Stamattina mi alzo con in testa il pensiero delle telefonate da fare. Ho cercato di mettere a punto un planning della mia giornata: prima telefonate, poi un po’ di giardinaggio, pranzo, un film, telefonate, revisione di un articolo, ginnastica. In questo momento è così un po’ per tutti, in casa ci siamo io e mio figlio che ormai è grande, con le amiche e gli amici ci teniamo in contatto attraverso il telefono, skype, o altre piattaforme informatiche.
C’è una calma strana, niente conflitti, l’obbligo di stare in casa sembra aver modificato le relazioni: dobbiamo sopportarci per tanti giorni e quindi in qualche modo corriamo ai ripari. Stiamo andando in letargo.
Faccio colazione con mio figlio che ascolta una lezione online del master, anche questa sembra diventata una consuetudine per tanti e naturalmente la preoccupazione dilagante è quella di aumentare le disuguaglianze. Chi non ha un computer, chi non ha una connessione, chi ha bisogno di sostegno come farà?
Arriva il tempo delle telefonate, stamattina chiamerò le persone che mi sono parse più in ansia o leggermente sintomatiche, nel pomeriggio le altre.
Buongiorno sig. Bruno, come sta oggi? ha misurato la febbre? vuole domandarmi qualcosa? Ci sentiamo domani.
La sig.ra Maria mi racconta di essersi precipitata in Toscana dalla madre malata di Alzheimer e lì ha saputo di essere stata a contatto con una persona positiva e perciò messa in quarantena. Il centro diurno frequentato dalla madre è stato chiuso e quindi ora sono sole in casa. Oggi la madre è scappata e lei, non potendo uscire, ha chiamato i carabinieri che la stanno cercando. È molto preoccupata, si sente impotente.
Il sig. Mario mi espone i suoi problemi: sono tutti in quarantena, lui e la sua famiglia a casa, la badante dalla madre che è morta pochi giorni fa. Si domanda: chi le porterà da mangiare, chi le comprerà le medicine in caso di bisogno? Lo rassicuro dicendo che la chiamerò immediatamente e mi assicurerò che possa avere tutto quello che occorre. Ci sono associazioni di volontari che possono fare la spesa a chi è in quarantena. in qualche modo il problema si può risolvere. Domani mi preoccuperò di trovare i contatti. In fondo il lavoro di rete mi è congeniale: metto in contatto persone e servizi da molti anni.
Un problema simile è quello che assilla la sig.ra Teresa: ha rotto il termometro, non può più misurarsi la febbre, un fatto banale in altri momenti, ma che oggi diventa drammatico. Lei è sola, ha paura di infettare vicini e parenti e quindi proverà a telefonare a una farmacia per capire se possono lasciarglielo sulla soglia di casa.
La soglia è diventata il luogo dello scambio: lì si lasciano i generi di prima necessità. La soglia protegge gli altri da sé. La soglia non può essere attraversata.
La soglia è diventata il luogo dello scambio: lì si lasciano i generi di prima necessità. La soglia protegge gli altri da sé. La soglia non può essere attraversata.
Ci sono poi intere famiglie in quarantena, la madre mi parla dei figli, il marito mi parla della moglie, molti chiedono cosa succederà dopo la quarantena. Non potranno fare molto di più di ciò che fanno adesso: siamo tutti reclusi.
Il sig. Mauro mi domanda se potrà andare a vedere la sepoltura della madre, stara chiuso in macchina per non infettare nessuno. I funerali sono vietati, ma almeno la possibilità di poter accompagnare i propri cari deve essere concessa.
È stata una giornata di parole, e mi viene in mente il discorso di Ivan Bargna all’apertura del Word Anthropology Day a Milano: ci sono lavori fatti di parole come quello dell’antropologo. Ebbene io uso la mia voce più che mai in questi giorni e dentro la voce c’è la consapevolezza degli obiettivi: sto cercando di capire, di aiutare e nello stesso tempo di riflettere su ciò che avviene.
Mi domando: sto facendo l’antropologa? Sto facendo l’educatrice? A volte questi due ruoli si confondono, non so se sono un’antropologa che ha incorporato un fare educativo o un’educatrice con competenze antropologiche. Ma forse tutto questo è poco importante.
Direi che stiamo “inventando” la professione dell’antropologo con fatica ed entusiasmo allo stesso tempo.
Posso certamente dire che un fare quotidiano con l’altro che porti con sé un desiderio di ricerca costante, di comprensione della realtà, di riflessione sulla relazione è per me un fare antropologico.
Allora concludo questo diario con la consapevolezza che sto mettendo a frutto, anche in questo frangente, un saper fare che poggia le sue radici sia nella professione educativa che in quella antropologica.
Ma è nato prima l’uovo o la gallina?
Torino, 22 marzo 2020
Lucia Portis
ASL Città di Torino
ASL Città di Torino
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.