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Ritorno al futuro // FASE 2

Nel 2016 andai per una breve trasferta in Sierra Leone, per incontrare le principali Università ed alcune istituzioni che si occupano di formazione, Paese di cui colpevolmente conoscevo poco.
Una delle poche cose che ricordavo bene, oltre alla guerra civile, era naturalmente l'epidemia di Ebola che era stata dichiarata conclusa da poco e che aveva colpito duramente in quella fase Liberia, Guinea e appunto Sierra Leone.
Poco prima di partire, grazie a un consiglio di un amico che aveva condotto la sua etnografia lì, avevo visto un documentario, Back in touch, che raccontava il ritorno alla vita normale, dopo un lungo periodo di scuole chiuse, assembramenti vietati, stadi vuoti, relazioni amorose distanti.
Suddiviso in otto capitoli, raccontava di famiglie, sepolture, negozi, partite di calcio, gravidanze indesiderate, economia informale e dello slum di Freetown.
Parlava della vita al tempo di Ebola, che era un tempo con una data di inizio (il cosiddetto “paziente zero”) ma più difficilmente una data certa di fine: i cittadini si trovavano a vivere una fase di convivenza con l'epidemia, fatta di precauzioni, paura, trasgressioni delle norme e grande incertezza, a cui si aggiungevano i problemi strutturali del Paese, la disoccupazione, la povertà, le diseguaglianze.
Durante quel breve viaggio l'epidemia e il suo fantasma erano presenze silenziose, poco citate ma in realtà evocate spesso: cartelli per le città e nei bagni delle università dichiaravano “Ebola is not over”, bottigliette di disinfettante per mani erano sui tavoli di tutti i bar e gli studenti e i professori incontrati avevano a che fare con un anno accademico nuovo, con nuove sfide e carenze.
Lo studio di fattibilità per cui ero partita non si è trasformato in un progetto e in quel Paese non sono più tornata: da alcune settimane però ripenso spesso a quei cartelli e ai racconti della ripresa della normalità, che allora – evidentemente vittima anch'io dell'alterizzazione della malattia e della fragilità – avevo percepito come così distanti e irriproducibili nel mio contesto.


Invece, per le prime settimane di epidemia Covid in cui l'Italia risultava il secondo Paese dopo la Cina per contagi, il mio telefono ogni mattina riceveva messaggi preoccupati da altri Paesi africani frequentati, il Madagascar e il Ghana, che si assicuravano della mia salute e mi chiedevano dettagli della vita in quarantena: come si va al mercato? Come si pagano le multe se non si hanno soldi?
Eravamo noi di colpo l'oggetto di attenzione del mondo, eravamo noi quelli vulnerabili da guardare con apprensione.
La traduzione reciproca di cosa stava accadendo si è per certi versi semplificata quando i confinamenti sono stati applicati anche dalla maggior parte dei governi africani e il tema delle mascherine, del limitare gli spostamenti, del “restare a casa” è diventato quotidiano, seppur con alcune marcate differenze, anche nella vita dei miei amici, conoscenti, interlocutori africani.
E in questo dialogo virtuale di rimandi, in cui a richieste di suggerimenti su precauzioni da prendere che mi sono state fatte o domande sui tempi di produzione del vaccino, si è affiancato l'annuncio il 21 Aprile 2020 del Presidente del Madagascar Andry Rajoelina del Covid-Organics, un rimedio a base di piante medicinali che è stato poi distribuito a tutti gli studenti malgasci in vista della riapertura delle scuole.
Di nuovo, l'assunto base che impariamo nel primo esame di antropologia, il decentramento, si stava realizzando: la medicina occidentale e il credito di fiducia che le si attribuisce “dal sud del mondo” non era più sola al centro della soluzione e, pur con scetticismo e critiche da fronti locali e internazionali, un'isola dell'Oceano Indiano conquistava (alcune) pagine dei giornali e diverse piattaforme delle diaspore africane in Italia.
Nei giorni si sono succedute altre notizie come quella di un test di diagnostica rapida per individuare i positivi al virus prodotto dai laboratori dalla seconda università ghanese, il KNUST di Kumasi, rimanendo nell'ambito dei Paesi su cui mi informo maggiormente.



Questo dialogo a singhiozzo, dove si intrecciano i ricordi di un breve soggiorno in Sierra Leone, la ricerca di notizie sui media africani, le conversazioni con amici malgasci su Messanger, l'immaginazione delle nostre reciproche quotidianità in casa, le riflessioni degli analisti, porta naturalmente ad interrogarsi sul futuro, in una prospettiva globale, che è quella che la pandemia per sua stessa definizione ci suggerisce.
In alcuni contesti culturali, tra cui appunto il Madagascar (e il Perù, in un'espressione quechua), il futuro è visto dietro di noi, perchè non lo possiamo vedere, mentre il passato è davanti agli occhi, in quanto conosciuto e osservabile: questa metafora linguistica mi ha sempre fatto pensare che in contesti dove l'incertezza (economica, sociale, a volte politica) prevale, la capacità di essere radicati nel presente sia maggiore, pur lasciando spazio ovviamente ai desideri e alla “capacità di immaginare” che l'antropologia contemporanea giustamente celebra.

Ripartire allora dal passato che abbiamo davanti agli occhi e da equilibri precari del presente che mai come adesso sembrano venire in superficie in tutta la loro zoppicante verità sembra necessario: dal lavoro ai rapporti di genere, da quale ruolo attribuiamo alla scuola alla questione della casa e dell'abitare, dalle responsabilità individuali a quelle delle istituzioni.
Il mondo che verrà, dall'osservatorio che questi mesi di cambiamenti rappresentano, spero saprà alimentare ancora un dialogo con un altrove che per ciascuno di noi (etnografi in primis) si colloca in alcuni luoghi specifici, ma che è soprattutto un esercizio di distanziamento, questa volta (speriamo) non letterale, dalle nostre convinzioni, dalle nostre certezze, dal nostro modo di guardare alla vulnerabilità e al futuro.

Milano, 2 maggio 2020
Valentina Mutti
Università degli Studi di Milano "La Statale"

Valentina Mutti è Dottore di ricerca in antropologia, lavora come consulente per istituti di ricerca ed enti del terzo settore occupandosi di migrazioni, comunità diasporiche ed istruzione superiore in Africa. È tutor del corso "Antropologia culturale" presso l'Università degli Studi di Milano "La Statale".

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano