L’epidemia avanza in Europa e nel mondo. Il ‘caso italiano’ (in realtà lombardo) continua a spiccare per eccezionalità in quanto a numero di contagi e decessi. Che ciò sia legato a dinamiche ambientali sembra un’ipotesi promettente da approfondire. Alcune ipotesi mettono in relazione il virus con l’inquinamento dell’aria, altri con la presenza nei corpi degli infettati e nelle strutture sanitarie di batteri antibiotico-resistenti. Il fatto che il nord Italia sia tra le zone più inquinate di Europa e che la percentuale di morti per antibiotico-resistenza (causate dall’utilizzo massivo di antibiotici sia per curare umani che animali) sia la più alta in Europa certamente non aiuta. Michel Foucault, durante la sua ultima lezione del ciclo ‘Bisogna difendere la società’ (1975-1976) aveva descritto il biopotere come un “far vivere e lasciar morire”, ovvero una configurazione socio-politica che incoraggia e facilita alcuni tipi di vita, marginalizzandone di conseguenza altri. Ma per stabilire un legame tra queste ipotesi e la diffusione aggressiva del virus dovranno essere effettuate ricerche epidemiologiche approfondite, possibilmente interdisciplinari.
Le ‘dinamiche ambientali’, però, includono anche aspetti della cultura organizzativa sanitaria. Lunedì sera, guardando Report, ho avuto modo di riflettere in maniera più approfondita su questi aspetti. Oltre alla ben nota mancanza di mascherine, dispositivi protettivi, respiratori e posti letto, in Italia non esiste un monitoraggio dell’andamento di casi di polmonite nazionali aggiornati. Il più recente risale al 2016. E questo ci riporta a Foucault e a come un certo tipo di biopolitica abbia incoraggiato negli ultimi anni la cura piuttosto che la prevenzione.
Un altro tema sottolineato durante la puntata è quello dei protocolli. Il paziente 1 era stato identificato agendo fuori dai protocolli che al 21.02 non prevedevano di effettuare tamponi su persone che non fossero rientrate dalla Cina o che avessero avuto rapporti stretti con queste. Stamattina sono andata a studiarmi le circolari ed effettivamente quella del 22.01 includeva come caso sospetto “Una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un'altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica.” (p.6) mentre in quella del 27.01 questa tipologia è stata eliminata, per venire poi reintrodotta nella circolare del 09.03. La restrizione sulla definizione di ‘caso’ sospetto appare inadeguata perché non tiene conto della vita sociale dei virus, attori estremamente mobili che non guardano certo al passaporto o ai confini nazionali.
Nella stessa puntata è stato intervistato il dott. Maurizio Chiesa, medico di Codogno che ha sottolineato come non solo esistano troppi protocolli (quelli regionali, provinciali, nazionali, europei, OMS, ecc…) ma anche che molti di questi sono distanti dalla pratica clinica. Per esempio, secondo il protocollo vigente al momento dell’intervista lui avrebbe dovrebbe effettuare un tampone a tutti i pazienti che per un motivo di salute urgente necessitano di un ricovero. Il dott. Chiesa ha però sottolineato come seguire questa procedura provocherebbe un allargamento del contagio: una persona potenzialmente non contagiata (paziente X) avrebbe un’alta probabilità di contagiarsi nel momento stesso dell’effettuazione del tampone dato che i pazienti monitorati stazionano tutti in una stessa camera. A quel punto, il paziente X, risultato negativo al test ma con il virus nel suo corpo verrebbe messo in corsia insieme ad altri pazienti negativi al test ma con condizioni cliniche gravi. le conseguenze sono facilmente intuibili. Come osserva il dott. Chiesa: “un conto è scrivere delle regole, nero su bianco, a centinaia di km di distanza, un altro è passare delle notti come le passo o e come le passano tutti i miei colleghi, là dove c’è il problema” (minuto 31 della puntata).
Nella frenesia dell’epidemia questi aspetti apparentemente marginali - ma fondamentali - rischiano di passare in secondo piano, lasciando la corretta interpretazione delle circolari alla buona volontà o competenza del singolo medico. I giornalisti, come quelli di Report, offrono un eccellente servizio pubblico facendo notare queste problematiche. Ma per rimediare a ciò una ricerca etnografica di breve corso potrebbe sicuramente aiutare, mitigando o risolvendo i problemi provocati dalla discrepanza tra i protocolli e le pratiche sanitarie. Un’etnografia, anche di breve termine, potrebbe studiare le pratiche organizzative sanitarie in tempi di COVID-19 e come queste suggeriscano correzioni alle circolari per situazioni o configurazioni organizzative non previste dalle circolari vigenti.
Gli strumenti messi a disposizione dall’antropologia aiutano a valutare la situazione pandemica in maniera critica, ispirando aggiustamenti socio-politici ed economici ad ampio spettro e di lunga durata che leghino l’assetto socio-politico ed economico alle condizioni biologiche dell’epidemia. Ma lo sguardo antropologico, attento ai dettagli e alle pratiche, può anche fornire soluzioni immediate e semplici per problemi precisi e ben delimitati (sebbene parte di quelle dinamiche più ampie descritte sopra), come quelle delle pratiche organizzative sul lavoro.
Carisolo (TN), 3 aprile 2020
Roberta Raffaetà
Libera Università di Bolzano
Libera Università di Bolzano
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.