Pagine

"10 oggetti (d)alla fine del mondo": il blog si mette in mostra / FASE 3

Anche per il nostro blog è venuto il momento della Fase 3. Dopo oltre 100 giorni online, con un ottantina di contributi pubblicati e circa 30.000 pagine lette, siamo felici di annunciare che siamo prointi a tornare sulla Terra approdando al Museo Vallivo Valfurva... una prima tappa del viaggio che ci porterà all'edizione 2021 del World Anthropology Day.
Grazie all'iniziativa di Maria Valentina Cassa, già studentessa del Corso di Perfezionamento in Antropologia Museale e dell'Arte dell'Università di Milano Bicocca e oggi Direttrice del Museo, il gruppo di lavoro dell'AnhtoDay Milano è stato coinvolto nel progetto di realizzazione di una mostra che si terrà dall'11 luglio al 15 settembre 2020.


Il titolo della mostra, "10 oggetti (d)alla fine del mondo", evoca evidentamente Ernesto De Martino e muove dalla considerazione che i mondi culturali nascono e muoiono, ma lasciano traccia di sé negli oggetti, testimoni materiali delle vite delle persone. Il percorso che abbiamo ideato presenta 10 oggetti che arrivano dalla fine del mondo contadino di montagna e che ci vengono incontro alla fine del mondo che abbiamo conosciuto finora. Alla luce della pandemia e dell’antropologia, rivelano qualcosa di sé e di noi che forse non sapevamo.

Se ogni società va compresa nel suo specifico contesto per evitare di ridurla a noi, è pur vero che non possiamo farlo se non a partire dal luogo in cui poggiamo i piedi.  La pandemia ci ha però rivelato la fragilità di una normalità che davamo per scontata; ci è mancata la terra sotto i piedi e quella normalità  è forse già diventata “il mondo di una volta”. Questo evento traumatico cambia il nostro sguardo sul passato insieme a quello sul futuro che ci attende. La mostra seleziona alcuni oggetti del collezione etnografica permanente del Museo Vallivo Valfurva per farli entrare in risonanza con il periodo che stiamo vivendo e  riflettere come, al di là delle differenze, si possa ritrovare una comune condizione umana.

L'inaugurazione della mostra avverrà venerdì 10 luglio 2020 alle ore 17.00. Vi aspettiamo!

Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Fase 2: Superare l’inquietudine, la rabbia, lo spaesamento tra sociale e virtuale [STUDENTS' CORNER]

Pubblichiamo la TERZA E ULTIMA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.


"I social hanno mostrato canti, balli, striscioni che hanno animato i balconi di tutti gli italiani, da nord a sud, per non parlare di motti quali ‘ce la faremo’, ‘andrà tutto bene’ e ‘torneremo!’. Ecco queste pratiche hanno mostrato una certa solidarietà tra le persone. [Ma] veramente questa quarantena ci spinge ad essere persone migliori? O sarà come un ‘Natale’ quando siamo tutti più ‘buoni’ per un solo giorno? Il confine [tra prima e dopo] si mostra molto labile e poroso" (Ersilia Bernardone, Diario di campo).

Il “campo” è un’esperienza poliedrica e complessa, che deve essere nutrita incessantemente da una certa “curiosità etnografica” (così la chiamano John Borneman, Abdellah Hammoudi nel loro Being There: The Fieldwork Encounter and the Making of Truth). Nel tentativo di afferrare una certa rappresentazione della realtà - o detto altrimenti: nel tentativo di contribuire a produrla insieme ai nostri interlocutori privilegiati - ricercatori e ricercatrici hanno dovuto affrontare le sfide di camuffamenti, doppi ruoli e posizionamenti tutt’altro che lineari. Qualcuno tra noi ha colto l’occasione di continuare la ricerca negli spazi esterni e pubblici, approfittando dunque di un altro ruolo. Come dicevamo, accadeva anche prima che il “campo” fosse un terreno di posizionamenti molteplici e da negoziare, di volta in volta, con i propri informatori o informatrici. Fare ricerca ai tempi del COVID-19 significa sfruttare le occasioni che abbiamo di poter rivestire un duplice ruolo. Per farlo bisogna attrezzarsi con tutte le protesi medicalizzanti che vengono prescritte perché ritenute protettive (mascherine e guanti), immergendosi in una realtà che ci vede protagonisti di una relazione estetica simmetrica. E mentre siamo lì per fare altro (lavorare o prestare volontariato), osserviamo le dinamiche, captiamo discorsi, interveniamo nello scambio...

Una prima riflessione sul futuro della ricerca - appena si capirà meglio quali possibilità avremo di muoverci perché senza mobilità il campo come abbiamo visto si fa fin troppo intimo - ha a che vedere con l’uso di strumenti distanzianti perché (appunto) protettivi, che finiscono inevitabilmente per medicalizzare anche la relazione etnografica (oltre al nostro spazio quotidiano). La mascherina, in particolar modo, risultava a principio essere una cosa impensabile perché limitante nell’esercizio dell’espressione facciale, di una certa mimica in grado di facilitare il riconoscimento e la relazione di prossimità e fiducia. Massimo Leone, Professore dell’Università di Torino, racconta così in un’intervista a UniTo News, come la mascherina cambia e forse cambierà le nostre interazioni sociali.

"Cambiano i volti anche nello spazio pubblico perché compare la mascherina. La mascherina è un oggetto al quale il mondo occidentale non è abituato, lo considerava come un oggetto tale da apparire soltanto in alcuni scenari molto specifici […] Adesso invece queste mascherine dilagano e portano con sé una connotazione di una medicalizzazione dello spazio pubblico. Ci sono altre società invece in cui ciò non avviene. Le culture dell'estremo oriente sono più abituate alle mascherine".

Ciò che il semiologo definisce “medicalizzazione dello spazio urbano” coglie appieno, secondo noi, quanto detto: lo spazio di interazione e di scambio sociale diventa strettamente connesso alla dimensione medica riducendo così i confini tra sano e malato, impedendo la costruzione di un’idea di untore che potrebbe colpire il ricercatore stesso (Lorenzo Maida) [1]. La riflessione su questi temi da parte di gruppi di ricerca antropologica che hanno lavorato su altre epidemie ci sembrano preziose (cfr. http://www.ebola-anthropology.net/) e da stimolo per immaginare la funzione sociale della ricerca. Come continuare a fare campo può contribuire a seguire la lezione antropologica, di testimoniare e apprendere (“testimone” e “allievo” sono le parole usate da Claude Lévi-Strauss in Razza e Storia) dai propri interlocutori?

Potrà sembrare improprio quest’altro parallelismo, ma proviamo a suggerirlo. Fare ricerca dietro una mascherina - che sta sempre più diventando “oggetto” dai significati sociali molteplici (medico-sanitari, estetici, morali) - ci ricorda altre sfide metodologiche di ricercatrici che hanno condotto le loro ricerche etnografiche “sotto il burka” o dietro altri veli. Fariba Adelkhah, antropologa franco-iraniana prigioniera politica dal 5 Giugno 2019 nel carcere di Evin a Teheran, è una di quelle ricercatrici che hanno reinventato il campo in zone a rischio, ad alto rischio, dove difficilmente ci si inoltrava per fare ricerca a viso scoperto [2].

