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Pandemic Insights

Segnaliamo con piacere la pubblicazione sull'Anthropology News dell'American Anthropological Association (AAA) di un contributo a firma del gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia Pubblica a Milano per la rubrica "Pandemic Insights", che raccoglie contributi di antropologi di ogni parte del mondo sui temi inerenti l'epidemia globale di Covid-19. Il nostro intervento, intitolato Back to the Future in Milan, ricostruisce brevemente la genesi, gli obiettivi e i risultati del blog "La giusta distanza" inserendoli nel quadro di una riflessione sul presente e sui futuri possibili dell'antropologia pubblica. 


Il testo integrale è disponibile sul sito di "Anthropology News", al quale vi rimandiamo. Qui di seguito vi proponiamo un breve estratto del testo:

Reflecting on the “pandemic present” also holds an orientation for the future, which is, in Bryant and Knight’s words, “a way of thinking about the indeterminate and open-ended theologies of everyday life.” In liminal times, the blog promotes anthropological analyses of possible future scenarios, anticipating public debates, evaluations, and negotiations about the world that will come. If we were not prepared for the impact of the pandemic and found refuge in the outer space of comfort theories, we now must be collectively ready for the post-pandemic return back to Earth with renovated tools.

At the same time, an orientation for the future acts reflexively on the role of public anthropology itself. Following Antonio Gramsci, crises consist in the fact that the old is dying and the new cannot be born. How we decide to act as public anthropologists in this crisis will define the future of the discipline.

Milano, 26 maggio 2020
Ivan Bargna, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera, Francesco Vietti
World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano
Università di Milano Bicocca

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Denaro e quarantena

Il lockdown ha stravolto la maggior parte delle nostre abitudini, anche quelle più intime, legate al rapporto con il tempo, lo spazio e il corpo. Alcune di queste pratiche sono parte di una routine così automatizzata e inconscia che non ci pensiamo neanche più. In quarantena, abbiamo guardato gli oggetti quotidiani con occhi nuovi, è certo. Lo hanno detto in tanti, sotto tantissimi punti di vista. Le relazioni umane e le pratiche della vita quotidiana sono cambiate, schermi dove prima c’erano occhi, guanti e mascherine a coprirci e proteggerci. Anche gli ambienti in cui trascorriamo il tempo si sono ridotti drasticamente. Stefano Mancuso ha fatto notare come questa esperienza ci avvicini alla comprensione della vita delle piante, che si muovono senza potersi spostare, sono attentissime alle risorse disponibili nelle immediate vicinanze e a ciò che succede intorno a loro. 

L’aspetto della vita materiale che ha catturato di più la mia attenzione, forse sintomo di una leggera ipocondria, è la relazione con oggetti che provengono dall’esterno: la busta della spesa, le chiavi di casa, le scarpe, il denaro. In casa mia regna un regime molto severo, lo ammetto. La procedura per uscire e rientrare a casa prevede: spogliarsi in balcone, ripetuti lavaggi di mani, appoggiare gli oggetti su un apposito ripiano e pulire tutto con l’alcol, recuperato dopo estenuanti giri tra i negozi bengalesi della zona. Banconote e monete sono state in qualche modo esiliate, allontanate dal mio corpo. Questa circostanza ha per certi versi cambiato, fosse anche in minima parte, il mio rapporto coi soldi.


Scambiare e utilizzare denaro è un gesto scontato, anche quando non abbiamo soldi è difficile immaginare o mettere in pratica alternative. L’antropologo David Graeber si è speso tantissimo per decostruire la necessità di questo rapporto sociale e dimostrare che il denaro, i debiti, la compravendita e l’economia come sfera separata della vita sociale non sono sempre esistite. Tuttavia è una pratica così radicata nel comportamento da sembrarci ovvia e naturale. In altre parole embedded, come la scrittura o l’uso di un paio di scarpe. 

Il denaro potrebbe essere definito come una grammatica sociale che tutti conosciamo. Ha plasmato e si è adattato al pensiero e alle società umane in modo capillare. Contro di lui sono state lanciate imprecazioni e accorate benedizioni. Se volessimo seguire Bruno Latour, e adottare un approccio estremamente inclusivo verso le specie animali, vegetali e verso tutti quegli agenti non-umani che fanno parte del nostro ambiente, anche il denaro potrebbe avere un agency ed essere paragonato a una specie invasiva e parassitaria. Per esempio un piccione. Specie contro cui - per inciso - in casa mia vige una profilassi altrettanto minuziosa, visto che siamo impegnati in una lotta per disinfestare un balcone che, dopo anni di semi-abbandono, ha dato i natali a generazioni di questi testardi e disgustosi animali.

Ma il denaro non è solo questo, è parte di un sistema di relazioni socio-economiche, è uno strumento ideologico e di governo, è un simbolo di successo o di fallimento… Nella sua materialità non è sempre stato uguale a se stesso e non avrà per sempre la forma che conosciamo oggi. Le carte di credito, i sistemi di pagamento online, l’abitudine di comprare a rate hanno già reso in parte obsoleti i contanti. E per due mesi l’oggetto denaro è quasi scomparso dalla mia vita. Da un certo punto di vista è stata una perdita, perché insieme a lui sono scomparse una quantità di cose e avvenimenti che lo accompagnavano. Ma una perdita accompagnata da un vano e fugace senso di liberazione. Utopisticamente, mi sono trovata un passo più vicino all’immaginare che un giorno il denaro potrebbe non esistere più e l’economia essere guidata da regole completamente nuove.

Epidemia da coronavirus: la Cina pulisce le banconote - Focus.it

Il Covid-19 rappresenta una crisi senza precedenti per il nostro modello sociale, è l’esperienza traumatica più invasiva che le società occidentali si trovano a vivere dopo la seconda guerra mondiale. Per alcuni un nuovo undici settembre, per altri un passaggio cruciale nella critica e nella lotta al modello di sviluppo neoliberista e antropocentrico. Personalmente non sono tra quelli che elogiano il lockdown come occasione di crescita, sono sempre stata scettica verso chi diceva che da questa esperienza saremmo usciti migliori, come individui e come società. Per me l’epidemia assomiglia più a un abisso che a un portale.

Tuttavia mi chiedo come potremmo trarre beneficio dal potenziale creativo della distruzione, dalla molteplicità di situazioni e sensazioni nuove, dalle abitudini stravolte, dalla rinegoziazione di rapporti con cose e persone che davamo per scontate. La mia impressione è che questo insieme di esperienze costituiscano una matassa di saperi nuovi, una materia ancora inerme da lasciar germogliare e innestare nelle nostre relazioni. 

A pensarci bene queste conoscenze, estremamente personali ma significative e condivisibili su larga scala, potrebbero davvero diventare uno strumento potentissimo per il riconoscimento reciproco tra individui e gruppi diversi e lontani. Per farci largo nella storia e orientare processi di trasformazione e libertà abbiamo bisogno di unirci, aprirci verso l’esterno e prenderci cura della diversità all’interno. In molt* sentiamo l’urgenza di tornare a sentirci parte di collettività culturalmente inclusive e politicamente incisive. Forse una pista da seguire potrebbe essere quella di mettere in comune il vissuto, i bisogni, le idee e le emozioni scaturite da questa situazione così sconvolgente e inaspettata; e utilizzare tutto ciò come ceppi di legna secca da gettare tra le fiamme del cambiamento.


P.S.: non vi preoccupate il balcone dei piccioni non è lo stesso dove metto i vestiti. 

Roma, 26 maggio 2020
Francesca Messineo
Dottorato in Scienze Sociali Applicate
Università di Roma - La Sapienza

P.S.2: questo post, per inevitabile contagio delle storie, mentre attendeva di venire pubblicato sul nostro blog è uscito anche su Q Code Mag. Se l'avete letto qui e vi è piaciuto, potete anche rileggerlo là (e viceversa). Vi consigliamo inoltre di immergervi nella lettura degli altri interessanti testi della rubrica Contagio delle storie.

