A me pare che la fase due sia già cominciata.
Non perché si stia “riaprendo l’Italia” e ciascuno stia tornando alla propria attività, ma perché tutti si sono già impegnati a raccontarci e a prepararci a quali saranno le nostre condizioni di vita e di lavoro. Come si dovrà lavorare, vivere e convivere una volta che la cosiddetta fase uno di questa emergenza sarà finita, come e cosa dovremo fare quando potremo più o meno uscire da questa prigione casalinga che, in accordo col pensiero della scienza medica, ci siamo inflitti.
Prima di tutto dovremo imparare a convivere con il virus perché tra le tante cose che alla medicina non sono chiare una certamente lo è, questo virus rimarrà tra noi a lungo e quindi occorrerà abituarsi all’uso pressoché costante delle mascherine, forse dei guanti, a mantenere comunque tra le persone, che poi saremmo noi, la distanza “di sicurezza”. Ma non è solo a questo che bisognerà fare l’abitudine.
Appena qualche giorno fa, nella più nota e autorevole trasmissione radiofonica di informazione del mattino, ascoltavo il presidente di Confindustria di una delle più produttive regioni del Nord Italia sostenere in maniera perentoria che il problema per la riapertura delle fabbriche non è la sicurezza dei lavoratori ma quella dei mezzi di trasporto. Non la sicurezza delle aziende e delle condizioni di lavoro, ci dice, perché soprattutto nella sua Regione, ma anche in altre, ci sarebbe già un’attenzione pazzesca, di grande impegno, per mettere in sicurezza i lavoratori e lì, dove queste condizioni non dovessero essere presenti, verranno realizzate entro i termini di riapertura e se no queste fabbriche semplicemente non riapriranno. Quindi non c’è dubbio, per il Presidente le fabbriche sono sicure, il problema è il trasporto pubblico. Secondo i dati INAIL però, e le statistiche dei sindacati maggiormente rappresentativi, i lavoratori non muoiono sui mezzi pubblici ma sul luogo di lavoro e la sua, nel 2019, è stata la seconda Regione in Italia con la maggiore incidenza di infortuni mortali. Ma il dirigente di Confindustria ritiene che «questa equivalenza - proprio come lui la chiama - salute lavoro la vita la morte, sono tutti argomenti sui quali i filosofi stanno dissertando da ventimila anni - volendo dire, secondo le sue stesse parole - che non li risolviamo certo sul tema delle fabbriche». Che avesse voluto dire che per produrre dobbiamo fare l’abitudine, aggiungendolo agli altri, anche al rischio di infezione da Nuovo Coronavirus?
Dovremo pare anche abituarci a un nuovo modello di equilibrio tra diritto alla privacy e comunicazione dei dati sensibili. In quella che ormai alcuni già chiamano “cittadinanza virale”, per contrastare la propagazione del virus bloccando le vie della sua diffusione, in nome della prevenzione di pandemie di ritorno e il diritto-dovere alla salute pubblica e alla sicurezza sanitaria, ciascuno di noi dovrà essere tracciabile con apposite applicazioni sullo smartphone. Spostamenti, abitudini, luoghi e persone frequentate, non potranno più essere protette dalla privacy perché rappresentano dati essenziali per rilevare l’esposizione al rischio delle persone, evidenziare e tracciare rapidamente i contatti in caso di riscontro di positività al virus, avviare pratiche di telemedicina e teleassistenza per pazienti domestici e gestire così l’emergenza ma anche la medicina ordinaria ad esempio per i pazienti cronici. Paola Pisano ministra per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione ha già annunciato in parlamento la presenza di un’app apposita nel pacchetto di provvedimenti per l’avvio della cosiddetta fase due dell’emergenza sanitaria.
Insomma pare che dovremo abituarci a fare quanto facevamo prima ma in peggiorate condizioni sociali e ambientali quasi come in uno stato di emergenza permanente che sospende diritti e libertà costituzionalmente garantite.
Abituarsi a qualsiasi condizione purché si possa riprendere la produzione, il mercato, la competitività di prima sarebbe come trasformare il famoso refrain “andrà tutto bene “in “qualunque cosa andrà bene” purché tutto ritorni come prima. Ma come Peter Brook ci aiuta a capire, “tutto non è semplicemente qualunque cosa” e dimenticarlo significherebbe trasformare i nostri luoghi di lavoro in campi di lavoro forzato, le nostre città in deserti culturali, le nostre istituzioni democratiche in romantiche nostalgie di giustizia sociale.
La fase due non può essere questa, nulla potrà riprendere come prima perché già ora nulla è più come prima. I danni provocati dall’emergenza non sono dovuti al virus in sé, i virus non fanno quello che fanno per cattiveria. Quello che sta accadendo dice che ci siamo lasciati sorprendere in buona misura impreparati difronte a un evento che la stessa scienza medica ritiene sempre possibile e che anzi rappresenta l’incubo di microbiologi e virologi. Ancora più vero è che la pandemia fa lucidamente emergere a livello planetario la debolezza strutturale di un modello di sviluppo ormai esaurito, inadeguato, che non ha più risposte da dare ai grandi quesiti che interrogano le nostre scelte e che devono aprirci al futuro.
Insegno nella Scuola Superiore e quando dopo quest’emergenza torneremo a fare lezione in presenza coi nostri studenti non vogliamo preoccuparci solo di esami di stato e come validare quest’anno scolastico. Non vogliamo costruire la nostra lezione in pacchetti secondo le piattaforme telematiche messe a disposizione o come qualche app consente di fare. Non pensiamo di dover preparare i nostri giovani su competenze che interpretano la formazione secondo le indicazioni dei consigli di amministrazione delle aziende o un modello di lavoro competitivo che sceglie il profitto e trascura il suo valore sociale. Quando tra breve quel momento arriverà, anche se per un po' dovremo portare ancora la mascherina e i guanti, anche se dovremo stare assieme tenendoci a un metro di distanza (purché si eviti di chiamarlo “distanziamento sociale”) vogliamo stare nelle scuole cooperando coi nostri studenti per promuovere educazione e conoscenza sulle questioni che decideranno del modello sociale futuro, della qualità delle nostre vite, dell’autonomia e libertà di pensiero.
Roma, 21 aprile 2020
Carmelo Pizza
Carmelo Pizza è insegnante di Scienze Naturali per le scuole superiori a Roma. Si occupa di Educazione Permanente e di Teatro in ambiente sociale e educativo. Ha collaborato con il CTE (Centro Teatro Educazione del fu ETI). Attualmente guida laboratori teatrali aperti per la Cooperativa Sociale Passepartout. È regista nel Gruppo di Studio e Ricerca Artistico-Teatrale Nontantoprecisi e docente per la stessa Cooperativa nelle attività del Progetto Creative Living Lab II Edizione del MIBACT.
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.
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