Chi tra noi ha tentato una ricerca “sotto copertura” ha potuto toccare con mano le prime difficoltà e i nodi del doppio ruolo, senza che questo ovviamente sia comparabile ai campi sopra evocati. Proviamo a fare questo esempio:

"Qualche giorno fa ho constatato che cosa significa essere una lavoratrice ai tempi del COVID-19, ma non solo: ho constatato anche cosa può significare essere una ricercatrice sul campo, con tutti i dubbi e le “complicazioni” che ciò può comportare. Non è stata una cosa voluta in realtà. Diciamo piuttosto che ho colto l’occasione al volo.
Non sono andata molto lontano, serviva un aiuto nell’azienda di famiglia vista la provvisoria carenza di personale. In caso qualcuno si chiedesse perché l’azienda non è stata chiusa, la risposta è perché si tratta di un’azienda alimentare, quindi fornitrice di beni di prima necessità. È un’azienda piccola, con circa una trentina di dipendenti in tutto (gli stessi da sempre), le protezioni sono garantite e le distanze di sicurezza anche. Alcuni lavorano da casa, altri sono indispensabili per mandare avanti la produzione, a meno che non stiano male o mettano in pericolo la salute degli altri dipendenti.
Ad ogni modo, ho messo guanti, camice e una specie di elmetto con plexiglas come protezione per il viso. Inutile dire che, in quel contesto, non ho potuto che essere una “mosca sul muro” bianco. La mia presenza ha inevitabilmente modificato i comportamenti delle persone che avevo intorno …
La fabbrica si apre con il magazzino nel quale sono situati tutti bancali di vasetti e le celle frigorifere. Una volta attraversato tutto il magazzino, si arriva all’entrata della parte della fabbrica dedicata alla produzione vera e propria.
È proprio alla destra di questa entrata che si trova l’oggetto più importante per la mia ricerca, quello dal quale tutto è iniziato: la macchinetta del caffè. Luogo di ritrovo e di relax, la macchinetta del caffè – anche se data sempre per scontata – è un mezzo per potersi lasciar andare, per poter tornare ad essere ciascuno sé stesso, con il suo viaggio, i suoi problemi e le sue quotidiane preoccupazioni. Una cella frigorifera si trova in una stanza proprio vicino alla macchinetta del caffè.
Ho controllato che la temperatura della cella rientrasse nei parametri della tabella e mi sono avviata verso l’uscita, quando ho sentito delle voci. Erano tre donne, le conosco da sempre e mi conoscono da sempre. Borbottavano infastidite e stavano parlando del loro datore di lavoro, cioè di mia mamma. 
Nascosta dietro la porta della stanza della cella frigorifera, ho cercato di fare meno rumore possibile per non farmi scoprire e per riuscire ad ascoltare chiaramente i loro discorsi. Mi sono sentita invadente, come se stessi violando la loro privacy.
Mi sono interrogata su quanto valesse la pena ascoltare gli sfoghi degli altri solo perché riguardanti mia mamma; con lei non mi sarei mai potuta confidare, le avrei messe nei guai… e poi io lì non ci sarei nemmeno dovuta essere, o almeno non per ascoltare i loro discorsi, carpire le loro preoccupazioni lavorative.
“Non capisco ancora perché non chiudiamo”, diceva una.
“Siamo un bene di prima necessità, più che altro non capisco perché è tornata sua figlia a lavorare qua, potremmo non essere al sicuro, non sappiamo dove sia stata lei e con chi abbia avuto contatti”, replicava una seconda.
Al sentire queste parole sono uscita dalla stanza della cella frigorifera come se nulla fosse. Le tre donne hanno fatto come se nulla fosse: “Martina! È un piacere riaverti qui con noi… come stai? Come procedono gli studi?”, dicevano quasi in coro… un coro al quale sono da sempre abituata.
Per tutti gli operai dell’azienda sono la “figlia del capo”: potrei definirla un’arma a doppio taglio? Vantaggio o svantaggio? Si lascerebbero andare oppure no? Sarei riuscita a scoprire ciò che davvero pensavano riguardo a questa situazione?" (Martina Anfosso, Diario di campo).

Per continuare il lavoro di documentazione, si scelgono strade insolite, inedite, innovative. Musei internazionali importanti hanno avviato un processo di raccolta di informazioni simile al processo implicato nell’“osservazione partecipante”.

"In tutto il mondo, l’emergenza scatenata dalla pandemia di coronavirus ha messo in stato di massima allerta i medici e gli operatori sanitari, ma ha dato da fare anche a un manipolo di studiosi e di curatori dei musei di tutta Europa, incaricati di seguire in tempo reale gli eventi e le conseguenze della crisi. Molti di loro non sanno né come né quando sarà impiegato il frutto del loro lavoro, ma credono che in futuro quelle informazioni interesseranno ai musei – e ai loro visitatori. Il fenomeno non riguarda solo la Finlandia: anche musei danesi, sloveni e svizzeri, fra gli altri, si stanno adoperando per documentare l’emergenza coronavirus sotto aspetti diversi: c’è chi chiede ai concittadini di tenere un diario della loro vita quotidiana in isolamento, e chi raccoglie oggetti capaci di rappresentare questo momento storico. [...] [L]a raccolta di oggetti legati alla pandemia richiede di stare al passo con i suoi sviluppi. Prima che fosse imposto l’isolamento, per due settimane gli studiosi finlandesi hanno intervistato i cittadini su vari argomenti, dalle conseguenze della crisi sul settore della ristorazione alla chiusura del porto di Helsinki. Ma l’evolvere della situazione li ha costretti ad adattare le loro tecniche. Adesso svolgono le interviste al telefono o su Skype, e stanno valutando l’opportunità di chiedere agli intervistati di “autodocumentarsi” inviando foto e video realizzati da loro stessi. Quando cominceranno a documentare la chiusura delle frontiere della regione di Uusimaa, gli studiosi osserveranno la situazione dai posti di blocco e intervisteranno gli agenti tornando alle tecniche tradizionali, che comportano la presenza fisica sul posto, ma con le modifiche imposte dalle circostanze. “Ci saranno due fotografi e io farò le interviste”, ha spiegato Ollila. “Dovremo solo assicurarci di stare a due metri l’uno dall’altro” (Lisa Abend, New York Times) [3].

Quanto sta avvenendo è dunque un massiccio spostamento di ogni relazione a distanza tramite i mezzi di comunicazione digitale (Whatsapp, Zoom, Skype, Teams…). Una nostra collega ha per esempio raccolto elementi utili per comprendere le mutazioni nella sfera privata e intima del religioso: anche i fedeli stanno adottando strumenti sempre più virtuali per restare vicini agli altri fedeli, per tentare di restare in contatto nella spiritualità. Dal Diario di campo di Souha Benhlima emerge bene quale sia l’orizzonte entro cui si muove questo nuovo apostolato:

"Ho contattato Suor Carmen con cui avevo partecipato ad una formazione per una settimana nel contesto religioso del Famulato Cristiano a Torino.
“Dal punto di vista dell’apostolato certo ci sono venute meno tutte le attività con la gente”, mi dice. Il loro servizio ha a che vedere con il ricevimento delle colf/badanti e dei datori di lavoro e prima dell’emergenza copriva tre giorni alla settimana. Il servizio ora è stato ridotto solo per via telefonica. I corsi di formazione per colf e badanti anche sono stati sospesi, così come i corsi di cucina, i gruppi di canto, i corsi di italiano, le attività liturgiche e le attività pastorali con i giovani universitari e la pastorale vocazionale. Si è intensificato il lavoro con il web e la presenza e vicinanza con le persone attraverso i social, specialmente WhatsApp" (Souha Benhlima, Diario di campo).

