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La realtà dell'epidemia e il valore dell'antropologia

Dopo aver insegnato e scritto per anni di biopolitica le parole di Lucia Portis ‘Cronache dal dipartimento di Prevenzione’ pubblicate qualche giorno fa su questo blog mi hanno fatto riflettere perché hanno risuonato con le mie inquietudini:

“Sono sincera, lascio da parte la vocazione critica dell’Antropologia medica, certo le questioni di potere sono sempre tra noi: chi sarà più importante? Chi risponde ai quesiti dei medici di base o chi telefona alle persone in quarantena? Ci sono comportamenti che noto o domande che mi pongo ma che di fronte alla complessità della situazione mi sembrano banali, quando tutto questo sarà finito ci sarà tempo per riflettere. […] Sicuramente la biomedicina sta imponendo uno stile di vita a chi ha contratto il virus o è stato in contatto con persone positive e a tutti noi, c’erano alternative possibili? Ci sono persone abbandonate: i senza fissa dimora o chi sta in carcere; ci sono professioni, come quelle educative poco tutelate. C'è chi ha perso il lavoro o lo perderà. In questa situazione così complessa mi viene in mente la parola agency, a volte abusata dagli antropologi. Oggi però questa parola ha avuto senso e concretezza: ho deciso di implicarmi intenzionalmente, di non essere spettatrice, di buttarmi nella mischia…Per me è innanzitutto un dover essere, un imperativo etico, se si può, si fa…”.

Gli interrogativi di Lucia Portis hanno trovato nell’intervento di Carlo Capello che segue una prima risposta. Personalmente, concordo con Capello circa la Sua argomentazione generale sulla natura del potere come essenzialmente sociale, un qualcosa da cui non possiamo ma neppure dobbiamo rifuggire. Concordo anche con la Sua interpretazione del dibattito che si è sviluppato in seguito alla pubblicazione di Agamben di un post in cui allertava dei pericoli dello ‘stato di eccezione’ in tempi di coronavirus. Come Capello scrive, probabilmente per Agamben la teorizzazione dello stato di eccezione come essenza segreta della sovranità è il punto centrale, a prescindere dalla questione se “quel qualcosa su cui si appoggia il sovrano per sospendere la normalità e la norma sia reale o no”.
Ma, a mio parere, la realtà di quel ‘pretesto’ è non solo importante, ma centrale. Ed è qui che filosofia e antropologia si differenziano.

La realtà delle cose non può essere scissa dai dispositivi sociomateriali che si mettono in atto per interpretare una realtà che, altrimenti, per noi umani sarebbe muta, caotica e incomprensibile. Per questo motivo, vari Autori all’interno della socio-antropologia della scienza hanno riconfigurato la realtà non come un sostrato oggettivo e antecedente le interpretazioni umane ma in quanto misura del loro impatto sul mondo: “Realism ... is not about representations of an independent reality but about the real consequences, interventions, creative possibilities, and responsibilities of intra-acting within and as part of the world” (Barad, 2007, p. 37). Ciò introduce il tema della responsabilità nel dibattito sul realismo: ciò che esiste è anche ciò di cui noi siamo responsabili e di cui dobbiamo prenderci cura.


Le epidemie fanno parte della storia dell’uomo, non sono certo una novità ma in ogni periodo storico le cause sono state diverse. Le epidemie del mondo moderno – dalla spagnola, all’Ebola, l’HIV all’aviaria - sono tutte zoonosi, ovvero malattie provocate da un virus che normalmente coabita con animali e per una qualche ragione transita agli esseri umani. Secondo alcune ipotesi, l’epidemia che stiamo vivendo non è incidentale ma è la diretta conseguenza della distruzione violenta e rapida di ecosistemi e di legami di reciprocità tra umani e microbi. Ciò è la conseguenza di interventi troppo spavaldi nei confronti del delicato rapporto tra natura e cultura: perturbare gli ecosistemi può disturbare quello che viene definito ‘antagonismo microbico’ ovvero un equilibrio microbico che evita lo sviluppo di patogeni. Per esempio, “[L]à, dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie” (Quammen, 2014, p. 47). Questi virus cercano un nuovo ospite e, al momento attuale, gli esseri umani sono degli ospiti ideali perché siamo tanti e molti mobili, caratteristica che da là possibilità ai virus di espandersi velocemente e su un ampio raggio. 

Se l’ipotesi più sopra ha un fondamento, allora la sospensione temporanea della normalità all’interno di una cornice democratica - ovvero sospensione “della normalità, non del diritto o dei diritti” (Capello) - è una buona notizia. E’ una buona notizia perché ci permettere di sfruttare le potenzialità di trasformazione offerte da questa fase di liminalità, ben sottolineata da Capello. Ma la liminalità vissuta in una cornice democratica non mantiene solo i diritti ma anche i doveri ovvero le responsabilità che, come cittadini, abbiamo nei confronti degli altri.

Per quanto concetti come ‘biopolitica’ e ‘stato d’eccezione’ siano degli strumenti formidabili per aiutarci nella comprensione di ciò che ci circonda, se “non dichiarati e non sottoposti a scrutinio” (Dei, 2017, p.45) possono intossicare le nostre analisi e renderci anacronistici o ciechi alla realtà delle situazioni. Mai come in questo momento è importante volgere l’attenzione alla realtà di ciò che sta accadendo, ovvero assumercene la responsabilità anche ‘facendo’, come Lucia Portis nel suo lavoro nel dipartimento di Prevenzione. Questo fare diviene un’esperienza antropologica che ci permette di comprendere che viviamo in un mondo in cui tutti, umani e non-umani, persone e virus, sono dipendenti l’uno dall’altro. Significa anche aprire domande di ricerca, che poi potranno essere analizzate etnograficamente, su come possiamo stabilire e mantenere una convivenza pacifica in un mondo umano ma anche più che umano e interconnesso. Un mondo che non è solo da sfruttare ma anche da curare in un’ottica di giustizia sociale allargata.

Quindi, tornando ad Agamben, le misure forti del governo hanno un loro senso e non sono necessariamente ‘pretesti’ per altri fini. Hanno un senso perché la situazione è reale e come tale va affrontata. Di fronte a un problema reale è giusto intervenire, fare, “buttarsi nella mischia” senza troppo elucubrare, come dice di fare Lucia Portis. Al tempo stesso, sono proprio le specificità materiali, reali e tangibili di questa crisi che ci stanno offrendo spunti di riflessione adeguati all’obiettvo che questa situazione richiede: uscire da uno stato di “eccezione virale ”. A tal fine è necessario moltiplicare le voci, i resoconti e le interpretazioni circa cosa sia questa crisi e come vada gestita. La democrazia infatti è un processo, non è una condizione, e perciò l’antropologia ha un’enorme potenzialità nell’ accompagnare questo processo che speriamo ci porti - come prefigurato da Alessandro Natili nel suo post su questo blog - ad un “nuovo Rinascimento”.

Barad K., 2007, Meeting the universe halfway. Quantum physics and the entanglement of matter and meaning, Durham & London, Duke University Press.
Dei F., 2017, "Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica", in (a cura di) F. Dei e C. Di Pasquale, Stato, violenza, libertà. La «critica del potere» e l’antropologia contemporanea, Roma, Donzelli editore, 9-50.
Quammen D., 2014, Spillover. L'evoluzione delle pandemie, Milano, Adelphi.

Carisolo (TN), 21 marzo 2020
Roberta Raffaetà
Libera Università di Bolzano

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.