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Border Trouble: ripensare le mobilità e i confini dal "limbo" marocchino // FASE 2

C’è un’immagine, ripresa da alcune testate italiane, che ha fatto il giro dei social media nei giorni dello scoppio della pandemia: la fotografia, scattata a Marrakech, ritrae una ragazza quasi completamente sola in una deserta Jemaa el Fna, una delle piazze più famose al mondo, patrimonio mondiale dell’umanità e principale icona del Marocco. È un’immagine straniante e surreale soprattutto per chi come me, solo qualche giorno prima, si trovava ad attraversare la “mitica” piazza, popolata dalla consueta e variopinta “corte dei miracoli” (fatta di cantastorie, incantatori di serpenti, acrobati, musicisti, teatranti, guaritori tradizionali, chiromanti, tatuatrici, ambulanti, etc) che vi si riunisce ogni giorno, mettendo in scena un vero e proprio spettacolo en plein air, capace di attrarre milioni di turisti affamati di “esotismo e alterità”. 

Fonte: The Post International

L’irrompere della pandemia ha spazzato via tutto, innescando effetti inediti e paradossali: con un’escalation rapida e imprevedibile, a metà marzo, il Regno ha deciso di chiudere le proprie frontiere e di imporre, a scopo precauzionale, un rigido confinamento (ancora in corso). Le strade di Marrakech, già ricolme di visitatori sbarcati dai numerosi aerei low cost che collegano la più importante meta turistica del Nordafrica alle principali città del Vecchio Continente, si sono svuotate da un giorno all’altro. Con la repentina chiusura delle frontiere e l’immediata sospensione dei voli internazionali, però, migliaia di turisti europei sono rimasti bloccati nel paese, sperimentando per la prima volta il “trauma dell’immobilità” (Ben Lazreq, Garnaoui 2020), fino a quel momento riservato esclusivamente ai locali e ai migranti subsahariani fermi da anni nel “limbo marocchino”. Questa situazione inconsueta ha provocato scene di panico e sdegno (culminate nelle proteste spontanee nei principali aeroporti del Marocco) e un senso di diffusa incredulità nel trovarsi per una volta “dall’altra parte”: come scrive Marmié a proposito dei “francesi bloccati in Marocco”, essi improvvisamente “hanno scoperto, sotto shock, la reversibilità della situazione migratoria e la sparizione temporanea dei loro privilegi di circolazione” (Marmié 2020). Termini come confinement (confinamento) et rapatriament (rimpatrio) d’un tratto non riguardano più solamente gli “altri”, i “migranti” ma anche i gli “expat”, i “turisti”, i quali se da un lato ricevono numerosi attestati di solidarietà da parte della popolazione locale, dall’altro - visti come “untori” -  sono anche oggetto di stigmatizzazione e ostilità.

Ma è a circa seicento chilometri a nord di Marrakech, nelle zone di frontiera tra Spagna e Marocco, che accade l’impensabile: alcuni giovani marocchini fuggono a nuoto dall’enclave spagnola di Ceuta, uno dei simboli più potenti della “Fortezza Europa”, per tornare nel loro paese d’origine dove si sentono più al sicuro. Qualche settimana dopo, il quotidiano El Pais riporta la notizia che i passeurs dello Stretto hanno iniziato a organizzare costosi viaggi a senso inverso per permettere ai marocchini bloccati nel paese iberico, fortemente colpito dal Coronavirus, di ritornare a casa.

Un paio di anni fa, per una mia precedente ricerca, mi sono occupata del confine “in movimento” tra Spagna e Marocco, sottolineandone il carattere flessibile e cangiante (Turchetti 2019b) ma mai mi sarei aspettata di trovarmi davanti a uno scenario del genere, dall’oggi al domani. Di primo acchito, nello sconvolgimento di quei giorni e nella difficoltà di mettere a fuoco ciò che stava accadendo sotto i miei occhi, mi è tornato alla mente il bel romanzo di Abdourahman Waberi “Gli Stati Uniti d’Africa”, in cui lo scrittore francese nativo di Gibuti prova a immaginare un “mondo al contrario” dove i  migranti si accalcano alle frontiere del continente africano, spostandosi da Nord verso Sud.

Al di là di suggestioni letterarie estemporanee, tuttavia, è evidente che il mondo non si sia affatto capovolto. Per quanto buona parte della popolazione mondiale stia sperimentando forme di confinamento e restrizione delle libertà, a dispetto di ogni retorica, non siamo “tutti sulla stessa barca”: la pandemia ha acuito le disuguaglianze e aumentato la vulnerabilità dei migranti e dei rifugiati in Marocco e altrove (Agier 2020). Nonostante la momentanea riconfigurazione del paradigma della mobilità globale (Borriello, Sahiloglu 2020), poi, le gerarchie e i privilegi di circolazione non sono stati realmente scompaginati: gli europei bloccati in Marocco (me compresa) sono tornati quasi tutti a casa con voli speciali autorizzati dal governo marocchino, mentre i migranti subsahariani sono sempre nel paese in una condizione di ancora maggiore precarietà, immobilità, sospensione (che colpisce anche gli strati più vulnerabili della popolazione locale).

Ciò che è cambiato in questi mesi, però, è sicuramente il livello di attenzione posto sul tema, soprattutto nelle prime settimane dopo lo scoppio della pandemia:  le migrazioni e le frontiere, negli ultimi anni al centro di innumerevoli dibattiti, sono d’improvviso quasi del tutto sparite dalle agende politiche e accademiche, fagocitate dal Coronavirus (Firouzi Tabar 2020). Eppure viviamo in una fase storica che vede la proliferazione e il consolidamento (ma anche la destabilizzazione) di confini “esterni” e “interni”, l’instaurazione (temporanea?) di nuovi regimi frontalieri che attraversano spazi e corpi (De Silva 2020). 

Fonte: Pew Research Center

In questo contesto, inoltre, la nozione stessa di confine – che, in tutta la sua polisemia, già prima si mostrava particolarmente feconda sia nel campo delle scienze sociali che in quello delle pratiche artistiche (Turchetti 2019a) - si carica di nuovi significati e sfumature (Bargna et alii 2020).

Il momento, dunque, appare propizio per ripensare le mobilità e i confini, andando oltre la situazione contingente e provando a immaginare scenari futuri. Da questo punto di vista, il Marocco, terra di mezzo, può costituire un osservatorio privilegiato da cui guardare al “nuovo mondo” che ci aspetta. Negli ultimi decenni, il paese maghrebino ha costituito un vero e proprio laboratorio per le politiche europee di esternalizzazione della frontiera (border outsourcing), finalizzate a istituire un cordon sanitaire a protezione dello spazio UE. Tali politiche non si riducono solamente alla costruzione di muri e barriere (come quelle imponenti e “scenografiche” che circondano le enclaves di Ceuta e Melilla), ma mettono in campo anche una serie di raffinati dispositivi per controllare, sorvegliare e filtrare le mobilità umane, sulla base di una linea strategica che Campesi definisce “polizia dei flussi” (Campesi 2015:131), ispirata al principio del profiling e del risk targeting. Questa strategia si ricollega al concetto di “confine intelligente” (smart border), una tecnologia avanzata in grado di operare in maniera “chirurgica”, di insinuarsi nei corpi (border insourcing), selezionando e differenziando minuziosamente i flussi.

Fermo restando che con ogni probabilità alcune gerarchie di mobilità saranno destinate a durare (e a cui potrebbero aggiungersi altre forme didifferenziazione), possiamo ragionevolmente pensare che in futuro tali meccanismi di governance, implementati e testati in paesi terzi e/o su determinate popolazioni-target (i “migranti”), possano essere importati e applicati su larga scala, portando all’ampliamento di un “regime che seleziona e sacrifica” (Amselle 2020). Come scrive Paul Preciado (2020), in parte sta già accadendo:

“il virus non fa che riprodurre, materializzare, estendere e intensificare per l’intera popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica già esistenti […]. Il corpo è diventato il nuovo territorio all’interno del quale si esprimono le violente politiche di frontiera che progettiamo e testiamo da anni sugli “altri”, assumendo la forma di misure di barriera e di guerra al virus. La nuova frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia verso la porta di casa tua. Oggi Lesbo comincia sul tuo pianerottolo. E la frontiera non smette di chiudersi su di te, ti spinge sempre più verso il tuo corpo. Calais oggi ti esplode in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiri deve essere solo tua. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova Lampedusa è la tua pelle”.

