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Dalle finestre sulla quarantena: schermi, balcone, quartiere

Milano, quindicesimo giorno dalla proclamazione dello stato di Pandemia da parte dell’OMS e dall’inasprimento delle misure di prevenzione da parte del governo. 


1.  Dalla finestra

È curioso come la città sia attraversata da pulsioni e bisogni differenti. La paura del virus e il desiderio di comunità, l’apprensione per i corpi e il bisogno della vicinanza. 
Milano è deserta, così deserta come non la ricordavo nemmeno in agosto. Mi affaccio dalla finestra, sul marciapiede cammina una donna sulla cinquantina, cammina decisa e intanto fuma velocemente una sigaretta che regge con due dita avvolte da un guanto bianco da infermiera. 
Di colpo però la città prende vita: alle 18 e alle 21. Gli appuntamenti per i flash mob di musica e luci si susseguono in rete. Non è ben chiaro a che ora fare esattamente cosa, ma non importa: quando parte il boato, si comincia. Ognuno mette in comune la propria capacità di prendersi cura dell'umore comune: c’è chi si affaccia con la chitarra, chi con il flauto, chi con il tamburo, chi con il proprio impianto stereo o chi, semplicemente, con pentole e coperchi. È curioso, le canzoni scelte trasmettono i valori in gioco nella società: l’ “Inno di Mameli” emerge continuamente nelle proposte nei gruppi facebook, ma immancabilmente c’è chi risponde: “siam pronti alla morte?? No grazie!”, dalla mia finestra quest’ultima sembra essere la tendenza maggioritaria. Il mio condominio, che è un condominio sociale, ha concordato nella chat del palazzo tre canzoni: “Bella Ciao”, “O mia bela Madunina” e “O Sole Mio”: la prima perché c’è bisogno di Resistere a virus e paura, la seconda ha rispecchiato un affetto per la città abbastanza trasversale ad abitanti di diverse origini (qui ci sono vecchi milanesi, ma anche sudamericani, nord africani, est africani e persino alcuni svizzeri!), la terza è stata motivata con l’incredibile voglia di uscire e di vedere la luce in fondo al tunnel. E’ molto curioso vedere come cambiare le abitudini e aprire nuove forme di comunicazione ridisegni anche la geografia delle relazioni: da un balcone un trio di fratelli ha intrapreso una competizione musicale con i coetanei dirimpettai e sono ore che si accordano sui rispettivi gusti musicali. Chissà se rimarranno amici anche dopo la quarantena. Chissà le assemblee dei condomini saranno meno tremende.


2.  Dal quartiere

Ieri ho deciso di avventurarmi in uno dei piccoli negozi alimentari che tenacemente tengono aperto: due magazzinieri sullo sfondo indossano le mascherine, il titolare tra le cassette la tiene sulla fronte, nel negozio non c’è nessuno. Appena mi vede sussulta, si cala la mascherina sulla bocca e fa un piccolo passo indietro: tutto nel suo corpo e nei suoi gesti mi invita a mantenere le distanze. Penso che dobbiamo prenderci cura a vicenda, indosso anche io la mascherina, si rilassa. Scambiamo due parole: “le verdure sono andate a ruba, mi fa piacere che le persone vengano da me e non ai grandi supermercati, ma devo confessare di provare un brivido ogni volta che entra un cliente…e se fosse portatore?”. “Preferirebbe restare chiuso?”, chiedo. Scuote la testa: “No no…non lo so…” Una cosa è certa, nel momento di massimo isolamento, nel momento di paura l’uno dell’altra, la voglia di parlare è massima. Paradossalmente, non credo di aver mai comunicato così tanto con i commercianti della mia via come in questi giorni e in quelli immediatamente precedenti. “Posso chiederti una cosa? Ma tu hai paura del virus?”, mi chiede d’un tratto il gestore di una panetteria, con cui negli scorsi mesi avrò scambiato sì e no due parole sulla bontà degli ingredienti. “Non so se ho paura del virus, ho paura di contagiare chi è più vulnerabile e che non ci sia abbastanza posto negli ospedali”. Poche parole che innescano un fiume in piena: mi racconta che per lui è lo stesso, che sta gestendo il negozio di sua sorella, perché lei soffre di una malattia autoimmune che prevede una cura al cortisone così forte da annichilire il sistema immunitario e per questo preferisce restare chiusa in casa. Mi dice che, nonostante tutto, si sente un alieno: “Non riesco a sintonizzarmi sulle frequenze generali”, “capisco la gravità di pancia, ma non di testa, ogni tanto mi sembrano tutti pazzi, altre volte credo di essere io il pazzo, il superficiale”, confessa con un certo imbarazzo. Non è la prima persona a cui sento dire frasi simili. Emergenza, isolamento, informazioni discordanti, scarsa chiarezza delle fonti, ma anche vissuti personali, caratteri, contingenze: l’alienazione dal corpo sociale è una tendenza incredibilmente diffusa, proprio nel momento in cui una forza centripeta ci spinge tutti verso un modo di esistenza comune: “#iostoacasa”. 


