L’esperienza umana, tra grafici e curve
Ai tempi delle scuole elementari, la mattina mi ritrovavo a far colazione con la televisione sintonizzata sul telegiornale. Le notizie uscivano dallo schermo senza che io riuscissi a comprenderle. Poi toccava agli andamenti delle borse. Quei grafici e quegli indici sono sempre stati per me un vero e proprio mistero. A oggi fatico ancora a comprendere cosa quei numeri volessero realmente comunicarmi. Sono trascorsi vent’anni da quei giorni dell’infanzia e la sensazione che ieri mi provocava il grafico dell’andamento delle borse, oggi me la provoca il grafico dell’andamento del covid-19. Semplicemente, attraverso i grafici, riesco a rappresentarmi ben poco di tutto quanto nel mondo si sta consumando. O meglio: quei numeri non riescono a dirmi tutto.
Ai tempi dell’epidemia da coronavirus l’esperienza umana è ridotta a numeri, dati, curve. Informazioni, queste, che restituiscono una rappresentazione matematica della realtà. Una rappresentazione percepita come l’unica possibile. Perché è sulla base dei numeri, dei dati e delle curve che pensiamo le soluzioni, soprattutto quelle politiche e economiche. Eppure i numeri non sempre mantengono la promessa di raccontare la portata di un fenomeno. Perché i numeri non hanno nomi o cognomi. Non svolgono professioni, non hanno età, né aspettative. Non provano emozioni, non versano lacrime. Non soffrono l’ansia, non assumono farmaci. Non hanno una famiglia da aspettare sulla porta di casa, non hanno nonni o padri o madri. Non hanno figli o amici. Non hanno paure né tanto meno frustrazioni. Non pregano né imprecano. I numeri non pensano né desiderano. Più che la realtà, rappresentano i parametri che abbiamo adottato per capirci qualcosa in più. Così, al cambiare dei parametri, cambiano anche i risultati che i numeri vogliono raggiungere. E insieme a questi, infine, cambia anche la realtà che stiamo rappresentando. Osservare fenomeni e raccogliere dati ha infatti un prezzo da pagare. Karl Popper affermava proprio questo quando sosteneva che “la credenza secondo la quale possiamo partire da delle pure osservazioni, senza niente di simile a una teoria, è davvero assurda: l’osservazione è sempre selettiva”. Per dirla in altri termini: per cercare qualcosa è necessario sapere cosa si sta cercando. Dunque, per cercare una rappresentazione dell’epidemia, è necessario avere già a disposizione una particolare idea di cosa sia la malattia, la salute e la cura. A tenere insieme questi concetti è il corpo. E’ quest’ultimo a essere colpito dalla malattia. E’ il corpo a essere l’oggetto della salute così come della cura. Per queste ragioni le politiche di contrasto al covid-19 prevedono il distanziamento fisico (distanziamento fisico, non sociale). Sono i corpi che stiamo curando e sono sempre i corpi che stiamo conteggiando.
Numeri, soggetti e significati
I numeri dell’epidemia continuano allora a promettere di comprendere la portata del fenomeno. Eppure, a quei numeri, manca qualcosa. Manca il significato. Non rendono conto dei lutti, dei legami tra persone, dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri, dei comportamenti individuali. Perché è sulla base di tutto questo che le persone agiscono e, soprattutto, re-agiscono. I grandi numeri non tengono conto delle motivazioni che inducono le persone all’azione. Eppure è proprio a partire da essi che viene prodotta la norma, una norma che ambisce poi a monitorare i comportamenti.
Un esempio empirico può essere d’aiuto. Tra i dati dell’epidemia troviamo anche quelli riguardanti la mobilità o gli spostamenti delle persone. Attraverso l’attività di monitoraggio delle forze dell’ordine sui territori è possibile conoscere quanti individui, in una particolare area, stanno circolando. Questi dati sugli spostamenti, se messi in relazione a quelli riguardanti l’aumento dei contagi nella medesima area, mostrano una connessione. Da qui una conseguenza: circolare favorisce il contagio. Dunque la norma diventa una soltanto: “stare a casa”. E’ a questo punto che i numeri mostrano tutti i propri limiti: essi non ci dicono nulla sulle motivazioni che hanno spinto alcuni di quei corpi a uscire dalle proprie case. I numeri sembrano negare le motivazioni. Puoi infatti uscire perché soffri di attacchi di ansia e hai bisogno di camminare oppure perché mamma è ricoverata in una Rsa e l’idea di non rivederla fa male. Puoi uscire perché ti manca il tuo compagno, con il quale condividi la vita da anni. Puoi infrangere la quarantena perché sei un eroinomane e, ai tempi dell’epidemia, è meglio contrarre il virus anziché provare sulla propria persona i sintomi drammatici dell’astinenza. Oppure puoi uscire da casa perché, in fondo, nulla ti importa. Che piaccia o meno, che si condividano oppure no, sono queste le motivazioni che spingono quei corpi all’azione. E sono queste motivazioni che danno sapore all’esperienza umana. Perché le persone, per i propri affetti o per le proprie dipendenze, infrangono leggi e le trasgrediscono: i corpi si riscoprono così soggetti capaci di desiderio e di motivazione. Non solo corpi inermi da conteggiare.
Il corpo: non solo oggetto
Se l’analisi dei numeri è compito degli epidemiologi, considerare le motivazioni è invece compito degli scienziati sociali, antropologi compresi. Perché le motivazioni che spingono all’azione vengono percepite direttamente e in prima persona. I numeri no. I numeri contano i corpi malati, quelli guariti, quelli che si spostano: corpi e soltanto corpi. Per questa ragione, a volte, i numeri sembrano essere privati di un qualsiasi significato. Il modello matematico dell’epidemia è un “concetto lontano dall’esperienza”, per citare Clifford Geertz. Nell’immaginario delle persone, esso è distante da quanto quotidianamente vivono. I soggetti, secondo il modello matematico, sono oggettivizzati e dunque espropriati della propria dimensione relazionale e sociale. Tuttavia, l’esperienza dell’epidemia, mostra il contrario. Ha infatti a che fare con il distanziamento fisico, l’uso di oggetti quali mascherine e guanti, l’uso di dispositivi digitali per rimanere aggiornati sull’andamento del fenomeno, l’uso di autocertificazioni cartacee per giustificare i propri spostamenti: tutto questo modifica inevitabilmente il nostro modo di relazionarci e di percepirci come soggetti che agiscono e interagiscono. E’ sociale, questa esperienza, proprio perché gli individui la percepiscono attraverso il corpo e attraverso la propria presenza corporea nel mondo. E, attraverso di esso, costruiscono nuovi significati: il corpo non è mai solo un oggetto, è qualcosa di più.
La promessa dell’antropologia
La narrazione di quanto sta avvenendo sembra aver rimosso la dimensione relazionale e sociale. E uno dei risultati è la mancanza di un orizzonte di significato capace di offrire una spiegazione, non tanto dei numeri ma di quanto i soggetti stanno vivendo socialmente in questo capitolo della storia umana. E’ questa la sfida che l’antropologia ha di fronte a sé: trovare nuovi significati, ritualizzare nuovamente l’esperienza e costruire nuovi modelli esplicativi. Sono queste le ragioni che spingono tanti giovani a studiare l’antropologia. Una disciplina che promette sguardi inediti.
Milano, 5 maggio 2020
Daniele Pascale
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università di Milano Bicocca
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università di Milano Bicocca
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.