Messe telematiche, scrive anche la nostra collega Stefania Baronetto, che ricorda i più fortunati tra i parenti che hanno potuto accompagnare almeno a distanza i loro cari ormai defunti. Il dramma per gli altri è stato il silenzio assordante intorno a queste morti invisibili.

D’altra parte, la stessa Associazione americana di antropologia (AAA) aggiorna il suo sito regolarmente con indicazioni su “campi” da condurre in modo sempre più digitale [4]. Ci dovremmo dunque familiarizzare con questo nuovo modo di fare ricerca per rappresentare una realtà sociale che, riducendo la mobilità, vede paradossalmente sempre più simili nei loro posizionamenti ricercatori e informatori (il ricercatore o la ricercatrice erano, fino solo a qualche mese fa, coloro che dal “campo” tornavano quando il progetto era terminato o semplicemente dovevano continuare altre attività altrove). Forse potrà essere l’avvio di una nuova stagione dell’antropologia “a casa” (anthropology at home) per comprendere meglio se stessi e gli Altri.


[1] Il confronto che viene fatto dallo studioso tra paesi asiatici e paesi europei mette in luce come la mascherina possa entrare a far parte dell’abito quotidiano e quindi possa diventare al tempo stesso un accessorio che contribuisca a costruire un nuovo linguaggio modaiolo europeo, che coniughi la parte più estetica e quella funzionale. A tal proposito Massimo Leone afferma nell’intervista sopra citata: “c’è una diversa idea dell'individuo rispetto alla comunità: in molti di questi Paesi si indossa la mascherina per proteggersi dagli altri, ma anche per proteggere gli altri. La mascherina è diventata quindi così presente che si è trasformata in un’abitudine, in un oggetto di moda”.
[2] Fariba Adelkhah ne fa esplicito riferimento qui.


Torino, 19 giugno 2020
Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino
Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Fase 1: Superare l’inquietudine, la rabbia, lo spaesamento dell'estraneo e del troppo intimo [STUDENTS' CORNER]

Pubblichiamo la SECONDA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.


“Premetto che questo esercizio in principio mi ha un poco inquietato” (Maria Fresta, Diario di campo).

“Il mio metodo di ricerca durante questo mese di quarantena è cambiato drasticamente con lo scorrere delle settimane e dei decreti. Se infatti nelle prime settimane (anche all’inizio del lockdown) mi sentivo tranquilla nell’andare al supermercato e, pur mantenendo le distanze di sicurezza, sentirmi in contatto con le persone che mi circondavano, piano piano anche il mio stato di inquietudine ha iniziato ad acquistare nuovo peso. La percezione della diffidenza e della paura espresse dalle persone attorno a me (e probabilmente anche da me stessa) sono aumentate sempre più con lo scorrere delle settimane” (Mia Tessarolo, Diario di campo).

La paura per qualcuno di noi si è spostata dallo spazio esterno a quello intimo, domestico, familiare. Drasticamente familiare.

"Purtroppo, poi c’è stata una situazione di emergenza in famiglia che ha di nuovo portato cambiamenti alla mia ricerca. Mia nonna è stata male ed è stata operata d’urgenza, e questo ovviamente ha portato ansia e tensioni in famiglia. Mia nonna è stata operata a Vercelli in un ospedale in cui non c’è un reparto COVID, quindi non eravamo troppo preoccupati per quello, ma più che altro non potendo andare a trovarla, era difficile starle vicino, e lei ha sofferto particolarmente questa situazione. L’intervento è andato bene ed è tornata a casa, ma questa esperienza mi ha influenzata molto e non ho più portato avanti la mia ricerca. Questo mi ha fatto ragionare su quanto è facile che il lavoro sul campo venga stravolto dalla propria esperienza personale" (Maria Agnese Capellupo, Diario di campo).

Altre nonne hanno fatto irruzione sui nostri rispettivi “campi”.

"Mi sono rimaste solo le mie nonne. I miei nonni sono morti a distanza di dieci anni l’uno dall’altro. L’ultimo l’ho perso nel mese di dicembre. Probabilmente è vero che le donne sono più forti degli uomini; anche il Coronavirus sembra colpire meno il gentil sesso.
Nonna Maria abita a nemmeno un chilometro da casa mia. A piedi sono 7 minuti se cammini velocemente. Nonna è più verso i novanta che verso gli ottant’anni ormai. Ieri si è commossa mentre mi parlava di un dottore del bresciano afflitto dalla situazione emergenziale ormai insopportabile. La nonna si tiene a distanza, ma non troppa. Non ci dà baci. Non ci abbraccia e non ci accarezza. La andiamo a trovare uno per volta, uno ogni sera, a turno. Io, papà, Sofia, zia. Suoniamo il campanello verso le sei di sera, una bella partita a carte, si cucina e poi, dopo il lavaggio dei piatti, si torna a casa.
Entrambe le mie nonne vogliono vivere. Lo dicono chiaramente, che non si vogliono ammalare. Se nonna Luigina ha deciso che l’orto è un toccasana per l’umore, che deve essere mantenuto rigorosamente alto per non indebolire le difese immunitarie, nonna Maria è invece convinta che l’abbandonare qualsiasi tipo di lavoro domestico possa tutelarla dal farsi male, finire in ospedale ed ammalarsi. La differenza dei loro atteggiamenti sta proprio, a mio parere, nei dieci anni d’età che le separano. L’una rimane indipendente, l’altra è bisognosa di compagnia ed assistenza continua. Entrambe sono combattive. Entrambe accusano il mondo di oggi che, permettendo scambi di persone e di merci così rapidi, ha dato possibilità al coronavirus di diffondersi in fretta. La classica sentenza “ai miei tempi non sarebbe successo” sembra avere validità universale.
Mamma è andata a trovare nonna Luigina, per portarle il pane. È andata una volta a settimana. La prima settimana la nonna l’ha trovata ad aspettarla al cancello, le altre due volte però la nonna è rimasta a salutarla dal balcone, che non si sa mai. Lei è preoccupata. Beve bevande calde perché è convinta che il caldo possa uccidere il virus. Ora che non ha più da andare al cimitero dai suoi morti (questo è il suo più grande cruccio) e che non deve più andare a recuperare qualcuno dei suoi sei nipoti a destra e a manca, passa tutto il suo tempo nell’orto. Lei è autosufficiente, dice. Da quando è iniziata la quarantena non ha ancora incaricato nessuno di farle la spesa. Dice che fa scorte da anni. Che le sue galline le danno le uova. Che al limite avrà bisogno di becchime per loro, ma non nell’immediato.
[…] Era gennaio quando abbiamo iniziato a parlare di Coronavirus. Eravamo da lei, guardavamo quel programma di politica sul 4. Io ero spaventata, forse la più spaventata di tutti. Nonna mi diceva di non preoccuparmi, che le frontiere sarebbero state chiuse, che non avremmo avuto problemi. L’emergenza non era la nostra. Intanto sui social già giravano video apocalittici diffusi solo per aumentare il panico. Ne abbiamo guardato uno tutti insieme quella sera, con la nonna, mia sorella ed i miei cugini. Sono andata a letto pensando e ripensando a cosa sarebbe capitato, sovrastata da un nemico invisibile che mi metteva sotto pressione. La nonna mi ha rassicurata perché la televisione passava questo messaggio qui: non c’è nulla di cui preoccuparsi, non è la nostra battaglia. Di lì a poco i due turisti cinesi sarebbero stati ricoverati a Roma. Non c’è nulla di cui preoccuparsi, mi diceva, perché noi qui in Italia non moriremo. Abbiamo un sistema sanitario eccellente che riuscirà a salvare loro e tutti quanti noi. Ora sono io che rassicuro lei, che la tranquillizzo dicendole che nessuno in Italia patirà la fame, che ne usciremo più forti, che presto ci riabbracceremo e sarà ancora più bello; tutto questo mentre alla televisione si prega in diretta, si discute su quali misure il governo dovrà prendere e su quelle che sono già state prese, si dibatte in merito alla possibilità di far fare due passi ai bambini. Mia nonna, come molte anziane ed anziani della sua età, ha solo la televisione a cui affidarsi. Non ha un telefono cellulare collegato ad internet, non ha la possibilità di uscire di casa e comprarsi un giornale. Benché la varietà di canali e programmi rimanga vasta, lo schermo della sua tv, che domina la sala da pranzo, è il suo unico contatto con il mondo ed è il medium tramite il quale lei interpreta il mondo esterno. La confusione che adesso domina il palinsesto televisivo sta aumentando la sua ansia da reclusione forzata" (Irene Chiambretto, Diario di campo).