3.  Dagli schermi

Avrei pensato di avere molto tempo da passare in solitudine. Invece non trascorro un attimo da sola. Il “controllo quotidiano” di mia madre, che una volta al giorno raccoglie gli stati emotivi e di salute della famiglia. Una festa di compleanno su “Zoom”, in cui abbiamo brindato a distanza per far sentire il nostro affetto ad un’amica fuori sede rimasta “incastrata” qui al nord. Una tele-riunione con il gruppo di mutuo soccorso di cui faccio parte, che si sta interrogando su come proseguire la sua attività di questi tempi. Un amico mi ha addirittura raccontato di aver organizzato una spaghettata con i suoi compagni di corso: hanno concordato un menù uguale, cucinato e mangiato insieme. Un’amica mi dice ridendo: “ci sono ex di cui non ricordavo nemmeno l'esistenza che si sono fatti vivi in questi giorni!”. Persino la sessualità e l’amore stanno cercando nuove forme di prossimità. Chissà se gli amici lontani che hanno approfittato della noia di queste ore per riallacciare i rapporti si continueranno a cercare. Chissà se i giovani continueranno ad aiutare gli anziani con la spesa, a sostenersi in momenti di difficoltà. Sarà interessante indagare il tessuto sociale della città a partire da queste domande.

Aggregazione e disgregazione. In questi giorni di incertezze e contraddizioni questa è una delle più forti e mi pare che lo sguardo olistico della Rete giochi un ruolo importante nel portarla a galla.
Ho letto in numerose analisi che circolano in internet come il CoronaVirus si stia rivelando come uno straordinario detector delle diseguaglianze sociali: sono sicura che sia vero. Non devo andare lontano: io sono “privilegiata” con la mia borsa statale, ma una delle mie più care amiche lavora in nero e in questi giorni è a casa. Ma quello che più mi ha colpito è il modo in cui i criteri della sacrificabilità sociale si stiano riconfermando e allo stesso tempo riformulando sull’asse della salute. Le teorie dell’intersezionalità ci spiegano che il modello sociale piramidale è tutt’altro che un ricordo. All’apice troviamo il maschio-bianco-ricco-abile-eterosessuale-cisgender… A ogni variabile che muta, un pezzo di ciò che poteva apparire come un diritto si palesa come privilegio, in negativo. Rispetto alla cura delle persone più esposte ai rischi della malattia,  il senso comune oscilla tra sincera paura per i propri cari, più o meno genuina apprensione per “gli altri” (soprattutto se simili a noi), autoconsolatorie rassicurazioni in salsa Super-Uomo “a me non può succedere nulla” – “io sono forte”, fino alle più spregevoli derive del “tanto muoiono solo vecchi e malati” e all’invisibilizzazione di chi per esempio una casa non ce l’ha o di coloro per cui le pareti domestiche costituiscono un vero e proprio inferno. Quello che mi pare preoccupante sono i segnali “istituzionali” in questa direzione.

Non una parola sulla violenza domestica, i centri antiviolenza sono lasciati soli a riorganizzare un’incredibile mole di lavoro. Forse il caso più emblematico è quello delle carceri. Chi ha letto le pagine di Foucault sulle istituzioni disciplinari totalitarie non può fare a meno di pensare a come si tratti di un esempio paradigmatico, incredibilmente accelerato ed estremizzato, delle conseguenze di isolamento, sovrappopolazione, mancanza di corretta informazione, insufficienza dei servizi socio-sanitari in tutta la società. Il risultato è di 13 morti.  Una domanda mi frulla nel cervello. Come funziona l’empatia sociale? Come si attiva o scompare selettivamente normalmente e in questo stato di emergenza che sembra tanto utile a illuminare le contraddizioni in cui viviamo immersi? Se quando entro in un negozio mi infilo la mascherina perché “mi metto nei panni” di chi è più esposto al contatto con le persone e non si sente a suo agio, se rispetto la paura della signora davanti a me in coda fuori dalla farmacia che letteralmente “zompa” di lato appena sospetta che il metro abbondante che ha posto tra lei e il mondo rischi di venire minacciato, se metto “cura” nelle relazioni, sia per le precauzioni sanitarie reali, ma anche per la paura che è un fatto sociale reale a prescindere da ogni altra speculazione sulla sua fondatezza o meno, non capisco come sia così difficile dallo schermo del pc “mettersi nei panni” di chi è costretto a condividere tra quattro semi-sconosciuti pochi metri quadrati di cella.

