È simile a un liquido di contrasto, il coronavirus. Rende visibile, facendolo emergere, tutto ciò che altrimenti resterebbe occultato allo sguardo. Rende evidenti le paure, le ansie, le angosce. Ci riscopriamo fragili e vulnerabili. Ai tempi dell’epidemia prendiamo atto di quanto sia precario il nostro modo di vivere. E il messaggio, quello che dice “restare a casa”, non è più solo una direttiva del governo. È bensì un farmaco, un ansiolitico, una formula magica, un esorcismo. È un messaggio che tenta disperatamente di dare un senso a ciò che mai ci saremmo aspettati potesse accadere: un’epidemia. Più lo ripetiamo più aumenta la sua efficacia. Chiunque è invitato a pronunciarlo: dalle autorità alle star della televisione. Lo ripetiamo a chi abbiamo occasione di incontrare, nel mondo reale oppure sui social network. Più persone lo pronunciano più risulta essere performante. Ci riscopriamo un po’ come quei “primitivi” che, nominando la pioggia durante il rito, si aspettano poi di vederla cadere dal cielo.
L’Organizzazione mondiale della sanità parla ora di pandemia. Vietato uscire, dunque. Non solo da casa propria ma anche dai confini del comune di residenza. Per i trasgressori sono previste sanzioni. Negozi, ristoranti, bar e palestre sono chiusi. Per circolare è necessario avere in tasca un’autocertificazione che giustifichi i propri spostamenti. Anche chi si muove a piedi è sottoposto ai controlli delle forze dell’ordine. Questa, per un po’ di settimane, sarà la normalità.
Ai tempi del coronavirus ci riscopriamo essere tossicodipendenti in crisi di astinenza. Non siamo abituati a stare fermi e soli con noi stessi. È necessario essere attivi, produrre, ottenere risultati, intrattenere relazioni, essere performanti. È questa la nostra droga. Ci sentiamo inadeguati se non stiamo al passo, se non lavoriamo, se non riusciamo a relazionarci, se la nostra persona non lascia un’impronta. Sentiamo di essere fuori posto. Ci convinciamo di non valere nulla, di avere poco valore. Non è, infatti, proprio grazie al lavoro, alle relazioni e al nostro muoverci nel mondo che plasmiamo la nostra identità?
Poi arriva l’epidemia. Tutto quanto fatto fino a oggi non è più funzionale. Ognuno è chiamato a cambiare atteggiamento e incorporare nuove abitudini. E così l’ansia sociale esplode e, insieme a lei, anche l’aggressività. Basta aprire un qualsiasi social network per rendersene conto. Siamo preoccupati. D’altronde è attraverso le nostre abitudini e azioni che abbiamo definito noi stessi. Queste sono il nostro “habitus”.
Ora però le abitudini sono cambiate. E con esse stiamo cambiando anche noi, inevitabilmente. Abbiamo paura, sentiamo di essere spaesati e in pericolo. Siamo un po’ frustrati. Si tratta di una sorta di crisi della presenza, un concetto di cui parlava Ernesto de Martino in Sud e magia nel 1959. Fermarsi significa mettere in discussione la nostra esistenza sociale, costruita proprio sul non fermarsi mai. Dopotutto il nostro pane quotidiano, materiale o immateriale che sia, lo otteniamo attraverso l’azione.
Siamo in crisi di astinenza. Un’astinenza sociale per lo più. Così, per alleviare i sintomi, esorcizziamo la paura del contagio ripetendo a noi stessi, e agli altri, sempre la medesima formula: “restare a casa”. Una formula magica performante: un simbolo per riaffermare una presenza in crisi.
Milano, 21 marzo 2020
Daniele Pascale
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università di Milano Bicocca
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università di Milano Bicocca
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