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Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Domande intorno al “campo” e al cambiamento della ricerca in antropologia [STUDENTS' CORNER]

Pubblichiamo la PRIMA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.


Più che nel mezzo di un’emergenza sanitaria sembra di essere al centro di un campo di battaglia in piena guerra, a partire dal lessico usato da decisori politici, giornalisti, opinionisti, tecnici ed esperti. Eppure non sono pochi gli autori e le autrici che mettono in guardia sull'utilizzo delle “retoriche di guerra” per parlare dell’attuale situazione di isolamento, in relazione all’evento pandemico (Ciccarelli, 2020) [1]. Più recentemente torna con piglio critico sul tema Raoul Kirchmayr, in un suo bell'intervento su Antinomie [2]:

"[L]a metafora della guerra ritorna stolidamente, effetto di un inceppamento del linguaggio, zeppa simbolica di fronte a un trauma collettivo che riesce ad essere nominato – in realtà mancato – da parole e immagini inadeguate, ancora una volta deresponsabilizzanti. Come la guerra miete le sue vittime, così il virus soffoca, letteralmente, le esistenze. Ma né l’una né l’altro sono innominabili, né l’una né l’altro sono l’assolutamente eterogeneo rispetto a un mondo umano e storico di cui rappresentano variabili computabili, se non addirittura effetti di scelte. Lo vediamo già: i meccanismi sociali della rimozione sono al lavoro, il discorso della cultura, con il suo girare a vuoto attorno al trauma, invece che farsene carico e di tentare di simbolizzarlo, sta contribuendo per la sua parte ad alimentare un sentimento diffuso di angoscia e disorientamento. A un discorso di verità la cultura egemone preferisce, quasi per un automatismo interno, un discorso di riempimento. Infatti, le ideologie di recupero hanno sempre funzionato quali soluzioni ad hoc per le contraddizioni inerenti i sistemi socio-politici ed economici. Ma ora il virus è l’irrompere di un reale di morte nella trama smagliata delle nostre rappresentazioni. Per quell’analisi che ci è necessaria per poter pensare meglio e concretamente l’alternativa al capitalismo nella sua fase neoliberale, esso ci fornisce il reagente per comprendere il funzionamento tanatopolitico del paradigma. Mai come oggi un oggetto come una mascherina chirurgica o un ventilatore polmonare rivelano tutto il rimosso tanatopolitico del modello occidentale: la morte è una scelta calcolabile prima ancora di essere la condizione di finitezza dell’uomo. Nella cultura dell’occidente neoliberale questa si comprende a partire da quella, e non viceversa".

Per noi non è stato facile orientarsi in questo scenario spaesato e spaesante. Abbiamo dovuto iniziare a riflettere su una metodologia di ricerca, prima che avessimo esperienza di cosa fosse significato un tempo (in un passato molto prossimo da poter ancora ben ricordare) fare etnografia. Iniziamo da qui perché le notizie, le analisi, le riflessioni sono proliferate frammentarie [3], incerte, spesso smentite e poi di nuovo confermate: non è stato facile seguire il dibattito per noi che ci stiamo avvicinando ad un campo di sapere per apprenderne, almeno in parte, il metodo. Le strategie sono in perenne divenire, con l’ovvio fermento che il continuo adattamento alle situazioni in essere porta con sé: un grande spirito di solidarietà unito al peggior egoismo, la mutua assistenza morale, sanitaria, economica (che si riscontra a livello di gruppi di dimensioni ridotte) affiancata dallo sciacallaggio e arrivismo individuale e istituzionale (il rincaro di prezzi fino al 200% in alcuni esercizi commerciali poi denunciati dalle autorità stesse); e poi l’abbandono psicologico alla situazione di emergenza contrastato dalla forza d’animo che puntuale si presenta nei momenti difficili, specialmente se condivisi. Di cosa interessarsi? Con quali strumenti? Come iniziare una etnografia dell’isolamento, del distanziamento, della medicalizzazione della vita quotidiana?
Questo studio vuole essere innanzitutto un’osservazione etnografica delle persone, che fornendo esperienze e vissuti, contribuiscono a comporre alcune tra le più urgenti domande di ricerca ed a immaginare insieme il futuro della ricerca, avendo dovuto avviare queste prime e acerbe riflessioni proprio ora, proprio ai tempi del COVID-19. Ci spieghiamo meglio.
La ricerca etnografica come era stata inaugurata da Malinowski e perpetuata nei decenni successivi – e solo fino a qualche mese fa – si trova di fronte alla necessità di fare un passo indietro, di rivalutare una etnografia “da veranda” [4], alla quale il ricercatore è costretto dai decreti restrittivi emanati dagli organi statali per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da Coronavirus. Docenti e ricercatori di più lunga esperienza di noi lo sottolineano nei loro interventi più recenti. Così esordisce Fabio Dei nel suo contributo al dibattito effervescente che si sta sviluppando su blog, forum, siti online.

