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La vita e la morte

Clyde Kluckhohn ha definito l’antropologia culturale come “il giro più lungo”, attraverso il quale ci si può accorgere in realtà di compiere “la via più breve per tornare a casa”. Seguendo questo principio, di cui la disciplina è impregnata, tra il 21 aprile 2008 e il 16 maggio 2008 Ugo Fabietti, noto antropologo italiano scomparso prematuramente quasi tre anni fa, ha tenuto una serie di venti interventi radiofonici. Questi sono stati ospitati da Radio 2, raccolti in una rassegna dal titolo “Senza Confine”, all’interno del programma radiofonico di divulgazione culturale “Alle otto di sera”, trasmesso dal novembre 1999 al settembre 2009. 

A partire dai suoi viaggi compiuti in Arabia, Iran, Pakistan, Medio Oriente e Africa, Ugo Fabietti racconta in venti puntate dalla durata di 28 minuti l’una gli incontri e le scoperte fatti in una vita dedicata alla ricerca. Lo fa nel modo che gli era più congeniale, facendosi accompagnare da antropologi e antropologhe che hanno esplorato la differenza culturale e l’unità umana. Ne risulta un ciclo di incontri, di taglio spiccatamente divulgativo, che ben descrive l’ampio ventaglio di conoscenze sul genere umano sedimentatosi nel corpus della disciplina antropologica. 

Quando domenica mattina ho ricevuto da Angela Biscaldi, antropologa dell’Università di Milano, un messaggio in cui mi diceva che, grazie all’aiuto di Sara Zambotti, anch’essa antropologa e conduttrice radiofonica, era riuscita a recuperare l’intero ciclo di incontri, ho subito pensato che avrei trovato elementi utili ad ampliare la cassetta degli attrezzi per pensare e ragionare su quanto stiamo vivendo. E così è stato. 

L’ottavo intervento della rassegna è infatti dedicato al tema della vita e della morte. In un racconto ricco di dettagli, di curiosità etnografiche, ma anche e soprattutto di solida teoria, Ugo Fabietti tratteggia il contributo della disciplina alla comprensione di quello che lui stesso definisce come “le grandi ossessioni dell’umanità”, la vita e la morte appunto. 
Ad oggi, questi ci vengono restituiti principalmente attraverso grafici, tabelle, infografiche che neutralizzano la densità di questi “fatti sociali totali”, aumentando non solo la distanza tra questi due aspetti dell’esistenza umana, ma anche indebolendo i legami – simbolici e materiali – che tengono insieme questi due aspetti solo in apparenza in opposizione – e mi sia perdonata la banalità. La vita e la morte, infatti, come ricorda Fabietti, costituiscono “la cornice più ampia entro la quale si può racchiudere il senso della comune esistenza umana”. 
Attraverso le chiangimorti salentine di De Martino, le uova dipinte di bianco e nero di Bachofen, le doppie esequie studiate da Robert Hertz, l’apparente incuria dei cimiteri mediorientali, i riti funebri ad elevato tasso alcolico dei malgasci, Ugo Fabietti tratteggia la centralità della morte nel cuore della vita comunitaria. 


Nella società italiana contemporanea, la morte viene spesso relegata ai margini della stessa: questa viene infatti allontanata, nascosta, desocializzata e depoliticizzata, soggiogata a discorsi tecnici e biomedici. Tuttavia, la morte si è oggi imposta drammaticamente al cuore delle nostre vite, costringendoci ad accettare una fragilità esistenziale che ci obbliga a ripensare il nostro ruolo nel mondo. 
La lezione di Fabietti ci invita a fare il giro più lungo per interrogarci sulla precarietà della nostra esistenza umana, ricordandoci innanzitutto, fin dal titolo dell’intervento, che vita e morte sono inseparabili e, in secondo luogo, che la questione è “senza confini”, perché come ricorda lo stesso Fabietti, “le domande sono dappertutto simili e le risposte sono dappertutto diverse”.

Una breve nota conclusiva: nella parte finale della registrazione si nasconde probabilmente il senso più profondo del messaggio di Fabietti, come Angela Biscaldi mi ha fatto giustamente notare. Viene infatti riportato un episodio etnografico che riguarda un antropologo che ha svolto ricerca di campo in Grecia. Durante la sua permanenza l’etnografo si trova a partecipare a una veglia funebre, seduto accanto a un uomo deceduto parecchie ore prima, in attesa dei parenti del defunto. Avvolto dai lamenti dei partecipanti alla veglia, l’antropologo prova a immaginare una situazione in cui quella sia la sua stessa morte. Quando arriva il fratello del defunto, viene intonato un lamento in cui si racconta di due fratelli separati violentemente da un torrente in piena. I due stanno abbracciati cercando di resistere alla corrente. In quell’istante, l’antropologo racconta di aver pensato al suo stesso fratello, e di aver pianto. 

In questo racconto è pienamente espressa la valenza del sapere antropologico e la capacità di immedesimarsi e di produrre un sapere capace di coniugare la propria esperienza di vita con quella delle persone con cui si fa ricerca. In questo racconto, si trova il possibile contributo dell’etnografia alla narrazione e all’analisi del momento che stiamo vivendo: la capacità di mantenere appunto “la giusta distanza”, riprendendo il nome di questo blog, che deve essere profondamente “umana”, relazionale, densa. Una distanza che non allontana, dunque, ma che avvicina.

Milano, 16 marzo 2020
Giacomo Pozzi
Università di Milano Bicocca

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.