L’11 marzo una nostra collega ha avuto una febbre improvvisa ed ha chiamato la guardia medica. Scriveva in una email:

"Negli ultimi dieci giorni mi sono trovata ad avere un'improvvisa febbre, molto alta con picchi di 40 gradi, e questa mattina sono riuscita a scrivere tutto l'accaduto sotto vari punti di vista; pensavo potesse essere interessante riportare la mia esperienza con il sistema sanitario durante l'emergenza coronavirus, come ha risposto alla mia (più che altro quella dei miei genitori) richiesta di aiuto. Quello che è successo è stato illuminante, sotto il punto di vista della ricerca: il panico/rabbia del mio medico di famiglia, la guardia medica irreperibile e il numero regionale che non sapeva come classificare questa febbre improvvisa. Non so se può essere d'aiuto nel nostro piccolo progetto, se può essere uno spunto di riflessione o se può essere inserito come un altro punto di vista della ricerca, quello di chi si ritrova con dei sintomi e deve affrontare l'incertezza e comunicare con il sistema sanitario al collasso per la mancanza di posti negli ospedali, tamponi, informazioni, ecc."

Così con più calma scriveva della sua esperienza:

"Mercoledì mattina ho cominciato ad avere un gran mal di testa, ma la comparsa della febbre è avvenuta in serata, 39°C. Credevo si trattasse di stanchezza, ma la febbre non scendeva né assumendo paracetamolo né con le spugnature. La mattina di giovedì alle 6.40 ho perso i sensi, vedevo nero e non riuscivo a sentire nulla così mia madre presa dal panico ha cercato di contattare la guardia medica, che non ha risposto neanche ad una singola chiamata; dopo uno squillo si interrompeva la chiamata. […] Il mio medico non ha risposto alle chiamate, quindi abbiamo telefonato al numero verde regionale, ho risposto ad alcune domande e mi è stato detto che si trattava probabilmente di un’influenza intestinale, anche se non ne presentavo i sintomi – e che era l’ipotesi più plausibile – quindi, per precauzione prendevano i miei dati in caso avessi richiamato con sintomi diversi dall’influenza. Siamo riusciti a contattare il mio medico alle 10 del mattino, che arrabbiata con noi ha urlato al telefono a mio padre di non telefonare per una febbre perché – cito – “Siete tutti nel panico! La dovete smettere! Si prenda la tachipirina e una bustina di Oki dopo i pasti per l’infiammazione”, senza alcuna spiegazione. Non ha fatto domande, non ha chiesto informazioni, ha interrotto mio padre mentre spiegava le mie condizioni e ha riattaccato il telefono. Io non avevo mal di gola, né problemi di stomaco, intestino, o tosse. Non sono riuscita a capire l’origine della febbre, ma ho potuto constatare come (non) funzioni il sistema sanitario in questa emergenza. La guardia medica dovrebbe essere disponibile dalle 20 alle 8 e invece non c’era. Il medico ha prescritto un farmaco senza neanche considerare la mia cartella in cui ci sono le allergie alla maggior parte delle medicine, senza ascoltare minimamente ciò che i miei genitori cercavano di spiegare, senza fornirci assistenza, senza contare il fatto che si è resa disponibile alle 10 del mattino. Per fortuna il numero verde regionale ha saputo aiutarci, anche se l’operatrice non ha capito come mai avessi la febbre così alta senza presentare altri sintomi. Paura, rabbia, delusione. Questo è quello che stiamo vivendo, di fatto siamo stati abbandonati dal sistema sanitario, e ci sentiamo persi" (Jessica Bellardita, Diario di campo).

Una collega del Laboratorio – che conduce un’esperienza parallela (dalla parte di chi risponde alle telefonate) – così accompagna le parole di Jessica:

"Già ad inizio marzo [1], ancora prima che il governo varasse misure restrittive su scala nazionale, i tempi di attesa al numero verde di pubblica utilità si aggiravano attorno ai venti minuti per poter parlare con un primo operatore. Se le domande poste richiedevano una competenza maggiore da parte dell’operatore [che prendeva la chiamata], si veniva rimandati ad un operatore di “secondo livello”, con un’attesa di altri quaranta minuti circa. Nel momento in cui poi si cerca di indagare questioni spinose come tempi di incubazione o assenza di sintomi, la risposta che si riceve è che “gli studi scientifici attualmente disponibili non indicano un’alta probabilità di trasmissione da parte di persone asintomatiche”.
L’enorme instabilità della situazione è resa manifesta anche dal diverso numero di pareri, protocolli, comportamenti da seguire e figure da consultare. Una chiamata al numero verde può dover essere seguita da una chiamata al proprio medico di base o al Dipartimento di igiene e prevenzione della propria provincia, e in ognuno di questi casi si può trovare un parere medico leggermente differente.
In questo contesto di forte incertezza e “non conoscenza”, la figura del malato asintomatico o con sintomi lievi desta non poche preoccupazioni. In questa categoria, infatti, rientrano tutti quei soggetti che risultano positivi al Coronavirus senza presentare alcun sintomo, o presentando sintomi tanto lievi da poter essere confusi con un’altra qualsiasi influenza stagionale [2]. Questi soggetti, pur avendo sintomi lievi o totalmente assenti, sono comunque in grado di diffondere il virus a causa della carica virale che trasportano. Attraverso la nostra prospettiva di analisi, dunque, questi soggetti potrebbero essere visti come “untori” che non possono riconoscersi e non possono essere riconosciuti da terzi. L’impossibilità di distinguere l’untore attraverso sintomi, comportamenti, caratteristiche specifiche o appartenenza ad un qualche gruppo sociale, crea uno scenario di incertezza e di mutabilità, in cui è difficile operare una distinzione tra i “sani” e gli “untori”, appunto. Da qui si innesca dunque un meccanismo di sfiducia nei confronti di tutti, dal momento che ognuno potrebbe essere un potenziale untore.
In un contesto in cui tutti dubitano di tutti e in cui il distanziamento sociale pare essere la sola indicazione incontrovertibile, due sono i comportamenti principali che si possono ravvisare, riassumibili nella definizione di un untore “agente” e di un untore “agito” (Giulia Cattaneo, Diario di campo).

