Condivido alcune note di campo da Maputo, Mozambico, senza ambizioni di particolare spessore analitico nè di ricercatezza stilistica. Un giornale, insomma.
Ad oggi, 17 marzo, Il governo del Mozambico non riporta casi di positività al coronavirus; il Sudafrica, che dista un’ora di auto da Maputo, ha dichiarato oggi lo stato di “disastro nazionale” riportando poche decine di casi; tutte le frontiere con il Mozambico sono state chiuse a eccezione di una, quella che unisce le due metà del parco nazionale Kruger (eroe dell’identità boera), il più grande parco d’Africa. Eswatini, anch’esso molto vicino, si è isolato al resto del mondo.
A Maputo, le scuole internazionali, frequentate dai figli della classe abbiente locale e dagli espatriati, oggi hanno annunciato la chiusura. Il governo, supportato da varie agenzie ONU e internazionali e da alcune ONG (tra le quali noi di Medici con l’Africa CUAMM) ha istituito un’unità di crisi per approntare un piano operativo volto a respondere all’emergenza. È epidemiologia basilare (della quale ognuno diventa goffo apprendista, in questi giorni) affermare che si tratta solamente di stabilire “quando”, non “se”.
La città prosegue la sua vita caotica di città africana, con pulmini scassati stracolmi di persone ammassate, mercati vocianti, capannelli di mame venditrici di frutta che pudicamente cercano ombra sotto agli alberi di papaya o di jacaranda che ostinatamente svettano tra i viali cementati invasi dal traffico.
Il nostro lavoro continua, con alcune accortezze dovute alle limitate possibilità di spostamenti nel paese (molti voli interni sono stati cancellati), cercando di continuare a portare servizi in diverse province di questo immenso paese, che quotidianamente lotta con problemi sanitari da sempre più concreti e letali del (per ora) fantasmatico coronavirus.
Da settimane, in diverse province, in zone rurali poverissime abitualmente colpite da inondazioni, vi è un’epidemia di colera che comporta vittime e acuisce uno stato di miseria già cronicamente drammatico. Il 2019 per il Mozambico è stato un “annus horribilis”, colpito da due cicloni devastanti (a marzo la città di Beira è stata distrutta, numero delle vittime mai accertato, a giugno il cyclone Kenneth ha colpito la costa della provincia di Cabo Delgado, già affetta da due anni da attacchi armati di gruppi poco noti che devastano villaggi, uccidendo e terrorizzando), cicloni dai quali il paese, già fragilissimo, fatica a riprendersi. Per quanto estremamente complesso da stabilire, le dinamiche in corso di alterazione degli ecosistemi hanno avuto un impatto importante, sconvolgendo comunità, stili di vita, linguaggi, capacità di elaborazione delle calamità da parte di un popolo che ha visto terminare ufficialmente la guerra intestina solo nel 1994.
Gli esperti di global health con cui lavoriamo analizzano il fenomeno coronavirus anche attraverso il paradigma del climate change, illustrando e tessendo una trama di connessioni tra fenomeni complessi che illumina l’interdipendenza tra fattore umano, strategie politiche, culture. Eppure, oggi, a Maputo, il coronavirus pare essere una preoccupazione esclusiva delle fasce di popolazione ricche e informate. Mi è stato riferito che alcuni predicatori di varie confessioni parlano apertamente di un “flagello che colpisce i paesi ricchi” mentre quelli africani ne sarebbero quasi immuni, quasi fosse una nemesi storica letta attraverso un millenarismo non più fondato su profezie di carismatici guaritori, ma che promana dall’iper-realtà dei numeri del contagio che appaiono sugli schermi im-mediati degli smartphone.
