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L'antropologia in terapia intensiva

Guerra, è da qualche giorno che leggo articoli che ci invitano a non utilizzare questo termine, questa metafora, per pensare a quello che stiamo vivendo ora…questo perché utilizzandolo possiamo divenire necessariamente vittime passive verso un virus il Covid 19, il quale con la sua aggressività non solo metaforica, in così breve tempo sta travolgendo le nostre vite. 

Infermiera in Rianimazione all’Ospedale Sacco, non ancora azienda, negli anni ’80… anche in quel periodo ho vissuto le stesse sensazioni… smarrimento, rabbia, impotenza e rassegnazione nei confronti dell’ Hiv che con l’Aids uccideva ragazzi della mia età senza alcuna pietà. Ma allora la paura la controllavi con i guanti, due o tre uno sopra l’altro, sapevi che potevi toccare le persone davanti a te, abbracciarle e che loro potevano, una volta al giorno, ricevere la visita dei propri cari…amici, parenti. Ecco, questa parte oggi è totalmente cambiata… questo virus ci obbliga all’isolamento coatto, ad indossare i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) incominciando con le tute bianche, le quali ci inglobano solo il viso rimane all’esterno ma è protetto da una maschera facciale per filtrare il virus, fondamentale per non ammalarci a nostra volta. Infine gli occhi che per noi occidentali sono lo specchio dell’anima, sono protetti da occhiali e sopra tutto questo un ulteriore casco…come non pensare di indossare un’armatura? Difficile pensare di non andare in guerra… ma accetto la sfida e così cerco di essere un’antropologa da “dentro”, dentro i Dpi, dentro la Terapia Intensiva che diventa il mio campo, mantenendo il distacco necessario per riuscire nell’osservazione partecipante cominciando a vedere solo la tragedia che questa malattia ci sta portando… ma come? La malattia è la sfida della mia professione, come per tutti gli operatori sanitari, radiologi, fisioterapisti, tecnici di laboratorio e medici, che ogni giorno lavorano dando il loro meglio. Non c’è più divisione tra pubblico e privato, la realtà e il coinvolgimento è lo stesso… oggi sono infermiera di Terapia Intensiva nell’Ospedale San Luca dell’Irccs Auxologico, questo è il campo di studio scelto. 


L’antropologia è stata una risposta ad un bisogno di conoscenza, che andava e va oltre al nursing… ho cominciato a farmi domande sulla “cultura sanitaria” anni fa, su come potevo considerarla aldilà del processo assistenziale, laico e tecnico da noi infermieri definito un’arte, attraverso il quale entravo in contatto con un’alterità passiva, la persona assistita. La persona o le persone che incontro hanno e avevano necessità delle mie cure, così specialistiche per sopravvivere. Ma la parte umanistica è sempre stata la base di partenza e così il primo approccio conoscitivo con l’antropologia in particolare quella medica, è stato attraverso l’Harvard Medical School. La Narrative Based Medicine infatti è nata negli Stati Uniti ed il suo fondatore e ispiratore è stato lo psichiatra e antropologo Arthur Kleinman, il quale ha considerato la medicina nelle sue variabili, come un sistema culturale, ovvero un insieme di significati simbolici che vanno a modellare sia la realtà che noi definiamo clinica, sia il vissuto che la persona affetta da malattia percepisce. Salute, malattia e medicina divengono così dei sistemi simbolici costituiti da un insieme di significati, di valori e di norme comportamentali e di conseguenza delle reciproche interrelazioni. Abbiamo così la famosa triade della definizione di malattia, dove per illness intendiamo il malessere percepito dalla persona che darà così un senso al proprio vissuto, disease è la malattia definita dal medico che può permettere così l’accesso alle cure ed infine sickness è la definizione che la società attribuisce alla malattia stessa che va quindi oltre alle sue caratteristiche individuali, dandole così un ruolo sociale. 

In questo momento vedo tutta la triade all’opera, a seconda dell’angolazione della mia osservazione, così mantenere la giusta distanza, non solo quella oggettiva dei corpi per non infettarsi, ma anche quella dettata dal distacco interiore, mi permette di svolgere al meglio la mia attività. Ma nonostante l’esperienza formativa dell’Aids, la tanta esperienza lavorativa, sempre mi tocca nel profondo la persona assistita quando incontro i suoi occhi o quando mi prende la mano e mi chiede: “stai con me… non mi lasciare solo”. Ecco in questi momenti ringrazio la forza che mi sta dando l’antropologia, attraverso la ricerca che mi porta ad andare oltre a tutto quello finora in mio possesso, per sostenere “l’altro” ancor di più.

Milano, 4 aprile 2020
Silvia Musci
Infermiera di Terapia Intensiva nell’Ospedale San Luca dell’Irccs Auxologico
Studentessa del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche 
Università di Milano Bicocca 

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.

Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.