Varia l’attenzione che prestiamo a quanto accade intorno a noi e dentro di noi, varia l’attenzione data all’esperienza vissuta come se col corpo sentissimo e capissimo la realtà che ci circonda. In un lavoro del 2010, Jason Throop [3] parlando del dolore e di come si possa farne una etnografia sottolineava l’importanza che per lui aveva avuto una indicazione teorico-metodologica di Thomas Csordas. I “modi di attenzione somatica” sono per i due antropologi delle elaborate modalità culturali con cui apprendiamo il mondo e la presenza degli altri, attraverso il corpo e il suo stare all’erta. Diciamo che i nostri corpi sono stati ben all’erta, dunque, sensibili e ‘svegli’ anche quando deboli, affannati, sudati, stanchi. 

"Terminiamo questa prima parte di riflessioni su cosa ha significato “fare campo” in questi due mesi con le riflessioni di due nostre colleghe, quasi all’opposto l’una dell’altra per le condizioni di vita che ci hanno visto protagonisti, a volte, nostro malgrado. Non si ha la possibilità di osservare qualcosa o qualcun* a noi sconosciuto" (Ersilia Bernardone, Diario di campo).

"Penso all’attaccamento fisico. Vivo in un Ashram e siamo in 25 a condividere la stessa cucina, stesso bagno e alcuni di noi anche stessa stanza. Qui in molti tossiscono, starnutiscono, viviamo tutti insieme ed io sto molto attenta ma è quasi inevitabile beccarlo [il virus]. Forse siamo tutti positivi, tutti siamo stati in contatto con il virus, non so se la pratica dello yoga, la meditazione, il pranayama, la preghiera, aiuta a mantenere vibrazioni positive della mente e a salvarci dalla malattia. Questa pratica è vero rafforza il sistema immunitario, ma anche è vero che voglio convincermi di questo e non indebolirmi. Oggi mi sono tagliata il dito e non smetteva di scorrere sangue. Avevo paura che la ferita fosse troppo profonda. No, no, sono anemica – mi dicevo – non posso perdere troppo sangue. Poi pensavo: No, i punti no. Devo andare in ospedale e poi mi metteranno in quarantena perché in contatto con altre persone. Poi ho pensato: mi metto i punti qui da sola, con ago e filo. Il dolore si fa più acuto e non penso più al corpo, ma solo al dolore. Riesco a sopportare a combattere il dolore e la mente si fa più forte e la mente resiste e dà forza al corpo, il coraggio… quando tutto finisce realizzo che la preoccupazione che c’è prima della malattia mi ha fatto agitare, ammalare. Dopo due ore, tutto era passato" (Margherita Peluso, Diario di campo).

Dopo qualche giorno, la nostra collega rimasta bloccata in Canada, continua così il suo Diario di campo:

"Mi domando se avessi preferito rimanere a casa con le persone a me più care e vicine. Forse dovevo essere qui a pregare per tutto il mondo. Mamma ma quando finirà? Ma quando posso tornare a casa? (Margherita Peluso, Diario di campo).

(continua)

[1] Riportiamo qui l’esperienza di Giulia Cattaneo, che ha avuto modo di operare presso i servizi preposti all’assistenza dei cittadini durante questa emergenza. Nello specifico qui si tratta di diverse consulenze telefoniche richieste nel corso delle prime due settimane di marzo.
[2] In merito alla questione si veda: Lawton G., (2020), Gli asintomatici che diffondono il virus senza saperlo
[3] J. Throop (2010), Suffering and Sentiment. Exploring the vicissitudes of experience and pain in Yap, University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London.


Torino, 17 giugno 2020
Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino
Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Domande intorno al “campo” e al cambiamento della ricerca in antropologia [STUDENTS' CORNER]

Pubblichiamo la PRIMA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.


Più che nel mezzo di un’emergenza sanitaria sembra di essere al centro di un campo di battaglia in piena guerra, a partire dal lessico usato da decisori politici, giornalisti, opinionisti, tecnici ed esperti. Eppure non sono pochi gli autori e le autrici che mettono in guardia sull'utilizzo delle “retoriche di guerra” per parlare dell’attuale situazione di isolamento, in relazione all’evento pandemico (Ciccarelli, 2020) [1]. Più recentemente torna con piglio critico sul tema Raoul Kirchmayr, in un suo bell'intervento su Antinomie [2]:

"[L]a metafora della guerra ritorna stolidamente, effetto di un inceppamento del linguaggio, zeppa simbolica di fronte a un trauma collettivo che riesce ad essere nominato – in realtà mancato – da parole e immagini inadeguate, ancora una volta deresponsabilizzanti. Come la guerra miete le sue vittime, così il virus soffoca, letteralmente, le esistenze. Ma né l’una né l’altro sono innominabili, né l’una né l’altro sono l’assolutamente eterogeneo rispetto a un mondo umano e storico di cui rappresentano variabili computabili, se non addirittura effetti di scelte. Lo vediamo già: i meccanismi sociali della rimozione sono al lavoro, il discorso della cultura, con il suo girare a vuoto attorno al trauma, invece che farsene carico e di tentare di simbolizzarlo, sta contribuendo per la sua parte ad alimentare un sentimento diffuso di angoscia e disorientamento. A un discorso di verità la cultura egemone preferisce, quasi per un automatismo interno, un discorso di riempimento. Infatti, le ideologie di recupero hanno sempre funzionato quali soluzioni ad hoc per le contraddizioni inerenti i sistemi socio-politici ed economici. Ma ora il virus è l’irrompere di un reale di morte nella trama smagliata delle nostre rappresentazioni. Per quell’analisi che ci è necessaria per poter pensare meglio e concretamente l’alternativa al capitalismo nella sua fase neoliberale, esso ci fornisce il reagente per comprendere il funzionamento tanatopolitico del paradigma. Mai come oggi un oggetto come una mascherina chirurgica o un ventilatore polmonare rivelano tutto il rimosso tanatopolitico del modello occidentale: la morte è una scelta calcolabile prima ancora di essere la condizione di finitezza dell’uomo. Nella cultura dell’occidente neoliberale questa si comprende a partire da quella, e non viceversa".

