tre settimane (dall’ormai mitico decreto governativo dell’8 marzo) le abbiamo passate guardando curve, tabelle e grafici prodotti da altri ricercatori e ricercatrici contagiati da un altro sguardo disciplinare. Di conseguenza, penso, molti abitanti della comunità scientifica (ancora più che ieri) ritengono che l’unica ricerca oggi utile sia quella medica (curare e vaccinare), quella tecnologica (comunicare al tempo della distanza fisica), logistica (distribuire beni di prima necessità). Gli unici ricercatori non “duri” invitati al tavolo della ricerca saranno, presumibilmente, in un prossimo futuro (quando questa emergenza finirà), gli economisti.  


Ma è così? Queste righe nascono da una semplice critica/provocazione (o, più gentilmente, da un invito a riflettere): io ritengo che le cose non stiano naturalmente in questi termini. Sono infatti convinto, come scrive Piero Vereni, che la ridefinizione delle nostre vite si dovrà avvalere sempre più (anche) delle nostre (umanistico-sociali-qualitative) chiavi di lettura della realtà. Provo a spiegarmi.
Innanzitutto, per quanto concerne me (nato nel 1975 in Occidente, bianco, borghese e antropologo) questa fase storica mi sta permettendo, senza dover fare sforzi empatici, di sentirmi appartenente al genere umano. Di fronte a questa emergenza non tutti i gruppi sociali che abitano il Pianeta hanno scelto di affrontare la crisi nello stesso modo. Cosa significa essere in quarantena? Quale è la giusta distanza sostenibile? Come dividersi lo spazio pubblico? Come condividere quello privato?

In questi giorni, stiamo leggendo il comportamento e le pratiche di occupazione dello spazio fisico degli esseri umani nostri contemporanei solo come rispondenti a decreti pronunciati dai governi dei rispettivi stato-nazionali. Ma quanto i nostri modi (culturali) di concepire lo spazio e il tempo determinano i nostri comportamenti? Dicevamo, in questo significativo momento di passaggio è facile sentirsi appartenenti a una specie, quella umana; eppure, mai quanto oggi è possibile, nell’individuare i tratti di questa appartenenza comune, rilevare differenze culturali se partiamo da analisi spazio-temporali. Vi può essere, di conseguenza, un’unica strategia di governo di questa emergenza? Può prescindere dalle nostre abitudini culturali?

Da giorni siamo in attesa di un picco: aspettiamo la discesa, come quando si è in bici e si sta affrontando un’apparente insormontabile salita. Per questo ci affidiamo ad analisti quantitativi che ogni secondo cambiano le loro previsioni, giustificando tale balletto interpretativo con il comportamento non corretto delle popolazioni che abitano il Pianeta. Mentre scrivo leggo che l’ultimo messaggio della Protezione Civile non è più “Entro domenica ci sarà il picco”, ma “Speriamo che entro domenica ci sia”. Più passa tempo più il linguaggio delle scienze dure diventa poetico, mistico, letterario. Ecco, allora, la critica/provocazione a cui accennavo: possiamo aggrapparci ai numeri? Cosa ha voluto dire negli ultimi anni vivere sotto i consigli (alle volte le imposizioni) degli algoritmi?

La mia impressione è che tutta la nostra attenzione, in termini di studio e di ricerca, è rivolta a ciò che c’è fuori dalle nostre abitazioni (tralascio riflessioni politico-filosofiche sull’attuale “stato di polizia”, sull’abuso di “decreti”, sull’esercizio della “paura”). Ma cosa sappiamo di come i bambini, gli adolescenti, gli adulti, gli anziani stanno vivendo le loro convivenze forzate? (gli studenti che convivono si comportano come fossero una famiglia? Come esercitare la genitorialità nel momento in cui i figli si ritrovano come unici amici padri e madri? etc. etc.).


Il nostro modo di trasmettere conoscenze sta cambiando, più in generale si stanno modificando i processi di insegnamento-apprendimento (anche in questo caso tralascio riflessioni sulle conseguenze dell’insegnamento a distanza, sull’uso delle piattaforme tecnologiche, sulla violazione ormai quotidiana di ciò che dovrebbe essere “privato”). Come docenti, professori, maestri ci domandiamo come valutare i nostri allievi. Ma è così importante valutarli in questo momento? Non sarebbe invece più utile chiedere ai nostri studenti, allievi, scolari come stanno vivendo questo periodo? Cosa vedono dalle loro finestre? Non sarebbe più istruttivo utilizzare tecnologie come photovoice, o altre ancora, per fargli produrre delle autoetnografie riflessive su questo significativo momento di passaggio storico? Mi chiedo: valutare attraverso power point, o Meet, o Zoom la comprensione del paradigma struttural-funzionalista (con tutto il rispetto di Radcliffe Brown etc. etc.) è così necessario in questo momento? E se invece potessimo osare di più?

Come antropologi (e antropologhe) abbiamo imparato che i nostri studi non devono comprovare tesi che avevamo in testa prima di iniziare una ricerca. Abbiamo sempre pensato che l’utilità di un lavoro etnografico è soprattutto quella di trovare domande autentiche, autonome, intelligenti. Oggi siamo ancora più consapevoli di come queste domande possano essere utili nel momento in cui il nostro “campo” di studi cambia ogni giorno, si modifica all’interno di un planetario processo di trasformazione. Il medico bravo, ricordava Ippocrate, è quello che sa leggere una malattia prima ancora che ne compaiono i segni, colui che sa individuare il paziente asintomatico. Di fronte a ricercatori (indispensabili) che sanno parlare ai numeri, i quali affermano con sempre più imbarazzo che abbiamo ancora troppi pochi dati per tirare fuori dal cilindro un’analisi, non potremmo farci forza di tutto il valore e la qualità dei nostri studi processuali?

Affacciandosi alla finestra, appare evidente come (le margherite sui campi, la neve sui colli, gli animali a passeggio per la città, i cieli sempre più limpidi) il pianeta stia godendo della nostra assenza (per non parlare del crollo della criminalità, della sospensione delle guerre etc.). Quale domanda dobbiamo farci allora, ripensando il nostro rapporto, come specie, con ciò che chiamiamo tutti, pur utilizzando parole differenti, Madre Terra?

In sintesi, come ricercatori e ricercatrici di antropologia culturale abbiamo materiale e dati da raccogliere che ci impegneranno per tutta la vita. Forse vale la pena metterci al lavoro e trovare un paio di occhiali nuovo per interpretare il mondo che verrà. 

Ferrara, 1° aprile 2020
Giuseppe Scandurra
Università di Ferrara

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.