                                                          Yto Barrada, A Life Full of Holes: The Strait Project

Tenuto conto del suo carattere polisemico, il confine, però, non è solamente una tecnica di potere e governo ma può configurarsi  anche come uno spazio “aperto” di conflitto e creatività. In tal senso, la frontiera tra Spagna e Marocco è da tempo un laboratorio di pratiche e “lotte di confine” (Mezzadra, Neilson 2013) in cui il corpo migrante (vulnerabile e resistente, imbrigliato e indocile al contempo) è assoluto protagonista. Ed è a queste esperienze liminali che dovremmo guardare per immaginare uno scenario futuro, non necessariamente distopico. Un futuro in cui i corpi – in tensione con i confini che li contengono e attraversano - giocheranno un ruolo centrale in quanto come annota ancora Preciado (2020):

“Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la nostra salute non dipenderà dal confine né dalla separazione, ma da una nuova concezione della comunità che includa tutti gli esseri viventi, da un nuovo equilibrio con gli altri esseri viventi del pianeta. Abbiamo bisogno di un parlamento di corpi planetari, un parlamento non definito in termini di politiche d’identità o di nazionalità, un parlamento di corpi (vulnerabili) che vivono sul pianeta Terra”.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

-Agier, M. (2020), “Les vies encampées, et ceque nous en savons”, Libération, 21/04/2020.  

-Amselle, J.L. (2020), “Addio a Foucault. ‘Biopotere’ o‘tanatocrazia’?”, Scenari, 20/04/20. 

-Bargna, I. et alii (2020), “Confini:(S)confinamenti. Antropologia pubblica e frontiere”, Gli Stati Generali, 01/05/2020. 

-Ben Lazreq, H.: Garnaoui, W. (2020), “TheParadoxes of Immobility: Covid-19 and the Unsettling of Borders”, ABCNet, 24/04/2020. 

-Borriello, G.; Sahiloglu, A. (2020), “Bordersin the Time of Coronavirus: How the COVID-19 Pandemic Upended the GlobalMobility Paradigm”, COMPAS, School of Anthropology, University of Oxford, 20/03/2020.

-Campesi, G. (2015), Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo, Roma, Deriveapprodi.

-De Silva, V. (2020), “Mobilità, corpi e confini”, Storie virali, 28/03/2020. 

-Firouzi Tabar, O. (2020), “Lemigrazioni nella Pandemia: Rappresentazioni, marginalità e nuovi spazi di lotta”, Euronomade, 07/05/2020. 

-Marmié, C. (2020), “Les ‘françaisbloqués au Maroc’. Une lumière crue sur l’ordre migratoire international”, Carnets de l’Ehess, 15/04/2020. 

-Mezzadra, S.; Neilson, B. (2013), Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna.

-Preciado, P. (2020), “Le lezioni delvirus”, Internazionale, 09/05/2020. 

-Turchetti, A. (2019a), “L’arte dei margini: poetiche e politiche del confine Euro-Africano tra paesaggi di potere e spazi di resistenza” in Bertoni, F.; Sterchele, L.; Biddau, F. (a cura di), Territori e resistenze. Spazi in divenire, forme del conflitto e politiche del quotidiano, Manifestolibri, pp.144-163.

-Turchetti, A. (2019b), “Non solo Fortezza Europa: lo scenario di frontiera tra Spagna e Marocco. Un confine in movimento” in Fabini, G.; Firouzi Tabar, O.; Vianello, F. (a cura di), Lungo i confini dell'accoglienza. Migranti e territori tra resistenze e dispositivi di controllo Manifestolibri, pp. 23-40.

Marrakech (Marocco), 21 maggio 2020
Alessandra Turchetti
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

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La festa è finita? // FASE 2 [STUDENTS' CORNER]

In questo periodo, si parla tanto, anche troppo (e a sproposito), di sospensione del tempo o di interruzione della normalità. Se gli studi su certe questioni avessero l’autorevolezza che gli spetta, in pochi potrebbero esprimersi. Ad oggi, sembra però che ormai ognuno abbia il diritto di fare di temi così importanti e complessi materia da talk show, da chiacchiericcio tra amici in video-call o su You Tube. E di questo, noi, ce ne dispiacciamo.
A tal proposito, inizierei dal dimensionamento del mio stesso intervento: non è nient’altro che una riflessione libera su tematiche che l’attualità ci porta ad affrontare; uno spunto per un dibattito costruttivo che, naturalmente, lascio fare a chi ne ha gli strumenti adatti.

Credo che questa sospensione di cui tutti parlano sia una condizione che realmente sussiste: ognuno, o quasi, ha stravolto le vecchie abitudini, ha smesso di incontrare le persone che facevano parte della vita personale e pubblica, ha imparato a scandire diversamente il tempo della quotidianità. Senza dubbio, la vecchia normalità non può essere più la stessa. A partire da questo, credo che si debba fare doverosamente una distinzione quasi semantica di alcuni concetti che vengono solo formalmente espressi nella stessa maniera: esiste questa sospensione momentanea e universale che rallenta e frammenta i nostri giorni, ma esiste – concettualmente e accademicamente – già ancor prima la liminarità. Qui si gioca lo scarto semantico dove, a parer mio, non si dovrebbe far confusione. Chi parla di sospensione della pratica abitudinaria oggi si riferisce generalmente alla privazione di un caffè al bar, o alla rinuncia ad un allenamento in palestra o, ancora, all’obbligo di lavorare da casa. Il concetto antropologico di tempo liminare, invece, è assai complesso; riguarda le dinamiche del rito di passaggio, rientra nelle regole che costituiscono il rito religioso, e si colloca tra le righe che definiscono la pratica della festa.


Silvano Petrosino ha raccolto una serie di interventi di alcuni studiosi a margine di un seminario in un volume dal titolo La festa. Raccogliersi, riconoscersi, smarrirsi; qui il concetto di “uscita dal quotidiano” viene sviscerato e collocato nei significati che l’antropologia ci aiuta ad elaborare. Con un esempio di questo tipo, spero di sottolineare la differenza che sta alla base dell’enunciazione di certe funzioni sociali: la sospensione nella nostra stretta attualità è un fatto ampio, superficiale e palpabile, quella antropologica, invece, riguarda degli sviluppi culturali che si esprimono sotto varie forme sociali che perdurano nel tempo (dalla preistoria alla contemporaneità). La festa di Petrosino – quasi al contrario rispetto alla definizione inflazionata – riguarda l’incontro tra le persone, si fa espressione di legame tra uomini tramite l’istituzione di momenti collettivi di “evasione dall’ordinario”.  Se oggi la sospensione è imposizione, sacrificio, in quel caso è tregua. Si tratta di prendersi il “tempo” necessario per la rottura momentanea delle regole sociali e delle logiche sui legami; sorprendentemente, questa sovversione delle norme porta anzi al rafforzamento delle regole e dei legami stessi. Il rito, e la festa, stravolgono la socialità normalmente condivisa, la portano temporaneamente su terreni che prevedono diverse strutture e diversi dettami, per poi riportarla indietro più forte di prima.  Leed ci propone l’esperienza liminare nelle vite dei soldati in guerra (Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale); anche qui la quotidianità è stravolta dall’improvviso ritrovarsi nella “terra di nessuno”, con la separazione dal luogo abituale, la collocazione del guerriero (o festante, o passeggero) come dimorante tra due stati, e la riaggregazione o ricongiungimento.