Per noi non è stato facile orientarsi in questo scenario spaesato e spaesante. Abbiamo dovuto iniziare a riflettere su una metodologia di ricerca, prima che avessimo esperienza di cosa fosse significato un tempo (in un passato molto prossimo da poter ancora ben ricordare) fare etnografia. Iniziamo da qui perché le notizie, le analisi, le riflessioni sono proliferate frammentarie [3], incerte, spesso smentite e poi di nuovo confermate: non è stato facile seguire il dibattito per noi che ci stiamo avvicinando ad un campo di sapere per apprenderne, almeno in parte, il metodo. Le strategie sono in perenne divenire, con l’ovvio fermento che il continuo adattamento alle situazioni in essere porta con sé: un grande spirito di solidarietà unito al peggior egoismo, la mutua assistenza morale, sanitaria, economica (che si riscontra a livello di gruppi di dimensioni ridotte) affiancata dallo sciacallaggio e arrivismo individuale e istituzionale (il rincaro di prezzi fino al 200% in alcuni esercizi commerciali poi denunciati dalle autorità stesse); e poi l’abbandono psicologico alla situazione di emergenza contrastato dalla forza d’animo che puntuale si presenta nei momenti difficili, specialmente se condivisi. Di cosa interessarsi? Con quali strumenti? Come iniziare una etnografia dell’isolamento, del distanziamento, della medicalizzazione della vita quotidiana?
Questo studio vuole essere innanzitutto un’osservazione etnografica delle persone, che fornendo esperienze e vissuti, contribuiscono a comporre alcune tra le più urgenti domande di ricerca ed a immaginare insieme il futuro della ricerca, avendo dovuto avviare queste prime e acerbe riflessioni proprio ora, proprio ai tempi del COVID-19. Ci spieghiamo meglio.
La ricerca etnografica come era stata inaugurata da Malinowski e perpetuata nei decenni successivi – e solo fino a qualche mese fa – si trova di fronte alla necessità di fare un passo indietro, di rivalutare una etnografia “da veranda” [4], alla quale il ricercatore è costretto dai decreti restrittivi emanati dagli organi statali per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da Coronavirus. Docenti e ricercatori di più lunga esperienza di noi lo sottolineano nei loro interventi più recenti. Così esordisce Fabio Dei nel suo contributo al dibattito effervescente che si sta sviluppando su blog, forum, siti online.

"Non parlerò di etnografia, che è difficile fare senza poter uscire di casa o tenendosi a un metro di distanza dagli altri. Ma documentazione, descrizione che cerchi di andare un po’ oltre ciò che i media possono offrire (che non è poco, beninteso)" [5].

Pur essendoci ben chiare le ragioni di questa posizione, siamo un gruppo di studentesse e studenti di Comunicazione interculturale dell’Università di Torino iscritti ad un Laboratorio di Etnografia che si sono ritrovati a dover pensare come fare ricerca quando era praticamente impossibile continuare a farla come la si era sempre pensata e praticata. Questo ci sembra un motivo sufficiente per tentare di andare laddove altri in questo momento dicono di non potersi spingere. Ne va del nostro futuro, delle nostre prime tesi, delle nostre aspirazioni per corsi di laurea magistrale, di un impegno che avevamo pensato di avere di qui a qualche anno … Ci spingono ovviamente passioni e interessi diversi, ma l’adesione al Laboratorio ci accomuna nel desiderio di incamminarci lungo il sentiero di una conoscenza che passa prima di tutto attraverso una esperienza, una relazione: la relazione etnografica.
Sebbene tra la fine del mese di febbraio e gli inizi di marzo 2020 – quando il Laboratorio stava iniziando – fosse ancora possibile svolgere ricerca etnografica al di fuori delle proprie case, entrando in contatto (seppur con le opportune limitazioni) con altri soggetti non appartenenti al proprio nucleo familiare ristretto e registrando pertanto la realtà circostante, con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) 9 marzo 2020, sono state estese all’intero paese forti misure restrittive che hanno imposto grandi limitazioni alla libertà di movimento dei cittadini. Da quel momento in poi, l’Italia ha visto un progressivo aumento delle restrizioni alla possibilità di spostarsi liberamente, restrizioni che hanno ovviamente influito anche sulle modalità di ricerca del presente lavoro. 

Pertanto, pur senza sottovalutare l’iniziale periodo di ricerca sul campo, questo lavoro è principalmente frutto della nostra esperienza personale, divenuta essa stessa oggetto di ricerca. Le conversazioni con amici e parenti, i discorsi dei vicini, i post sui social media sono diventati oggetto della nostra osservazione partecipante, pur con tutti i limiti di una etnografia “da veranda”, “da tavolino”, da terrazzo.

(continua)

[1] Ciccarelli, R. (2020), Siamo inun’economia di guerra
[3] È di primaria importanza il ruolo dell’informazione, tramite tra le istituzioni e i cittadini. «Giornalismo e scienza devono distinguere fonti legittime di informazione da voci di corridoio, mezze verità, propaganda. Un compito che, nel mezzo di una pandemia, può diventare arduo» scrive Torrisi (2020), Come il giornalismo dovrebbe affrontareepidemie e pandemie di malattie infettive
[4] E. Tauber, D. Zinn (2018), Back on the verandah and off again: Malinowski in South Tyrol and his ethnographic legacy, ANUAC, 7, 2: 9-25.


Torino, 16 giugno 2020
Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino
Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Pandemia, ecosistema e antropologia. Riflessioni a partire da "Antropologia dei microbi" [STUDENTS' CORNER]

Nel corso della quarantena ho avuto l’opportunità e il piacere di leggere il nuovo libro di Roberta Raffaetà, Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute. Si tratta di un’etnografia svolta fra il 2014 e il 2020 presso un laboratorio di metagenomica, il Segata Lab del CIBIO (Center for Integrative Biology) dell’università di Trento. Con metagenomica si intende “[…] lo studio di comunità microbiche nel loro ambiente naturale (in-vivo) che si basa su tecniche avanzate di sequenziamento del DNA dei membri della comunità microbica che si vuole studiare” (Raffaetà, 2020, p.37), in parole più semplici, si tratta dello studio dei microbi, l’oggetto principale del libro. Per quanto riguarda l’obiettivo della ricerca, l’autrice sottolinea come il suo intento fosse studiare cosa significhi essere umani dalla prospettiva microbica.

Il motivo per cui ho deciso di commentare la lettura di Antropologia dei microbi in questo blog è che ritengo che il suo contenuto sia importante per tre motivi fra loro correlati: 1) può fornire una nuova e interessante chiave di lettura alla pandemia in corso, 2) può aiutare ad aumentare la consapevolezza rispetto all’ecosistema che abitiamo e 3) può stimolare riflessioni che portino alla luce sfumature non ovvie dell’antropologia e del lavoro antropologico.

La prima volta che ho letto la dicitura “antropologia medica” fra i vari corsi in programma previsti dalla magistrale in Scienze antropologiche ed etnologiche della Bicocca sono rimasta stupita e mi sono chiesta in che modo antropologia e medicina potessero centrare l’una con l’altra. Credo che questo stesso stupore e questa stessa domanda possano essere suscitati dall’accostamento fra i termini “antropologia” e "microbi”, il cui rapporto è ancora meno intuibile di quello fra antropologia e medicina. Lo stesso Prof. Simonicca, che ha scritto la presentazione del libro, parla proprio di spaesamento nei confronti dell’accostamento di una disciplina che studia gli esseri umani e di qualcosa che è nel dominio di una disciplina che studia le entità biologiche. A questo punto è lecito chiedersi esplicitamente: cosa c’entrano i microbi con l’antropologia? Cosa vuol dire “studiare gli esseri umani dalla prospettiva microbica”? E cosa c’entrano i microbi con la pandemia di COVID-19? Le risposte a queste domande si implicano a vicenda in una logica relazionale e per fare chiarezza comincerò nel definire cosa sono i microbi, rielaborando quanto contenuto nel libro di Raffaetà.