Gli unici che salutandosi non si danno più la mano (abbozzando battute di spirito ogni giorno più stanche, forzate e cariche di apprensione), che estraggono da borse e tasche boccette di “sanitizer” con la rapidità di un Tex Willer con la sua Colt, siamo noi. La diseguaglianza sociale di questo paese morde i sensi ogni attimo... vista, olfatto, udito, gusto, tutti coinvolti in una grammatica fisica della sperequazione, descrive una geografia sociale della possibilità statistica di essere contagiati, ritaglia una mappa del mancato accesso ai servizi essenziali, incide le relazioni separando, creando voragini tra le persone, tracciando distanze ingiuste.
È possibile immaginare di arginare la socialità vissuta delle comunità africane proponendo di isolarsi, non toccarsi, di mettere la “giusta distanza” imponendo misure di sanità pubblica? Ci interroghiamo, confrontiamo, gonfi di dubbi come un mango lasciato troppo tempo sotto il sole.
Mi avverto diverso, oggettivato. Sono qui con i miei figli e mia moglie e personalmente la “giusta distanza” che devo stabilire è una intima dimensione interiore tra la mia funzione di operatore umanitario e antropologo e la responsabilità per la mia famiglia. Intuisco, tra la stanchezza fisica che appanna, comunque la necessità di un’analisi costante, di proteggere una ulteriore forma di “giusta distanza”, quella tra i fenomeni spuri e e la lettura antropologica di essi, di tentare consapevolmente un’etnografia di questi tempi e di ragionare sulla percezione del rischio e della malattia, sui determinanti culturali del contagio, sui possibili scenari futuri.
Oltre al lavoro quotidiano, che deve continuare, in supporto alla salute materno-infantile, alla lotta ad HIV, malaria, colera, in collaborazione con le autorità locali per rafforzare le capacità gestionali del sistema sanitario..da qualche giorno lavoriamo col governo per definire delle strategie di comunicazione adeguate ed efficaci per fare informazione e prevenzione nelle comunità rurali (collaboriamo con alcune centinaia di giovani attivisti), che vivono in condizioni igieniche molto precarie, in comunità che fondano e ri-conoscono se stesse (un processo antropopoietico, potremmo dire) sull’incontrarsi. Stiamo chiedendo il supporto a tutti gli attori influenti a livello comunitario, dai leaders religiosi ai guaritori tradizionali... ai cantanti rap molto apprezzati dai giovani, che compongono più delle metà di questo paese. Ed è già iniziata una nuova giornata di lavoro.Somos Juntos.
Mi avverto diverso, oggettivato. Sono qui con i miei figli e mia moglie e personalmente la “giusta distanza” che devo stabilire è una intima dimensione interiore tra la mia funzione di operatore umanitario e antropologo e la responsabilità per la mia famiglia. Intuisco, tra la stanchezza fisica che appanna, comunque la necessità di un’analisi costante, di proteggere una ulteriore forma di “giusta distanza”, quella tra i fenomeni spuri e e la lettura antropologica di essi, di tentare consapevolmente un’etnografia di questi tempi e di ragionare sulla percezione del rischio e della malattia, sui determinanti culturali del contagio, sui possibili scenari futuri.
Oltre al lavoro quotidiano, che deve continuare, in supporto alla salute materno-infantile, alla lotta ad HIV, malaria, colera, in collaborazione con le autorità locali per rafforzare le capacità gestionali del sistema sanitario..da qualche giorno lavoriamo col governo per definire delle strategie di comunicazione adeguate ed efficaci per fare informazione e prevenzione nelle comunità rurali (collaboriamo con alcune centinaia di giovani attivisti), che vivono in condizioni igieniche molto precarie, in comunità che fondano e ri-conoscono se stesse (un processo antropopoietico, potremmo dire) sull’incontrarsi. Stiamo chiedendo il supporto a tutti gli attori influenti a livello comunitario, dai leaders religiosi ai guaritori tradizionali... ai cantanti rap molto apprezzati dai giovani, che compongono più delle metà di questo paese. Ed è già iniziata una nuova giornata di lavoro.Somos Juntos.
Maputo (Mozambico), 18 marzo 2020
Edoardo Occa
Medici con l'Africa CUAMM
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca
Medici con l'Africa CUAMM
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.