Questa è il percorso antropologico della sospensione. È quello che conosciamo, ed è quello che deve sopravvivere. Ecco, nelle “proiezioni sul mondo che verrà” ci facciamo carico di alcune responsabilità; in queste riponiamo anche un accenno di speranza e di fiducia.
Nella fase 2 o 3 o 4 che sarà: la festa non deve finire. L’antropologia, gli studi culturali, dovranno preservare, conservare e divulgare i percorsi di comprensione che sono riusciti a tracciare. La sospensione non sia mai una frivolezza; certi temi sono propri dell’antropologia e dell’antropologia dovrebbero rimanere. Su questo dobbiamo lavorare nel mondo che verrà. La semplificazione non è la strada giusta.Nel mondo che verrà, appunto, certe discipline come l’antropologia dovranno impegnarsi per mantenere nel proprio tono quella autorevolezza che, in certi casi, pare quasi venga meno.

Bologna, 19 maggio 2020
Diego Liaci
Corso di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia
Università di Bologna

Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.

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CALL FOR PICTURES: Oggetti visionari

Le promesse della sharing economy. Lo stile di vita senza radici dei digital nomads. Amazon Prime e le sue consegne in un giorno. Tinder e le altre app di incontri. Le distanze e i tempi che si accorciano sempre di più, almeno per certi gruppi sociali. Questa ci sembrava la direzione intrapresa, che ci piacesse o meno. E poi è arrivata la pandemia di Covid-19 e il futuro che avevamo dato per scontato è diventato improvvisamente meno ovvio, più opaco. Lo sviluppo unilineare  si è rivelato essere ancora una volta un falso mito e l’impensabile si è presentato davanti ai nostri occhi:  Airbnb è in difficoltà economica, gli autisti di Uber si fermano, gli spazi di co-working diventano pericolosi, Amazon non rispetta più i suoi tempi di consegna… Non è la prima volta che eventi considerati altamente improbabili, tanto dalla gente comune quanto da futurologi di professione, si verificano. La fine della Guerra Fredda, o anche, per certi versi, la Brexit, ne sono esempi eclatanti (Minvielle, Wathelet, Lauquin, Audinet 2020: 21). 

La design fiction è un approccio ibrido, fra scienza, fantascienza e design (Bleecker 2009) che, invece di tentare (invano) di prevedere il futuro che verrà, mira ad ampliare lo spettro del pensabile, mettendo a fuoco i casi estremi, statisticamente considerati meno probabili. L’obiettivo non è l’individuazione di trend, ma  piuttosto la coltivazione dell’immaginazione e la problematizzazione della rappresentazione del futuro, affinché si possa meglio agire nel presente. Si tratta di un approccio che mira all’azione più che alla descrizione, anche grazie alla creazione di oggetti concreti, da maneggiare, che, attraverso la loro dimensione sensibile, aiutino le persone a sperimentare scenari differenti e a prendere posizione. La cultura popolare, con le sue creazioni fantastiche, è in questo senso una fonte di ispirazione preziosa, poiché va oltre le visioni convenzionali, proponendo un  panorama vario di situazioni fittizie, più o meno (in)credibili.


Durante la pandemia, abbiamo quanto mai bisogno di coltivare la nostra capacità di pensare futuri diversi, per sfuggire ai riduzionismi e alle semplificazioni, che ci fanno accettare alcune strade come “inevitabili”. All’idea di necessità è importante accostare anche quella di possibilità, per aprire lo spettro del pensabile e visualizzare una pluralità di alternative, da dibattere, confrontare, criticare o accogliere. In un momento in cui la stessa parola normalità è di difficile decifrazione e il futuro è scandito da “fasi” a corto raggio, la fantasia può diventare uno strumento prezioso per complicare le rappresentazioni lineari, stimolando l’immaginazione e la mobilitazione, in vista delle alternative desiderabili. 

In questo spirito, lanciamo una #CallForPictures e vi chiediamo di inviarci fotografie (risoluzione almeno di 800x600 pixel) di oggetti “visionari”, che evochino, attraverso la loro materialità, diversi scenari (desiderabili, distopici, utopici, improbabili, plausibili, vicini, lontani,…), per costruire una sorta di inventario, mai completo, di  futuri possibili. Si può trattare, per esempio, di oggetti auto-prodotti, oppure di oggetti d’uso quotidiano ma posti in nuovi contesti, o ancora di oggetti manipolati creativamente per potere rispondere a bisogni e utilizzi inediti. Tutte le fotografie verranno pubblicate sulla nostra pagina Instagram @anthroday_milano e sul blog #LaGiustaDistanza. Le fotografie migliori saranno anche stampate ed esposte in una mostra che verrà inaugurata durante il World Anthropology Day – Antropologia Pubblica a Milano, a Febbraio 2021. Le fotografie devono avere un titolo ed essere accompagnate da una breve didascalia (20 parole massimo). 

Bleecker J. 2009. Design Fiction: A Short Essay on Design, Science, Fact and Fiction

Minvielle N., Wathelet O., Lauquin M., Audinet P. 2020. Design Fiction and More for your Organization. Making Tomorrow Collective. 

Milano, 18 maggio 2020
Ivan Bargna, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera, Francesco Vietti
World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano
Università di Milano Bicocca

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Note da Maputo #3. Una riflessione sul futuro della cooperazione sanitaria post Covid-19 // FASE 2

La situazione della pandemia in Mozambico è in lenta evoluzione dovuta ad una impossibilità tecnica del paese di testare le persone e quindi di comprendere la reale entità del problema nel paese. Ad oggi esiste un unico laboratorio in tutto il paese in grado le leggere il test, la distribuzione dei kit è di poche decine per provincia e il test, una volta effettuato, richiede anche giorni per arrivare nella capitale, rischiando di compromettersi. Stiamo lavorando per la realizzazione di laboratori in ogni provincia e con centinaia di attivisti per fare informazione nelle comunità e per stabilire un sistema di vigilanza epidemiologica in modo da arrivare capillarmente nelle aree più remote.

Le difficoltà sono molteplici e di diversa natura, dalla carenza di materiale protettivo (tutta l’Africa, direi, ha optato per produrre mascherine fatte in casa, di efficacia parziale ma esteticamente convincenti), alle credenze erronee che si sono diffuse (malattia dei “bianchi”, dei “cinesi”, proteggersi è inutile perche’chi ha la pelle nera è immune..) e di carattere organizzativo-gestionale; i passaggi burocratici necessari per qualsiasi attività che invece dovrebbe essere rapida sono molteplici e rigorosamente ottemperati a tutti i livelli, dal ministero sino al più recondito comitato politico di villaggio, riflettendo un dovere di collegialità avvertito come elemento unificante necessario per la stabilità e la coesione sociale, in un paese mai completamente pacificato e dove chiaramente qualsiasi elemento di criticità assume immediatamente una valenza politica e si presta a strumentalizzazioni.


Il coordinamento tra i molteplici attori internazionali è frammentario e poco lineare, riflettendo agende politiche, piani di lettura e priorità differenti. E’ dalla posizione privilegiata di operatore attivamente partecipante e partecipato che germina una riflessione su come evolverà il panorama della cooperazione internazionale sanitaria quando l’emergenza sarà superata.
Quali modelli, priorità e strategie prevarranno nel prossimo futuro è un tema irrinunciabile per provare a tracciare degli scenari che, per quanto complessi, possono darci indicazioni fondamentali per interpretare (e attrezzarci di conseguenza) le dinamiche e I discorsi relativi al campo semantico dello “sviluppo” e della salute globale.

