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La festa è finita? // FASE 2 [STUDENTS' CORNER]

In questo periodo, si parla tanto, anche troppo (e a sproposito), di sospensione del tempo o di interruzione della normalità. Se gli studi su certe questioni avessero l’autorevolezza che gli spetta, in pochi potrebbero esprimersi. Ad oggi, sembra però che ormai ognuno abbia il diritto di fare di temi così importanti e complessi materia da talk show, da chiacchiericcio tra amici in video-call o su You Tube. E di questo, noi, ce ne dispiacciamo.
A tal proposito, inizierei dal dimensionamento del mio stesso intervento: non è nient’altro che una riflessione libera su tematiche che l’attualità ci porta ad affrontare; uno spunto per un dibattito costruttivo che, naturalmente, lascio fare a chi ne ha gli strumenti adatti.

Credo che questa sospensione di cui tutti parlano sia una condizione che realmente sussiste: ognuno, o quasi, ha stravolto le vecchie abitudini, ha smesso di incontrare le persone che facevano parte della vita personale e pubblica, ha imparato a scandire diversamente il tempo della quotidianità. Senza dubbio, la vecchia normalità non può essere più la stessa. A partire da questo, credo che si debba fare doverosamente una distinzione quasi semantica di alcuni concetti che vengono solo formalmente espressi nella stessa maniera: esiste questa sospensione momentanea e universale che rallenta e frammenta i nostri giorni, ma esiste – concettualmente e accademicamente – già ancor prima la liminarità. Qui si gioca lo scarto semantico dove, a parer mio, non si dovrebbe far confusione. Chi parla di sospensione della pratica abitudinaria oggi si riferisce generalmente alla privazione di un caffè al bar, o alla rinuncia ad un allenamento in palestra o, ancora, all’obbligo di lavorare da casa. Il concetto antropologico di tempo liminare, invece, è assai complesso; riguarda le dinamiche del rito di passaggio, rientra nelle regole che costituiscono il rito religioso, e si colloca tra le righe che definiscono la pratica della festa.


Silvano Petrosino ha raccolto una serie di interventi di alcuni studiosi a margine di un seminario in un volume dal titolo La festa. Raccogliersi, riconoscersi, smarrirsi; qui il concetto di “uscita dal quotidiano” viene sviscerato e collocato nei significati che l’antropologia ci aiuta ad elaborare. Con un esempio di questo tipo, spero di sottolineare la differenza che sta alla base dell’enunciazione di certe funzioni sociali: la sospensione nella nostra stretta attualità è un fatto ampio, superficiale e palpabile, quella antropologica, invece, riguarda degli sviluppi culturali che si esprimono sotto varie forme sociali che perdurano nel tempo (dalla preistoria alla contemporaneità). La festa di Petrosino – quasi al contrario rispetto alla definizione inflazionata – riguarda l’incontro tra le persone, si fa espressione di legame tra uomini tramite l’istituzione di momenti collettivi di “evasione dall’ordinario”.  Se oggi la sospensione è imposizione, sacrificio, in quel caso è tregua. Si tratta di prendersi il “tempo” necessario per la rottura momentanea delle regole sociali e delle logiche sui legami; sorprendentemente, questa sovversione delle norme porta anzi al rafforzamento delle regole e dei legami stessi. Il rito, e la festa, stravolgono la socialità normalmente condivisa, la portano temporaneamente su terreni che prevedono diverse strutture e diversi dettami, per poi riportarla indietro più forte di prima.  Leed ci propone l’esperienza liminare nelle vite dei soldati in guerra (Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale); anche qui la quotidianità è stravolta dall’improvviso ritrovarsi nella “terra di nessuno”, con la separazione dal luogo abituale, la collocazione del guerriero (o festante, o passeggero) come dimorante tra due stati, e la riaggregazione o ricongiungimento.


Questa è il percorso antropologico della sospensione. È quello che conosciamo, ed è quello che deve sopravvivere. Ecco, nelle “proiezioni sul mondo che verrà” ci facciamo carico di alcune responsabilità; in queste riponiamo anche un accenno di speranza e di fiducia.
Nella fase 2 o 3 o 4 che sarà: la festa non deve finire. L’antropologia, gli studi culturali, dovranno preservare, conservare e divulgare i percorsi di comprensione che sono riusciti a tracciare. La sospensione non sia mai una frivolezza; certi temi sono propri dell’antropologia e dell’antropologia dovrebbero rimanere. Su questo dobbiamo lavorare nel mondo che verrà. La semplificazione non è la strada giusta.Nel mondo che verrà, appunto, certe discipline come l’antropologia dovranno impegnarsi per mantenere nel proprio tono quella autorevolezza che, in certi casi, pare quasi venga meno.

Bologna, 19 maggio 2020
Diego Liaci
Corso di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia
Università di Bologna

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