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Vivere la contraddizione

Sono giorni strani. 
Giorni ritrovati per un verso. Sono felice; grazie allo smart working il mio pendolarismo è sospeso. Da casa riesco sia a lavorare che a proseguire la mia ricerca. Risparmierò un sacco di tempo - e soldi! - negli spostamenti casa-lavoro e darò un colpo alla tesi. 
Giorni di preoccupazione. “Là fuori” sta succedendo qualcosa di stra-ordinario mentre io mi sollazzo nelle mie piccole felicità. 
Di fronte alla Storia (che richiama Lucia Portis nel suo post di qualche giorno fa su questo stesso blog, un contributo che sento molto vicino per assonanze professionali) e a tante biografie di chi mi è vicino e lontano, sono nulla le mie gioie piccole piccole. Senso di colpa. 
Giorni di contraddizione.
Il virus è per me una preoccupazione a corrente alternata; non lo sento vicino. Eppure il cerchio si stringe. Alla fine di febbraio arrivano notizie da paesi e province poco lontane, che in comune con me hanno solo il fiume. “Il virus non risale l’Adda” scherzava con me un epidemiologo qualche settimana fa. 
Intanto continua la sua cavalcata diffondendosi nella bergamasca, terra appena al di là del mio fiume, storico confine con il regno della Serenissima. Terra dove parenti, amici e conoscenti vivono e lavorano. Dove le mie api vivono! Sarà sufficiente la necessità di andare a trovarle, ora che la primavera arriva- in anticipo, maledetti cambiamenti climatici! - come motivazione per muovermi o mi dovrò beccare una denuncia, in questo tempo di eccezionalità? 
Per fortuna le api sono animali autonomi... se avessi assecondato altri desideri nei miei sogni agro-pastorali...
In prima pagina nomi di paesi che conosco, che ho attraversato infinite volte cercando le montagne nel fine settimana: Nembro, Alzano. Il virus è comunque là, contenuto... forse faranno la zona rossa... aumentano i ricoverati e i morti: ma non hanno una storia condivisa con la mia, anche loro li percepisco lontani.



Qualche giorno fa passano da casa gli operai della nettezza urbana con i loro mezzi. Per loro lo smart working è impossibile. 
Mi chiedono se mio padre è in casa. Mantenendo la giusta distanza rispondo: “Credo di sì, suonate il citofono”. 
“Gusto, ta ma fet un cafè che tuch i bar in sarà?” e mio padre che dalla finestra risponde “se, va bee... g’al disi a mia dona” (Augusto ci fai un caffè che tutti i bar sono chiusi? - Certo, lo dico a mia moglie). 
Seguono battute e ironie sul virus, sul rischio del contagio, sulla morte che aleggia. 
Parcheggiano i camion e in cortile, alla giusta distanza, si bevono un caffè caldo che mia madre diligentemente porta loro in un vassoio, con le tazzine, i cucchiani, la zuccheriera: tutto come deve essere. 
“Vegnum anca duma matina...sii in cà?” (Veniamo anche domani mattina, siete a casa?) 
E certo che saranno a casa... in ottemperanza al Dpcm! Dove volete vadano i miei? Soprattutto dopo il terrorismo che ho fatto loro, dimostrandomi incredibilmente ligio ai dettami del potere, perfetto soldatino che risponde al senso di responsabilità richiesto a gran voce da chiunque. 
La scena si ripete pure l’indomani. Questa volta con la pioggia ma non scorgo dove bevono il caffè. Gli operai hanno portato una torta, donatagli a loro volta dal personale di un’azienda nel giro di raccolta mattutino.
Una bellissima scena etnografica a km zero, di antropologia in casa, densa di significati e temi: il dono che passa di mano in mano che evoca un Malinovski molto meno esotico, il rituale del caffè, il ruolo della donna (la risposta di mio padre è esemplare), le relazione parentali, il simbolismo di un lavoro ritenuto degradato e degrandante (il monnezzaro) quanto fondamentale nella contemporaneità e in tempi di contagio ancora di più.
Sarebbe una bella storia da fascia destra di un quotidiano on-line: la solidarietà degli italiani, offrono il caffè ai netturbini! 
Fascia destra dei siti che più detesto e che più clicco. 
Concerti al balcone, omaggi social, arcobaleni, andrà tutto bene, bandiere tricolore, gli immancabili animali che fanno stramberie.
È la tendenza critica dell’antropologia che mi fa leggere il tutto come uno sfoggio di narcisismo digitale o solo un brutto carattere e un cinismo fuori luogo in questi tempi?
Un grande narratore (per esempio Mario Rigoni Stern) come racconterebbe gli altri animali e “la natura tutta” che guarda gli essere umani in questo momento? Guardo il mio cane e lo chiedo a lei. Non risponde, per lo meno non in una lingua a me comprensibile.

Stati emotivi contraddittori, ancora una volta. 
Mia madre mi annuncia che il virus è arrivato poche case dopo la mia, colpendo un amico di famiglia. Nemmeno dopo 24 ore di ricovero muore. 
“Chi tuca taca” dicono dalle mie parti. 
Già... il virus.  


Trezzo sull'Adda (MI), 19 marzo 2020
Davide Biffi
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.