Sporcandosi le mani nel lavoro quotidiano, possiamo riconoscere e presentare alcuni elementi rilevanti; se gli “obiettivi del millennio”, il cui ciclo si è concluso nel 2015, identificavano ben 3 obiettivi su 8 in totale come priorità specificatamente sanitarie (gli obiettivi 4,5 e 6, volti alla riduzione della mortalità infantile, quella materna e alla lotta a HIV-AIDS, malaria ed altre malattie) con un impianto teorico e analitico inequivocabile nella sua immediatezza, così come nel fornire ai grandi organismi donatori internazionali indicazioni di investimento inequivocabili, gli “obiettivi sostenibili del millennio” (la prospettiva temporale arriva al 2030) vedono “solo” un obiettivo dedicato ad impattare su indicatori sanitari, il numero 3 volto a promuovere “buona salute e benessere” a tutta la popolazione mondiale. Il suo pronunciarsi accostando “salute e benessere”, se dà vigore ad una interpretazione ampia del concetto di “salute” e dunque apre una rivisitazione ad un rinnovamento di alcuni paradigmi deterministici, circoscrive un arretramento della sanità in sè nell’arco delle priorità planetarie percepite a favore di un programma che vede nella necessità di un riequilibrio tra ecosistemi e impronta umana la propria cifra distintiva.


La pandemia che stiamo faticosamente attraversando pone tutti noi di fronte all’evidenza dell’inadeguatezza strutturale di molti paesi ad affrontare emergenze sanitarie di questa portata. Se tale considerazione può essere tragicamente letta e ritagliata pensando in primis all’Italia (dove però le carenze e le conseguenze derivano da scelte di politica sanitaria degli ultimi trenta anni e da un modello di società che vede nel malato il cliente di un servizio), in Africa e in Mozambico derivano dalla assoluta fragilità del sistema sanitario nella sua totalità, in un paese ancora agli ultimi posti nell’indice di sviluppo umano e che presenta uno dei maggiori indici di Gini del pianeta.

Quali elementi sapranno trarre gli organismi impegnati nella definizione e nell’analisi della salute globale, e quali traiettorie seguiranno le strategie dei paesi in materia di sanità sono temi fondamentali che sebbene ad oggi potrebbero sembrare prematuri, potrebbero comportare scompensi nella già carenti risorse ad oggi disponibili per occuparsi di problemi di minore visibilità emotiva e di minor pericolisità in termini di diffusione ma che impattano in modo decisivo sul futuro dei paesi che ne sono affetti. Le malattie croniche e le malattie mentali sono recentemente state riconosciute dal Organizzazione Mondiale della Sanità come le “pandemie silenziose” del continente africano nei prossimi decenni, come ancora, tra altre, la malnutrizione cronica che comporta il mancato pieno sviluppo delle facoltà cognitive del bambino rappresentando un peso immenso per le generazioni future e le aspettative di “crescita” di molti paesi… o ancora la mortalità neonatale che in Africa rimane un indicatore centrale nel leggere la diseguaglianza nell’accesso a servizi sanitari equi e di qualità…temi sui quali I paesi stavano lentamente iniziando a dedicare risorse e pianificando, inserendoli nelle agende politiche e nei piani strategici; ora si rischia un arretramento dell’attenzione dedicata a queste a favore di investimenti volti ad affrontare presenti e probabili future emergenze.

E’ evidente che, per quanto assolutamente auspicabili, provvedimenti e strategie volte a contrastare le emergenze risponde a criteri e meccanismi altri rispetto a quelli necessari ad impegnarsi contro le “pandemie silenziose”, lasciando tutti noi ad interrogarci sui possibili scenari futuri della cooperazione sanitaria, sul suo ruolo, funzione, autonomia, possibilità di contribuire.
E’ questo chiaramente solo un tassello di un riflessione ampia ma doverosa su come cambierà la cooperazione internazionale dalla sua dimensione attuale, non solo in ambito sanitaria, e quali toni assumerà nell’opinione pubblica l’investimento pubblico per la cooperazione, in un paese come l’Italia ferita gravemente dalla pandemia e che si prepara ad affrontare un crisi economica di proporzioni ancora non immaginabili.

Qui due video (filmato 1 e filmato 2) per un approfondimento sulle attività di Medici con l'Africa CUAMM in Mozambico durante il periodo dell'epidemia da Covid-19.


Maputo (Mozambico), 14 maggio 2020
Edoardo Occa
Medici con l'Africa CUAMM
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

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L’importanza della contaminazione

Il 15 maggio si terrà la conferenza dottorale intitolata Contaminazioni, organizzata dalll'Università di Bergamo, aperta al pubblico e gratuita. Il mondo in cui è nata l’idea della conferenza, originariamente prevista per il 28 febbraio, è ormai ben diverso dalla realtà con cui ci dobbiamo confrontare quotidianamente.


Lo scorso settembre, quando l’evento era ancora nella sua fase embrionale, parlare di contaminazioni stimolava pensieri sull’ibridità, sull’integrazione, sulla nascita di nuove forme. Il tema si prestava bene a una riflessione sul presente, sull’accademia, sulle discipline sempre più interconnesse. La contaminazione, se non necessariamente positiva, era percepita per lo meno come un valore neutro della modernità. A voler azzardare un’affermazione prescrittiva, ne arrivava almeno in parte a definire l’essenza.

Oggi, la parola stessa evoca ben altri contesti. Se a metà febbraio tra gli organizzatori si commentava sull’ironia di vedere i nostri piani per una conferenza incentrata sulle contaminazioni rovinati da un’epidemia, oggi ritorniamo con la mente a quei giorni e non possiamo che rimpiangere la leggerezza con cui sono state accolte le prime ordinanze contro la diffusione del Covid-19. Non intendo nella loro esecuzione e nel loro rispetto, su cui non è mio compito esprimere giudizi, ma nella certezza ingenua che entro qualche giorno, qualche settimana, tutto sarebbe tornato come prima.

A quasi tre mesi da quel momento, tra quei pensieri distratti – saldamente ancorati alla sicurezza che tutto si sarebbe risolto senza conseguenze – e il presente ci sono le decine di migliaia di morti a livello nazionale e le immagini indelebili delle bare che lasciano Bergamo a bordo di mezzi militari. Bergamo, che raramente balza agli onori della cronaca, è diventata la città simbolo della pandemia. Bergamo, che doveva essere la sede di questa conferenza, organizzata nell’ambito del Dottorato in Studi Umanistici Transculturali dell’ateneo cittadino.

È in un mondo diverso che questa giornata di studi avrà luogo, in un modalità quasi impensabile fino a pochi mesi fa. È dunque pressoché inevitabile chiedersi quanto interventi così “astratti” (e, di conseguenza, la conferenza tutta) mantengano un senso a fronte di problematiche in apparenza ben più concrete.

Ecco un tentativo di risposta, parziale in ogni senso della parola: parlare di contaminazione nell’era del Covid-19 senza lasciarsi andare a tristi considerazioni dettate dal momento storico è fondamentale, forse più di quanto non lo fosse prima di questa pandemia.

Lo è per una serie di motivi: per primo, la contaminazione implica un contatto e, non potendo averne uno fisico, possiamo per lo meno avvicinare i nostri pensieri, le nostre conoscenze, e le nostre discipline. La contaminazione deve coinvolgere ogni area del sapere per poter pensare soluzioni nuove. Secondo, la contaminazione, oggi, non fa che evocare immagini di gel igienizzanti, mascherine, guanti e distanze di sicurezza. Gli interventi della nostra conferenza recuperano il valore positivo del concetto e ne celebrano i risultati. Siamo studiosi in campo umanistico, il nostro contributo all’evoluzione del presente non può che concretizzarsi in riflessioni sull’arte, la letteratura, la filosofia, ma rimane ancorato al desiderio di mettere in contatto, di dialogare, di interagire ed espandere. Terzo, ritengo sia auspicabile una società che fa della contaminazione un suo valore fondamentale. Passato il peggio, quando le più comuni attività potranno riprendere, non potremo, né dovremmo, tornare al passato (seppure estremamente recente). La pandemia globale ha messo in luce gravi debolezze del ‘sistema-mondo’ in cui viviamo, ha evidenziato gli svantaggi del capitalismo sfrenato, e forse ha permesso a molti di rivalutare le proprie priorità. Se vogliamo rinnovare la società che abitiamo (e che formiamo), dobbiamo invitare alla contaminazione. Vecchi rimedi per nuovi mali non sempre sono sufficienti. Le discipline arroccate nei propri avamposti devono dialogare tra loro. Le idee ibride possono assicurare il cambiamento.