Meglio conosciuti nel linguaggio comune come “batteri”, i microbi sono organismi viventi di dimensioni microscopiche e generalmente unicellulari. Nel dibattito scientifico contemporaneo, i microbi vengono distinti in procarioti, che si dividono a loro volta nei sottogruppi batteri (o eubatteri) e archea ed eucarioti. Ciò che è interessante per una lettura diversa della pandemia è che di questo mondo microscopico fanno parte anche i virus, entità biologiche parassitiche che hanno necessità di almeno una cellula per potersi riprodurre. I microbi, dunque anche i virus, si trovano dappertutto, anche attorno e dentro a noi e possono essere causa di pandemie, così come rivelarsi preziosi alleati per la salute umana. Di conseguenza, come spiega in modo chiaro Raffaetà (2020) esplicitando la linea che ha guidato e guida tutte le sue ricerche, ciò significa che la salute non è solo la proprietà di un corpo, ma emerge da una rete di relazioni. Seguendo questo ragionamento, non è corretto pensare al COVID-19 come ad un corpo estraneo (Ferrari, Guigoni, 2020) arrivato dal nulla, che ha provocato da solo questa situazione, perchè non è un elemento esterno o nemico del nostro ecosistema, ma qualcosa che ne fa parte e che ci ha ricordato che gli esseri umani sono una specie indissolubilmente legata alle altre (Quammen, 2012).


Ciò che ci ha fatto ammalare è l’interazione del virus con una serie di fattori umani e sociali e solo a partire dalla presa di coscienza che condividiamo lo stesso mondo si può avviare un processo per mantenerne gli equilibri. Sebbene il lavoro di Raffaetà sia iniziato ben prima della pandemia, l’autrice nel suo libro manda un messaggio molto attuale. Infatti, l’antropologa insiste sull’urgenza di arrivare a questa presa di coscienza e suggerisce di considerare la salute in un’ottica ecosistemica, intendendo con questo di considerarla nella visione più ampia della convivenza: è importante cominciare da subito ad “[…] interrogarsi [su] come è possibile vivere bene insieme in un mondo in cui, volenti o nolenti, siamo tutti implicati in un intreccio di relazioni con umani e non-umani” (Raffaetà, 2020, p. 26). Questo significa che i microbi vanno presi sul serio, perchè il loro destino “[…] è strettamente legato al nostro” e “forse è il momento di cominciare a considerare le modalità di questa co-abitazione con maggiore serietà e responsabilità” (Raffaetà, 2020, p. 30). Per potere effettuare tale operazione, Raffaetà ci dice che è necessario integrare diversi sguardi e diverse sensibilità disciplinari ed è quanto ha fatto con la sua ricerca. Infatti, il campo si è svolto in mezzo a biologi e biologhe e bioinformatici e bioinformatiche che si occupano di metagenomica: li ha studiati come se fossero una tribù, osservandone le pratiche ed imparando il loro linguaggio. La necessità di istituire una collaborazione fra le cosiddette “scienze dure” e le “scienze umane” è la spina dorsale che percorre tutto il testo e, a mio parere, l’autrice ci ha mostrato attraverso il suo approccio applicativo, che non solo questa collaborazione è auspicabile, ma che è anche possibile, a patto che ci sia un “[…] riconoscimento e rispetto delle [reciproche] differenze” (Raffaetà, 2020, p. 255).

Da qui uno dei motivi per cui, secondo me, questo libro ha una portata innovativa in termini di lettura e comprensione della pandemia. Nell’antropologia italiana non c’era ancora uno studio simile, che mostrasse come un’alleanza fra scienze, in questo caso fra antropologia e metagenomica, oltre a rendere ancora più evidente come la loro separazione sia costruita tanto quanto quella fra natura e cultura (Descola, 2005), possa produrre una conoscenza molto più ricca e democratica. Chi più di coloro che nelle scienze naturali studiano i microbi può aiutarci a capire qualcosa di questi microorganismi? E chi più degli scienziati sociali può aiutare a calare le loro ricerche nella società? La prima fase dell’epidemia ci ha mostrato chiaramente che l’attuale modo di procedere, ovvero la separazione tra le scienze sociali e le scienze naturali con le prime che si limitano alla critica nei confronti delle seconde, non funziona: è stata affrontata in una dimensione di panico perché ci ha posto domande complesse a cui non sapevamo rispondere e che tutt’ora non hanno risposta, perché, come l’autrice mostra nel libro, nessuna scienza è in grado di fornirla in modo definitivo. In fondo, come fa notare Raffaetà, non ci è nemmeno possibile poter comprendere completamente il mistero della natura, ma, forse, rileggendo la situazione in un’ottica ecosistemica e cominciando un serio dialogo interdisciplinare, i rapporti fra umani e non-umani potranno essere ridiscussi e sarà anche possibile ripensare la salute in modo non antropocentrico, ovvero in un’ottica di “umanismo critico” (Raffaetà, 2020, p. 263).

Un umanismo critico inteso come uno scostarsi dall’antropocentrismo è quanto mai necessario, dal momento che, come scrive l’autrice citando il biologo Stephen Jay Gould, la Terra è sempre stata nell’epoca dei batteri e “[…] i microbi sono entità estremamente più resilienti ed essenziali alla vita di noi” (Raffaetà, 2020, p. 255). Oggi la biologia computazionale è un’alleata preziosa per avviare questo processo, dal momento che ci offre gli strumenti per misurare le interconnessioni che caratterizzano il nostro ecosistema. L’antropologia ha bisogno di queste misurazioni quanto queste misurazioni hanno bisogno dell’antropologia per essere interpretate, dal momento che i numeri dipendono dal contesto e “[…] sviluppare la capacità di leggere i numeri al di là di essi e comprendere i processi e le logiche della ricerca scientifica è essenziale e rappresenta un potente antidoto al diffondersi di bufale che polarizzano e semplificano la situazione, spesso manipolando l’opinione pubblica” (Raffaetà, 2020, p. 257).

La questione delle bufale è particolarmente attuale e riguarda da vicino le discussioni attorno alla pandemia, specialmente nella dimensione del digitale. Anche in questo ambito, l’approccio antropologico potrebbe avere molto da dire, relazionando l’enorme numero di dati quantitativi che sono stati riversati attraverso i media nel corso della pandemia alle loro interpretazioni e problematicità (Ferrari, Guigoni, 2020), ma non senza una negoziazione e una collaborazione con chi lavora con il linguaggio digitale e i suoi strumenti. Dico questo perché sto provando personalmente la necessità di comprendere come integrare lo sguardo antropologico che ho appreso nel corso della mia formazione e la prospettiva di chi lavora in un altro ambito, nel mio caso quello del digitale. In questo periodo sto seguendo un corso in digital curation e spesso, quando intervengo a lezione, le questioni che sollevo mettono in difficoltà gli interlocutori, a volte non ricevo risposta, o la ricevo a fatica. In generale, l’impressione è che ognuno rimanga semplicemente sulle sue posizioni. Ho cominciato a chiedermi quale fosse il problema e la soluzione a cui pian piano sto arrivando, e che questo libro ha contribuito ad ispirare, è che devo sforzarmi a non limitarmi a decostruire quello che gli altri dicono, ma devo proporre anche soluzioni per ricostruire. L’unico modo per fare questo è, assieme al criticismo, comprendere anche quanto hanno da offrire altre discipline e avviare un confronto democratico, aperto e costruttivo.