"Non parlerò di etnografia, che è difficile fare senza poter uscire di casa o tenendosi a un metro di distanza dagli altri. Ma documentazione, descrizione che cerchi di andare un po’ oltre ciò che i media possono offrire (che non è poco, beninteso)" [5].

Pur essendoci ben chiare le ragioni di questa posizione, siamo un gruppo di studentesse e studenti di Comunicazione interculturale dell’Università di Torino iscritti ad un Laboratorio di Etnografia che si sono ritrovati a dover pensare come fare ricerca quando era praticamente impossibile continuare a farla come la si era sempre pensata e praticata. Questo ci sembra un motivo sufficiente per tentare di andare laddove altri in questo momento dicono di non potersi spingere. Ne va del nostro futuro, delle nostre prime tesi, delle nostre aspirazioni per corsi di laurea magistrale, di un impegno che avevamo pensato di avere di qui a qualche anno … Ci spingono ovviamente passioni e interessi diversi, ma l’adesione al Laboratorio ci accomuna nel desiderio di incamminarci lungo il sentiero di una conoscenza che passa prima di tutto attraverso una esperienza, una relazione: la relazione etnografica.
Sebbene tra la fine del mese di febbraio e gli inizi di marzo 2020 – quando il Laboratorio stava iniziando – fosse ancora possibile svolgere ricerca etnografica al di fuori delle proprie case, entrando in contatto (seppur con le opportune limitazioni) con altri soggetti non appartenenti al proprio nucleo familiare ristretto e registrando pertanto la realtà circostante, con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) 9 marzo 2020, sono state estese all’intero paese forti misure restrittive che hanno imposto grandi limitazioni alla libertà di movimento dei cittadini. Da quel momento in poi, l’Italia ha visto un progressivo aumento delle restrizioni alla possibilità di spostarsi liberamente, restrizioni che hanno ovviamente influito anche sulle modalità di ricerca del presente lavoro. 

Pertanto, pur senza sottovalutare l’iniziale periodo di ricerca sul campo, questo lavoro è principalmente frutto della nostra esperienza personale, divenuta essa stessa oggetto di ricerca. Le conversazioni con amici e parenti, i discorsi dei vicini, i post sui social media sono diventati oggetto della nostra osservazione partecipante, pur con tutti i limiti di una etnografia “da veranda”, “da tavolino”, da terrazzo.

(continua)

[1] Ciccarelli, R. (2020), Siamo inun’economia di guerra
[3] È di primaria importanza il ruolo dell’informazione, tramite tra le istituzioni e i cittadini. «Giornalismo e scienza devono distinguere fonti legittime di informazione da voci di corridoio, mezze verità, propaganda. Un compito che, nel mezzo di una pandemia, può diventare arduo» scrive Torrisi (2020), Come il giornalismo dovrebbe affrontareepidemie e pandemie di malattie infettive
[4] E. Tauber, D. Zinn (2018), Back on the verandah and off again: Malinowski in South Tyrol and his ethnographic legacy, ANUAC, 7, 2: 9-25.


Torino, 16 giugno 2020
Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino
Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.