È strano: per l’antropologia l’immersione etnografica è tutto, in questi giorni non si può che immergersi nell’etere, spazio incorporeo condiviso da milioni di persone. Mentre mi domando come e in che termini questo possa diventare in qualche modo “campo”, mi perdo nei commenti alle dirette delle telecamere fuori dalle prigioni di San Vittore, Poggio Reale, Modena, Rieti… Faccio uno sforzo tutt’altro che semplice per sospendere il giudizio, ma mi chiedo cosa motivi simili commenti: “Pezzi di merda ma guardali sul tetto a fare le vittime! Se siete li ce un motivo e ci dovete marcire.”, “Fatte una somossa e riempiteli di manganellate prima che sia troppo tardi.”, “Solo in italia succedono queste cose siamo il popolo degli scemi, in america 10 min sarebbe durato a manganellate e calci nel sedere”, ”Libertà!!!! Pezzi di merda non sapete nemmeno il significato. Dovete crepare voi invece della povera gente”… Per non parlare della pioggia di insulti sotto al commento di una ragazza che ha deciso di mostrare la propria vulnerabilità: “Io sto continuando a piangere perché là dentro c’è mio fratello”. I detenuti ricevono dalle istituzioni e dalla loro mala-gestione ordinaria e straordinaria delle carceri un messaggio chiaro: siete sacrificabili. Dagli sfoghi di chi è a casa propria lo stesso: siete sacrificabili.  Lo stesso messaggio arriva, in forma più lieve, agli operai esentati dall’imperativo “#restateacasa”: gli scioperi spontanei di questi giorni hanno molto in comune con le rivolte nelle carceri. C’è un mondo sommerso di addetti delle pulizie, badanti, assistenti lasciati senza adeguate tutele che non si ferma e non può fermarsi, oltre naturalmente a quello visibile di medici e personale sanitario. A seconda di quanto percepiamo di averne bisogno li chiamiamo di volta in volta angeli o eroi. Quindi, come cambia la percezione della vulnerabilità e della sacrificabilità e il valore sociale e simbolico intorno a questi due concetti? 



 4. Essere e non-Essere: questo è il problema

Il portoricano Grosfoguel distingue tra una sfera dell’Essere e quella del non-Essere: ci sono individui e gruppi sociali che, pur nelle loro differenze, rientrano in quel 50% della sfera dell’Essere. Altri subiscono talmente tante voci di oppressioni da essere dimenticati. Mi domando: come la pandemia mondiale ridefinisce i criteri globali e culturalmente situati di ciò che può-Essere e ciò che non-deve Essere? Cosa significa oggi essere esposto al virus nella sfera dell’Essere? E in quella del non-Essere? Cosa significa resistere nella prima? E nella seconda? Cosa significa ammalarsi a Milano? E in Puglia? In Europa? E in Africa? Da ricco? Da povero? Da uomo? Da donna? Da transgender? Da giovane? Da anziano? Con diverse soglie di abilità? Cosa significa avere una buona assicurazione sanitaria o meno negli States? Vivere in un paese che punta alla riduzione del contagio o in uno che, come l’Inghilterra, ha pensato di reintrodurre principi di eugenetica usati dai nazisti per la soppressione di “inferiori” e “fragili”? Come cambia lo sguardo dalla finestra dell’Essere e da quella del non-Essere?

Queste domande mi assillano la mente, che si contorce nell’impossibilità di scambio pieno, di immersione fisica. Mi auguro che la fantasia comunicativa che sta esplodendo in questi giorni possa prepararci al mondo che abiteremo dopo la quarantena, comunque esso si ristrutturerà.

Milano, 26 marzo 2020
Elena Fusar Poli
Università degli Studi di Milano - La Statale

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.