Il caso della pandemia ha mostrato con forza quanto sia necessaria una correlazione fra discipline: il modo in cui pensiamo alle epidemie e al contagio riflette un modo culturalmente determinato di intendere la relazione fra umani e non-umani e il virus stesso mette in crisi i fondamenti della biopolitica contemporanea, “[…] ovvero la distinzione tra vita e non vita e l’assunto vitalista in base al quale costruiamo le nostre gerarchie ontologiche e di valore” (Raffaetà, 2020, p. 260), perché gli stessi biologi e biologhe dibattono se il virus debba essere definito come un essere vivente o meno. Raffaetà ci dice che tutto questo mostra come la pandemia e anche la crisi ambientale pongano questioni etiche e morali sul modo di relazione all’interno dell’ecosistema e sul come immaginiamo queste relazioni. Questo è ciò che significa comprendere cosa significhi essere umani dal punto di vista dei microbi.


Il secondo motivo per cui questo libro è innovativo è che ha aperto la strada per indagare l’antropologia della scienza anche in Italia e di conseguenza ha scavato un primo sentiero per tutti gli/le studenti e studentesse, i/le giovani antropologi e antropologhe e anche per gli/le antropologi e antropologhe più esperti per poter percorrere questo tipo di studio senza partire da zero. Facendo questo, secondo me, ha dato anche la possibilità di riflettere ulteriormente su cosa sia un/a antropologo/a e in cosa consista il suo lavoro. Nello specifico, trovo che lo spaesamento che il Prof. Simonicca e quello che può provare un/una giovane antropologo/a nel vedere accostati i termini “antropologia” e “microbi” siano legati ad una questione che tormenta, se non tutti gli/le antropologi e antropologhe, almeno quelli/quelle alle fasi iniziali: definire cosa sia un/una antropologo/a e soprattutto far capire agli altri cosa fa e a cosa serve, specialmente quando si cerca di accedere al mondo esterno all’Accademia. Non posso certo parlare per tutti/e gli/le antropologi e antropologhe, ma credo che in molti si ritroveranno nella situazione in cui ci si presenta professionalmente. La reazione degli interlocutori nel sentire la parola “antropologo/a” varia da sorpresa/imbarazzo, perché non si sa di cosa stiamo parlando, all’esclamazione: “Ah! Quello/a che studia le ossa!”. Sebbene non tutti/e gli antropologi e antropologhe possano essere interessati allo studio della scienza, ciò che secondo me dovrebbe accomunarci tutti/e è che abbiamo la necessità di capire e saper comunicare in modo chiaro chi siamo e quale sia il nostro ruolo, tanto più se vogliamo poter dare un contributo alla società e al discorso sulla pandemia. Il libro di Raffaetà ci dà degli spunti interessanti in questo senso.

Antropologia dei microbi ci ricorda che la biologia è legata a doppio filo alla cultura, che le nostre interazioni con questi microrganismi sono culturali e questo apre moltissimi scenari al lavoro antropologico: ci dice che possiamo occuparci anche di qualcosa che apparentemente sembrava non appartenere al dominio della “nostra scienza” e ci dice che la nostra conoscenza e i nostri strumenti, uniti a quelli delle scienze naturali, possono costruire un ponte fra discipline. Nicola Segata, il coordinatore del Segata Lab, che ha scritto la prefazione del libro, sottolinea che il suo laboratorio fosse già predisposto alla multidisciplinarità, ma “il salto all’antropologia è di gran lunga più spericolato e richiede un’elasticità a cui non eravamo avvezzi nel perimetro della nostra multidisciplinarità […]” (Raffaetà, 2020, p. 16). Trovo che questo salto spericolato sia lo stesso che Roberta Raffaetà ha fatto verso le scienze naturali e con questo sforzo ci ha detto, così come esplicita nella conclusione del libro, che gli/le antropologi e antropologhe possono anche frequentare le frontiere interdisciplinari, perché la cultura si nutre di interdipendenze.

Gli antropologi e le antropologhe quindi possono osare questo salto spericolato e, secondo me, tale opportunità non solo incoraggia i giovani a portare il loro bagaglio antropologico ovunque la vita li porterà, ma di fatto dice loro che possono avere accesso e portare contributi importanti in tutti gli ambiti che possono essere di loro interesse. Raffaetà ci ha fatto vedere che è possibile studiare gli scienziati e le loro pratiche con gli strumenti dell’antropologia, come se fossero una tribù, e credo che quello che ha fatto lei sia applicabile anche in altri ambiti, come all’interno del digitale citato sopra o di un’azienda, ad esempio.

Da qui l’altro grande contributo che il salto dell’autrice ha dato ai/alle giovani antropologi e antropologhe e non solo: la collaborazione è preziosa e possiamo imparare tantissimo da altre discipline. Personalmente ho trovato di grande ispirazione l’ambito della metagenomica: nonostante esista una grande competizione tra laboratori, esiste anche una forte etica che si basa sulla condivisione di informazioni. Per esempio, il Segata Lab sviluppa strumenti che vengono utilizzati anche da altri scienziati e, i ricercatori gioiscono se altri riescono a fare delle grandi scoperte grazie agli strumenti da loro offerti. Inoltre, la metagenomica è anche molto onesta nel riconoscere che è esposta a moltissimi errori, dati dalla difficoltà di gestire milioni di comunità microbiche simultaneamente. Questo atteggiamento, definito da Raffaetà di “affascinata umiltà”, si accompagna ad una serie di pratiche nello studio dei microbi che richiedono un riduzionismo necessario: hanno troppi dati su cui lavorare e curarsi anche della dimensione socio-politica va oltre le loro capacità. Guardando il riduzionismo dal punto di vista della metagenomica si capisce la sua logica. Al tempo stesso, però, i bioinformatici e le bioinformatiche e i biologi e le biologhe del Segata Lab attraverso il dialogo con un’antropologa hanno riconosciuto quanto la dimensione politico-sociale sia importante e come potrebbe essere integrata nei loro studi, come osserva Nicola Segata nelle ultime righe della sua prefazione: “E con questa mia nuova sensibilità sul valore di come siamo visti e interpretati, piuttosto che per come definiamo noi stessi quello che facciamo e la materia che studiamo, sembra quasi che “l’antropologia dei microbi” mi abbia già influenzato più di quanto credessi” (Raffaetà, 2020, p. 17).

Alla luce di quanto detto fino ad ora, Antropologia dei microbi di Roberta Raffaetà fornisce degli strumenti fondamentali per riconsiderare il nostro ecosistema, specialmente in un’ottica post-COVID-19: sebbene il libro mostri che la collaborazione non è sempre facile, solo a partire dalla consapevolezza che insieme, con le differenze che ci caratterizzano e che danno ricchezza al dibattito, si potrà produrre una conoscenza che ci permetterà di capire meglio questa pandemia, di convivere con le sue conseguenze e soprattutto tornare a convivere consapevolmente con i microbi all’interno del nostro comune ecosistema.

Descola P. (2005), Oltre natura e cultura, ed. it Nadia Breda (a cura), Firenze, SEID Editori
Ferrari R., Guigoni A. (2020) (a cura), Pandemia. La vita quotidiana con il Covid-19, M&J Publishing House
Quammen D. (2012), Spillover, Milano, Adelphi
Raffaetà R. (2020), Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute, CISU, Roma
Raffaetà R. (2020), Una prospettivaantropologica sui virus, da «Aspenia Online»


Milano, 1 giugno 2020
Francesca Esposito
Laureata in Scienze antropologiche ed etnologiche
Università degli Studi Milano-Bicocca

Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.