L’isolamento non mi fa paura. Come molti colleghi ricercatori, ho affrontato spesso periodi di isolamento volontario, finalizzati a riordinare le idee e a scrivere dei lavori da pubblicare. Quando ho scritto i miei due libri, l’autoisolamento si è prolungato per mesi. Questo è successo quando vivevo a Milano, forse la città più mobile e dinamica d’Italia, dove cedere alla tentazione di uscire, vedere gente, partecipare alle migliaia di eventi culturali, è irresistibile.
Adesso però la mia situazione di vita è cambiata. Vivo in Puglia ed ho due figli di tre anni, che vorrebbero andare a scuola, al parco giochi, al mare (qui il tempo lo permetterebbe). Tenerli segregati in casa è difficile. Per qualche giorno, prima che le misure di contenimento del contagio diventassero più restrittive, li ho portati a giocare in aperta campagna, ma ho smesso di farlo prima che questa cosa fosse espressamente proibita (dal decreto di ieri, 20 marzo). Adesso, a parte due ore di didattica on line - che funziona benissimo - la mia giornata consiste nel partecipare ai loro giochi a casa, cercando di far loro pesare il meno possibile lo “shelter at home”, come lo chiamano negli USA (a proposito, come lo chiamiamo in Italia?).
Ho vissuto per 16 anni a Milano. Ho amato la città dal primo giorno in cui sono arrivato. Era per me il luogo in cui le cose accadono. Intendo dire, le cose di cui si parla nel resto del Paese. Mi ero formato sui libri di Ugo Fabietti e adesso lo conoscevo! Ero cresciuto col mito del Leoncavallo: l’ho subito cercato e ne sono diventato un attivista. Avevo studiato Clifford Geertz e dopo pochi giorni il grande antropologo ha tenuto una conferenza alla Bicocca. Potrei andare avanti ancora con molti esempi.
Guardo poco la TV, ma i miei amici di Milano mi descrivono le strade deserte, il silenzio, l’assenza di attività. Se questo mi sembra accettabile nella mia cittadina, Molfetta, a Milano mi sembra impossibile.
Ma il contagio sta arrivando anche qua. A causa soprattutto dei rientri dal Nord. Probabilmente è vero. Non posso esprimere un giudizio sulla scelta di scappare dalla Lombardia senza considerare il desiderio delle persone di stare vicine ai propri cari in un momento di grave pericolo. Tutti sanno, però, che il sistema sanitario lombardo è tra i migliori del Paese. Rientrando in Puglia, mi sono personalmente accorto di quanto qui il sistema, sebbene funzioni abbastanza bene, richiede ai cittadini molta pazienza e molto impegno. Sembra che la sanità lombarda vada incontro ai cittadini; quella pugliese si fa desiderare.
Credo allora che molti di quegli studenti, professionisti, lavoratori che dal Sud erano andati a vivere a Milano, che pure avrebbero gli strumenti culturali per agire razionalmente, non lo hanno fatto. Che senso ha partire in massa e andare a intasare dei sistemi sanitari regionali meno efficienti? È probabile che la contraddittorietà dei messaggi istituzionali, nei primi giorni, non abbia favorito la condivisione di comportamenti pienamente consapevoli. La responsabilità dell’esodo incontrollato, quindi, forse non è solo dei singoli, ma anche del sistema politico-istituzionale nel suo complesso. Di conseguenza, credo siano fuori luogo le reazioni di quanti si sono espressi con antipatia verso questi viaggiatori, trattandoli come gli untori di manzoniana memoria. Con sarcasmo, io e alcuni amici abbiamo definito l’esodo verso Sud “il rientro dei cervelli”. Bisognerebbe però chiedersi se la politica e le istituzioni abbiano permesso a quei cervelli di funzionare pienamente.
Molfetta, 25 marzo 2020
Domenico Copertino
Università degli Studi della Basilicata
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.