È questo il tipo di contaminazione che attraversa la Keynote Lecture, intitolata “La de-costruzione dell’Antropocene,” e i quindici interventi in programma per questo venerdì. È in quest’ottica ambivalente che abbiamo scelto l’ape, in pericolo a causa della contaminazione da pesticidi e a sua volta promotrice di contaminazione tra specie animali e vegetali, come simbolo della giornata. Durante la giornata di studi, si parlerà di una contaminazione mossa dalla speranza, piuttosto che evitata per paura.

I cinque panel sono divisi in percorsi tematici: il primo, dal titolo “‘Hard’ e ‘soft’ science: ibridazioni interdisciplinari,” esplora i contatti tra scienze dure e discipline umanistiche, mentre il secondo, “Riflessioni sull’essere e sull’identità,” indaga il pensiero contemporaneo su cosa ci rende individui e umani. Il terzo panel, “Uomo, animale, vegetale: dualità e simbiosi,” apre la sessione pomeridiana con degli interventi sul rapporto tra umanità e natura ed è seguito da “Incontri di culture: prospettive transnazionali,” in cui si presenterranno dei saggi di carattere comparatistico che evidenziano punti di contatto tra culture nazionali diverse. A conclusione della giornata, l’ultimo panel, “Uno sguardo all’America,” si concentra sulle istanze di ibridità nella letteratura del continente americano.

Gli interventi spaziano attraverso le aree del sapere umanistico: antropologia, filosofia, musica, storia, letteratura dialogheranno non solo durante gli interventi, ma anche durante il question time, con l’auspicio che ne risulti una riflessione sul presente aperta, nuova, propositiva e, soprattutto, contaminata.

La conferenza è aperta al pubblico ed è gratuita. Si svolgerà integralmente sulla piattaforma per videoconferenze Zoom ed è necessaria l’iscrizione.
Il programma completo e le istruzioni per partecipare sono disponibili sul sito dell’evento: https://contaminazioni.wixsite.com/website.

Bergamo, 13 maggio 2020
Valentina Romanzi
Dottorato in Studi Umanistici Transculturali
Università di Bergamo

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Spaesamento

Il dépaysement, ha osservato Claude Lévi-Strauss (2015: 110), è un’esperienza fondante dell’antropologia culturale.  Lo straniamento che emerge dal confronto con altri modi di essere uomini e donne in società porta a denaturalizzare istituzioni, comportamenti e abitudini che sembravano ovvi ai nostri occhi. In questo senso, il viaggio attraverso le apparenti stranezze degli altri è la via più breve per riflettere su noi stessi (Remotti 1990). Quando però lo spaesamento affiora nel cuore stesso di ciò che ci è più familiare, è come se i fili che tessono la trama invisibile della quotidianità si logorassero sino a renderla irriconoscibile.

Le misure imposte per limitare il contagio da SARS-CoV-2 hanno segnato uno spartiacque tra quanto in precedenza era ritenuto consueto e scontato e la situazione attuale in cui, mentre l’Italia entra tra speranze e timori nella cosiddetta “fase due”, la possibilità di una prossimità diffusa in un certo senso pare «cosa arcana e stupenda» (1) .


A Sesto San Giovanni, da dove scrivo, lo stacco tra un “prima” e un “dopo” ha preso anche la forma di una frattura sonora: per più di un mese il rumore pressoché incessante del traffico è stato sostituito da un silenzio interrotto con una triste frequenza dalle sirene delle ambulanze e dagli elicotteri della polizia. Un cambiamento così drastico nel paesaggio sonoro (2) della città forse è paragonabile solo a quello avvenuto nel 1995, quando la sirena che lungo tutto il corso del Novecento aveva segnalato il cambio di turno presso le acciaierie Falck è stata spenta in seguito alla chiusura degli stabilimenti (3).

Allora la brusca interruzione di quel suono usuale sancì in modo inequivocabile che un mondo era finito; oggi lo scarto ha rappresentato una parentesi, e il rumore delle macchine è tornato a essere un sottofondo costante. Eppure, mentre il dibattito pubblico si polarizza attorno alle posizioni di chi sostiene che ora cambierà tutto (in meglio o in peggio) e di chi è convinto che non cambierà nulla (4), rimane ben salda la dolorosa consapevolezza sia del difficile momento storico che stiamo vivendo sia della cesura che ci ha spinto a guardare con sospetto quello che reputavamo domestico e familiare (luoghi, persone, lo stesso mondo esterno nel suo complesso).

Nelle pagine dedicate allo studio delle apocalissi culturali, Ernesto De Martino (2002) ha parlato del disfacimento della domesticità del mondo come di una destrutturazione progressiva dello sfondo di ovvietà non problematizzato che permette di agire efficacemente all’interno di un mondo culturale. La banalità del quotidiano dipende da un «felice oblio» di tale sfondo; quando questo si incrina, rischia di svanire un intero orizzonte di operabilità (ibidem: 644) (5). Un certo grado di automatismo e di ottundimento, come ha sottolineato Francesco Remotti (2011: 229), è indispensabile per ridurre l’arbitrarietà di un modello culturale, ma al tempo stesso ne riduce la densità e lo spessore poiché sottrae le idee di cui il modello si sostanzia alla critica e alla contestazione. 

Lo spaesamento che accompagna questo tempo incerto, se da una parte ha destrutturato alcune trame stereotipate della nostra esperienza quotidiana, dall’altra ha contribuito a porre in questione attitudini e disposizioni tacite che raramente erano state rese oggetto di una riflessione così esplicita. Il disfacimento di un orizzonte domestico potrebbe quindi costituire una occasione per accrescere la consapevolezza degli elementi cardine che lo sostenevano, esponendoli a un potenziale ripensamento  (6).
La limitazione delle libertà individuali imposta per la tutela della salute pubblica, ad esempio, ha indotto a interrogarsi su quello a cui si è disposti a rinunciare in nome del desiderio di sicurezza e a riflettere su ciò che distingue un’esistenza qualificata dalla mera sopravvivenza (7). La discussione sul binomio libertà/sicurezza non ha coinciso soltanto con una disamina dell’attuale stato di eccezione, ma ha anche riguardato una possibile estensione di quest’ultimo nel tempo. Tuttavia, nei discorsi sulla libertà sono stati talvolta riprodotti in modo più o meno consapevole stereotipi di stampo nemmeno troppo vagamente orientalista sulla presunta differenza tra un’Asia in cui i cittadini sarebbero pronti ad accettare forme di sorveglianza e di controllo sociale e un Occidente dove interventi lesivi dei diritti individuali e della privacy risulterebbero insopportabili (8).


Il disorientamento di fronte a un virus percepito come un nemico da combattere ha fatto emergere la nostra difficoltà a riconoscere le interdipendenze che ci legano agli attori ambientali e ha stimolato interventi che, ribaltando la retorica del virus invasore, hanno preso in esame la connessione tra deforestazione e intensificazione dell’agricoltura industriale da un lato e rischio di sviluppo e diffusione di agenti patogeni dall’altro (9). Questi interventi hanno permesso di mettere in luce processi sociali ed economici che, se trascurati, avrebbero considerevolmente ristretto lo sguardo sulla pandemia e sul suo impatto.

Lo sconcerto provocato dai pareri non sempre concordi degli epidemiologi ha portato all’attenzione questioni sollevate nell’ambito degli studi di sociologia della scienza quali la natura della produzione della conoscenza scientifica e il grande lavoro di fabbricazione, discussione e composizione che occorre per giungere a una qualche certezza in materia di fatto (Latour 2004: 178). Inoltre, riflettere sul rapporto tra “esperti” e decisori politici ha spinto a tematizzare la posizionalità storica e sociale delle conoscenze e a rendere esplicito che le domande di ricerca non sono indipendenti dai contesti socio-culturali che le hanno prodotte.

