Cosa può dire l’antropologia in questa emergenza? È questa la domanda che mi ha tormentato fin dall’inizio di questa pandemia: un tarlo, a dire la verità, che in realtà covavo dentro già da un po’, da quando ho preso in mano l’interessante raccolta di saggi di Bruno Latour, curata da Nicola Manghi, “Essere di questa terra”. E non solo perché applicare il concetto etimologico di “cosa” come “riunione”, può essere un ottimo perno teorico per analizzare la resistenza del Covid-19 a lasciarsi trasformare da matter of concern a matter of fact, per dirla con il sociologo francese.
Nell’ascoltare le interviste dell’infettivologo Massimo Galli su la 7 o la sua risposta alla giornalista Lilli Gruber in cui accetta senza polemica l’appellativo di “cosiddetto esperto” constatando che “nessuno può essere esperto di questo virus nuovo”, mi è ritornato alla mente un passo del quinto saggio contenuto nella raccolta “Guerra e Pace al tempo dei conflitti ecologici”:
“Questa è la grande virtù dell’azione razionalista: se l’azione comincia solo dopo che sia stata raggiunta una conoscenza completa, allora qualunque dubbio, qualunque scetticismo è sufficiente per bloccare le politiche e ritardare l’azione” (p.155).
Francamente, queste parole fanno abbastanza venire i brividi se confrontate con tutti i dibattiti che si sono scatenati attorno al virus nel momento in cui ai governi era chiesto di agire, dibattiti che si svolgevano anche all’interno della stessa comunità scientifica, e perfino all’interno dello stesso ospedale Sacco di Milano, dove la collega dello stesso Galli, la dottoressa Gismondo, aveva etichettato il Covid-19 come una banale influenza per cui, sostanzialmente, per dirla come una commedia di Shakespeare, si stava facendo tanto rumore per nulla.
Latour, prendendo spunto dalla corsa agli armamenti nella guerra fredda, ci dice che esistono dei “fatti-provoca-scelte”, dei fatti cioè che ci richiedono di spostarsi dal constatativo al performativo, davanti ai quali “agire significa trarre la propria esistenza e la propria sussistenza dal futuro verso il presente” (p.112), che ci chiamano ad agire avendo come punto d’ancoraggio l’incertezza: in una parola, dove “agire significa assumere rischi e fare scommesse”. L’arrivo del Covid-19 in Italia è sicuramente stato uno di quelli.
Nei giorni concitati che hanno seguito il “ritrovamento” del virus nel Paziente 1 di Codogno ci si è trovati di fronte a questo problema dell’incertezza: eravamo di fronte ad un virus (un oggetto scientifico) al cui riguardo non c’erano sufficienti conoscenze scientifiche che permettessero di oggettificarlo, cioè di fissarlo all’interno di una rete di conoscenze.
All’onesto “non ne sappiamo abbastanza” della comunità scientifica si contrapponeva, così, l’esigenza di agire della politica, nel delirio di un mondo neocapitalista in cui la parola “fermarsi” è quasi sinonimo di “armageddon”.
Se è vero che Latour parla di “riunione fallita” nell’indicare gli oggetti divenuti “matters of fact”, cioè sottratti alla zona metamorfica del lavoro di assemblaggio che li ha costituiti, qui il concetto di “riunione fallita” indica qualcosa di diverso, ma nonostante tutto ancora riassumibile con le parole dello stesso autore: “un pessimo resoconto dell’esperienza e della sperimentazione” che corrisponde ad una “disorientata matassa di polemica, epistemologia e politica modernista” (p.88).
È proprio il fallimento di questa riunione che noi stiamo pagando a caro prezzo oggi, questa nostra abitudine a pensare il tempo dal passato al presente e non dal futuro al presente, “come accade nel mondo vero” (p. 113), a cui si aggiunge una culturale “legalizzazione del rischio” (o se volete “giurisprudenzizzazione”) e questa “burocraticizzazione dell’incertezza”. Se da una parte il 19 febbraio “l’anestesista ha dovuto “chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria” e assumersi la responsabilità di realizzare il tampone, perché i protocolli italiani non lo giustificavano” , oggi ci troviamo a far fronte con la terribile frase di John Dewey: “Bisogna sentire il dolore nella carne […] prima di misurare cosa significhi sapere qualcosa” (p. 143).
La domanda forte, socialmente parlando, che ci lascia questa storia è il dovere di comprendere cosa significa per i soggetti agire davanti all’incertezza nella nostra società attuale, cosa significhi assumersi rischi e scommesse, e non solo dal punto di vista morale, ma anche e soprattuto dal punto di vista giuridico, economico, sociale: in sintesi dove quello che possiamo chiamare “rischio di sanzione” arriva ad inibire il “rischio dell’azione”.
Però, questa storia ci lascia anche domande, per noi, molto più scomode. Negli ultimi due saggi di “Essere di questa terra”, davanti al problema del cambiamento climatico, un Latour più anziano e retrospettivo si pone una domanda molto scomoda sulla sua propria carriera: quanto la nostra corrosiva critica filosofico-antropologica nei confronti della scienza è responsabile di aver sottratto autorità alla scienza stessa nell’arena dell’opinione pubblica? Se è vero che siamo “in guerra” con il coronavirus, e la guerra, come la definisce Latour non è altro che “assenza di un arbitro che sia in grado di risolvere la questione” dove “è solo nell’agonia dello scontro che si deciderà l’autorità alla quale potrete o meno appellarvi, a seconda che vinciate o perdiate” (pp. 160-161), quanto il nostro operato ha contribuito alla diffidenza verso gli ufficiali e ingegneri bellici del nostro stesso esercito?
Alla prima lezione del primo anno di magistrale del corso di antropologia, il professore ci disse “voi perderete l’85% dei vostri amici”. Ed è proprio parlando su WhatsApp in questi giorni con un mio amico medico impegnato in uno degli ospedali della Lombardia, che ho capito cosa volesse dire. Alla sua affermazione “comunque muoiono anche persone sane, cioè con ipertensione o altri disturbi che però senza questa malattia noi in ospedale non vedremmo mai”, la mia risposta è stata un’osservazione sull’assemblaggio culturale, materiale e di conoscenze di quello che lui intendeva con sano. Ovviamente, sono stato mandato a quel paese.
Ed è lì che ho capito il mio errore, l’errore che noi addetti alla pars destruens, allo smascheramento della fiction culturale, spesso commettiamo: il misunderstanding di cosa significhi “fare il critico”. Come arriva ad affermare Latour, “il critico non è colui che toglie la terra sotto i piedi, ma colui che offre ai partecipanti arene in cui radunarsi” (p. 90).
Ciò che questa epidemia lascia a noi studiosi della società come progetto, allora, è anche e soprattutto la necessità di utilizzare le nostre competenze, capacità critiche e strumenti di conoscenza della società, per costruire un’arena comune che faciliti l’azione invece di renderla più complessa, pesante e macchinosa, dove il nostro relativismo culturale come anche il “costruttivismo latourriano” non diventino fonte di ulteriori paralisi decisionali, ma strumenti di assunzione di scelte perché oggi “non è più una questione di sapere, credere o convincere, ma di assemblare, comporre, istruire” (p. 24).
Vélingara (Senegal), 24 marzo 2020
Gabriele Masi
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.