La pandemia potrebbe dunque rappresentare uno di quei periodi tumultuosi in cui i legami tessuti nell’uso comune delle cose (gli accordi interiorizzati su ciò che costituisce una “vita buona”, i modi di produzione, la visione della scienza) si aprono a una potenziale ridefinizione o a una riconfigurazione parziale (Descola 2014: 383) se la sospensione del nostro cammino (10), avendo spezzato la «cieca furia del fare» (11), ci consentirà di tradurre le riflessioni sugli elementi fondativi e sulle implicazioni dei nostri modelli economici e culturali in un confronto plurale su ciò che riteniamo socialmente desiderabile. La capacità di aspirare infatti, come ha sostenuto Arjun Appadurai (2014: 397), trae la propria forza da sistemi di significati e valoriali specifici.

Il rischio, tuttavia, è che le lacerazioni inferte al tessuto sociale, accentuando drammaticamente la vulnerabilità di chi si trova già in una condizione marginale, rendano un possibile ampliamento di orizzonti immaginativi una prerogativa di una élite intellettuale. Sebbene l’antropologia abbia posto spesso l’accento sulla creatività culturale e sull’agency di gruppi in condizione di marginalità sociale ed economica, la prospettiva di un riscatto dalla crisi passa (anche) dal riconoscimento del suo impatto ineguale sulle vite delle persone.

Note

(1) Così il coro dei morti definisce la vita nel «Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie» contenuto nelle Operette Morali di Giacomo Leopardi (2008: 337). (2) Il paesaggio sonoro può essere considerato parte integrante della quotidianità di una determinata comunità: è infatti intimamente connesso alla sua organizzazione sociale, ai suoi sistemi di produzione e ai suoi strumenti di comunicazione (Bordone 2002: 134). (3) A partire dal 2004 la sirena ha ripreso a suonare simbolicamente ogni giorno alle 12, ma lo scorso anno è stata definitivamente spenta. Secondo alcuni ex operai, è come se fosse stato silenziato un elemento cruciale nel tenere viva la memoria delle conquiste collettive dei lavoratori. (4) Si vedano, a titolo di esempio, gli auspici dell’avvento di una nuova forma di comunismo o di un nuovo stato sociale, le preoccupazioni per possibili svolte autoritarie e gli inviti a non confondere la spettacolarità di un evento con la sua significazione storica. (5) L’idea del non annunciarsi del mondo come condizione di possibilità perché gli enti risultino utilizzabili senza suscitare sorpresa è stata trattata diffusamente da Martin Heidegger in Essere e Tempo (2010). De Martino (2002: 668) prende però le distanze dal filosofo tedesco scegliendo di considerare non l’essere bensì il dover essere come fondamento dell’esistenza umana. (6) “Ripensare”, è stato notato, è in effetti uno dei verbi che più ricorrono nei discorsi orientati al prossimo futuro. (7) Questo è avvenuto soprattutto sulla scia degli interventi molto dibattuti di Giorgio Agamben. (8) Una visione dicotomica discussa criticamente qui, per esempio. (9) La necessità di una transizione ecologica è stata espressa in numerosi articoli. Questo, tra gli altri, problematizza apertamente l’impianto su cui si è edificata la nostra normalità. (10) La possibilità di sospendere il cammino è stata definita da Lévi-Strauss (2013: 439) come uno dei maggiori benefici concessi agli uomini in quanto permetterebbe di trattenere l’impulso che li costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la propria opera mentre chiudono la propria prigione. (11) Un’espressione utilizzata da Theodor Wiesengrund Adorno in un aforisma di Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (2011: 185). Nel medesimo aforisma Adorno scrive: «L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un’insaziabilità sbuffante, della libertà come superattività, attinge a quel concetto borghese della natura che ha servito sempre e soltanto a sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternità» (ibidem: 184).

Riferimenti bibliografici

Adorno, Theodor Wiesengrund, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 2011 (ed. or. Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1951).

Appadurai, Arjun, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014 (ed. or. The Future as A Cultural Fact: Essays on the Global Condition, Verso, New York 2013).

Bordone, Renato, Uno stato d’animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale italiano, Firenze University Press, Firenze 2002. 

De Martino, Ernesto, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, ed. a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002.

Descola, Philippe, Oltre natura e cultura, SEID, Firenze 2014 (ed. or. Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005).

Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2010 (ed. or. Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Halle 1927).

Latour, Bruno, Politics of Nature. How to Bring the Sciences into Democracy (ed. or. Politiques de la nature. Comment faire entrer les sciences en démocratie, La Découverte, Paris 1999).

Leopardi, Giacomo, Operette Morali, BUR, Milano 2008.

Lévi-Strauss, Claude, Tristi Tropici, il Saggiatore, Milano 2013 (ed. or. Tristes Tropiques, Plon, Paris 1955).
̶  Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 2015 (ed. or. Anthropologie structurale, Plon, Paris 1958).

Remotti, Francesco, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
̶   Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari 2011.

Milano, 12 maggio 2020
Amina Bianca Cervellera
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

Il presente contributo è stato scritto da Amina Bianca Cervellera e raffinato grazie alla revisione dei suoi colleghi di dottorato nell'ambito del Laboratorio di Scrittura realizzato dal DACS. Il testo intende rappresentare la seconda voce di un "Piccolo dizionario antropologico della pandemia", finalizzato a interpretare l'attualità attraverso concetti chiave della disciplina. 

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Tabu

Nel corso della sua esistenza, l’antropologia sociale e culturale ha elaborato innumerevoli concetti per permettere la comprensibilità dei fenomeni sociali che caratterizzano gli esseri umani. Le infinite varianti in cui le società umane si sono organizzate e in cui hanno pensato sé stesse, hanno generato il bisogno di proporre numerose teorie, le quali si sono rivelate, tuttavia, spesso tanto specifiche quanto effimere. Classificazioni che parevano auto evidenti e certezze teoriche apparentemente inamovibili, si sono velocemente susseguite una dopo l’altra in una disciplina che ha a lungo faticato a trovare stabilità teorica. E nonostante ciò, sarebbe a mio avviso un errore rifugiarsi in solipsismi autoflagellanti che dichiarano l’impossibilità della pratica etnografica o l’inutilità tout court delle teorie antropologiche. Ma ben prima di me Eric Wolf (1990) espresse queste idee meglio di quanto possa fare io e con parole che mi paiono tuttora attuali. Per questo lascerò che parlino per me riportandole qui:

“I think that the world is real, that these realities affect what humans do and that what humans do affects the world, and that we can come to understand the whys and wherefores of this relationship. We need to be professionally suspicious of our categories and we should be aware of their historical and cultural contingencies; we can understand a quest for explanation as approximations to truth rather than the truth itself. But I also believe that the search for explanation in anthropology can be cumulative; that knowledge and insights gained in the past can generate new questions, and that new departures can incorporate the accomplishments of the past.” (enfasi mia).

E’ sulla base di questo assunto che ritengo opportuno guardare a concetti passati dell’antropologia per aiutare a comprendere un’attualità sfuggente e drammatica. Ovviamente sarà necessario concedere una certa licenza poetica per stirare fin quasi al punto di rottura concetti creati per ambiti a volte profondamente diversi da quelli in cui si tenterà di applicarli. Ma gli orizzonti di pensabilità dischiusi dall’uso di idee quasi dimenticate, potranno forse aiutare a ordinare un reale opaco e in rapidissimo riassestamento.

Il concetto che propongo qui di maltrattare, costringendolo in un contesto apparentemente estraneo a quello della sua origine, è quello di Tabu: un oggetto (materiale o simbolico) interessato da interdizioni e attentamente normato, tanto da venire spesso reso intoccabile, a volte indicibile o addirittura impensabile. E’ chiaro come d’altronde concetti come questo non possano venire usati in modo ingenuo e acritico, quanto piuttosto come strumenti di ragionamento che tengano conto delle loro criticità e limitazioni (per una illustrazione introduttiva sull’origine e il contesto di costruzione del concetto di Tabu in antropologia, oltre che della sua organicità ad una visione evoluzionista e funzionalista, si rimanda a Pignato, 2001). Il motivo per il quale tale concetto mi pare interessante da rievocare in questi giorni di crisi sanitaria, è che vi sono diversi elementi del dibattito pubblico che sembrano rientrarvi abbastanza confortevolmente. Di alcune cose nell’attuale configurazione socio-storica, è impossibile, o molto difficile, parlare pubblicamente. E questa impossibilità genera delle ellissi nella spiegabilità dei fenomeni drammatici in cui siamo immersi, fortemente caricati di un’emotività collettiva, costretta a trovare oggetti alternativi su cui posarsi. Ciò che vorrei quindi fare è proporre una breve serie di temi che mi pare di aver individuato come possibili candidati per successive indagini nel tema dell’emersione o della soppressione dell’indicibile.


Uno di tali oggetti, fortemente ritualizzato e stilizzato nel discorso pubblico, e pertanto quindi anche sterilizzato dalle conseguenze radicali che una sistematica risoluzione richiederebbe, è quello delle relazioni con la post-colonia. I paesi del terzo mondo continuano a venire intesi come luoghi di un’umanità qualitativamente diversa, in cui quasi un milione di morti all’anno per dissenteria risultano pensabili come normali. L’epidemia corrente, che ha colpito per prima le aree centrali del sistema capitalistico mondiale, ha per un istante catapultato almeno in parte quel centro nella realtà quotidiana della periferia. Eppure lo shock della tragedia decisamente reale che stiamo vivendo, invece di dimostrare l’inaccettabilità universale di ciò che altrove si avvicina alla normalità, sembra nuovamente negare un comune statuto di umanità ad alcune parti del mondo, rimarcando implicitamente la frattura artificiosa tra un noi ed un loro ai quali in fin dei conti si potrebbe applicare, e si è a lungo applicato, una diversa categoria di ciò che è moralmente accettabile.

Un altro oggetto messo tra parentesi è stato quello di classe: concetto che pareva ormai neutralizzato dalla sua carica conflittuale, dichiarato morto, ma che riemerge nel momento in cui si riscopre la rilevanza della stratificazione di lavori (e di lavoratori) ritenuti essenziali o meno. La soppressione di tale tema, parzialmente ribaltata da azioni di contestazione collettiva quali sono stati i numerosi scioperi (in Italia, ma anche nel resto del mondo) durante l’epidemia, impedisce di individuare i luoghi di un contagio che continua a mietere vittime, generando quindi il bisogno di trovare in sparuti corridori solitari i nuovi colpevoli, untori (o, per connettersi con un altro termine antropologico classico, stregoni?) su cui dirigere un dolore sociale soverchiante.

Ulteriore tema che propongo, caro alla tradizione marxista anche in antropologia, è quello della produzione. Apparentemente scomparsa dal discorso pubblico, scopriamo solo in queste settimane la sua centralità nella letale mancanza di oggetti materiali come mascherine e ventilatori, ma anche di sparute dosi di antivirali sperimentali come il Remdesivir e di inibitori JAK e dell’interleukina-6. Questi oggetti acquistano un valore d’uso inestimabile e divengono oggetto di relazioni di dono e reciprocità spesso non disinteressati (altri termini classici dell’antropologia), sul piano di comunità immaginate collettive (ma capaci di esercitare un’azione sul mondo decisamente reale), come case farmaceutiche e istituzioni pubbliche, in cui le prime donano, all’implicito prezzo di enormi risparmi in termini di sperimentazione, le proprie scorte di medicinali per uso compassionevole (il termine indica tecnicamente la possibilità di somministrare farmaci sperimentali a casi in pericolo di vita).

Infine vorrei aggiungere un aspetto che ultimamente mi sembra stare riacquistando forza: quello di un fascismo strisciante che non sembra essere mai morto in un paese che, al contrario di altri vicini europei come Germania o Spagna, non ha mai tagliato i ponti genealogici con quell’eredità (il che non toglie che simili processi di riemersione di organizzazioni di estrema destra non stiano avvenendo anche in tali paesi e nel resto d’Europa, vedi Gingrich & Banks 2006 e Kalb & Halmai 2011). Non ci si vuole riferire qui a vaghe idee di fascismo interiore o ur-fascismo che rischierebbe di trasformare chiunque in una camicia nera (né alla possibilità improbabile di un suo ritorno), ma al fascismo reale, istituzionale e sostanziale, che non ha mai abbandonato parti di una classe dirigente italiana in continuità tra prima e dopo la seconda guerra mondiale. Se è indubbio che il regime democratico-liberale del dopoguerra è stato ed è tuttora molto distante da quello fascista del ventennio, è anche vero che modalità di governo e di gestione della cosa pubblica italiana hanno mantenuto in alcuni casi una notevole continuità (si pensi ad esempio al breve intervallo del governo Tambroni), pur vigendo una cancellazione formale della parola “fascismo” al suo interno. Sarebbe necessario forse indagare come fenomeni di adorazione di massa (anche esplicitamente erotica) di figure leader del contesto politico italiano siano collegabili con tale continuità. Sarebbe forse anche necessario capire se l’impossibilità di esplicitare le cause sistemiche materiali della tragedia sociale che stiamo vivendo concretizzino un rischio di generare nuove adesioni a narrazioni escludenti. Tale tragedia infatti, sembra esplicitare un dramma sociale (Turner 1957), con le annesse accuse di responsabilità stregoniche di forze che agiscono a distanza (spaziale quanto logica, nei termini di quelle ellissi di spiegabilità di cui sopra) in un “conflitto […] endemico nella struttura sociale”, ben distante però nel nostro caso dalla funzione di rimarcare “l’unità del gruppo” (ibidem: 129), a meno che per gruppo non si intendano parti sociali specifiche (in termini partitici e di classe) con interessi altrettanto specifici.  In particolare ci si potrebbe chiedere se, con la probabile lunga coda di questa crisi, la possibile catastrofe epidemica (che rischia di diventare molto peggiore nel sud del mondo che non nei paesi del centro) potrà causare l’attribuzione di responsabilità di nuovi contagi a persone provenienti da tali aree. Attribuzione di responsabilità che rischiano di aggregarsi lungo linee di ragionamento ormai divenute senso comune, relative all’attribuzione di appartenenza e alienità, anche grazie a quelle tabuizzazioni degli aspetti sopra elencati. D’altronde ciò si è già visto brevemente poco prima dell’esplosione pandemica con i numerosi attacchi xenofobi verso persone semplicisticamente identificate come orientali. In effetti l’indice di gradimento dei leader politici italiani crescono sia per il premier Giuseppe Conte che per Giorgia Meloni (quest’ultima dalle simpatie e genealogie ideologiche piuttosto chiare), il cui partito ha assistito ad una recente importante crescita di consensi. Un’enfasi sulla salute pubblica e la protezione dei cittadini potrebbe paradossalmente dar forza infatti a parti sociali mai sopite che si giovano di quei non detti di cui si diceva sopra, pur riconoscendo difficile una loro nuova egemonia. Nondimeno, seguendo l’esempio di interessanti e recenti studi di antropologia su movimenti di estrema destra (vengono alla mente, tra le altre Cammelli 2015 e Pasieka 2019, ma anche Holmes 2000 e 2019) e le condizioni del loro emergere, gli spunti qui indicati possono forse aprire piani d’indagine per la nuova congiuntura che si va in questi mesi aprendo.

Bibliografia

Cammelli, G. Maddalena. 2015. Fascisti del terzo millennio. Per un'antropologia di CasaPound. Ombre Corte Editore.

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Milano, 11 maggio 2020
Andrea Tollardo
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)
Università di Milano Bicocca

Il presente contributo è stato scritto da Andrea Tollardo e raffinato grazie alla revisione dei suoi colleghi di dottorato nell'ambito del Laboratorio di Scrittura realizzato dal DACS. Il testo intende rappresentare la prima voce di un "Piccolo dizionario antropologico della pandemia", finalizzato a interpretare l'attualità attraverso concetti chiave della disciplina. 

Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.