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Note etnografiche dalle Cure Primarie e Territoriali // FASE 2

Come ci muoveremo nel “dopo”? Che cosa erediteremo da queste settimane? In quale forma restituiremo le emozioni, i racconti e le azioni che stiamo intercettando giorno dopo giorno, presi dalla frenesia di tenere traccia di tutto ciò che sta accadendo? Iniziamo con queste domande una delle ultime riunioni virtuali tra le numerose di questo periodo, accompagnati da un senso di incertezza ormai costante. L’obiettivo che ci siamo prefissati è quello di trattenere le narrazioni di questo momento, mantenerle come se fossero ancore.
In quanto antropologhe e antropologi della Campagna Nazionale “Primary Health Care Now or Never” già da tempo ci interroghiamo su quale possa essere il nostro ruolo all’interno delle Cure Primarie e Territoriali e su quali competenze sia necessario mettere in campo. Un’esigenza che in questo momento sentiamo più vicina che mai e che ci muove, assieme al desiderio di sentirci in qualche modo utili, presenti e uniti. Per questo oggi proviamo a raccontarvi l’esperienza che stiamo vivendo e che, secondo noi, sta lasciando affiorare alcuni spunti fertili per immaginare e costruire insieme il mondo che verrà.



La Campagna PHC Now or Never: cenni storici

La Campagna PHC è nata alla fine del 2017 da un nutrito gruppo di giovani professioniste e professionisti della salute attivi sul territorio nazionale, con l’obiettivo di promuovere una riforma dell’assistenza socio-sanitaria basata sui principi della Primary Health Care di tipo Comprehensive (C-PHC). Sulla scia della Dichiarazione di Alma Ata (1978), del World Health Report (2008) e della più recente Dichiarazione di Astana (2018), la C-PHC propone un approccio integrato (assieme promotivo, preventivo e curativo), centrato sul paziente, sulle sue relazioni significative e le comunità di cui è parte. I programmi ispirati alla C-PHC mirano a tessere assieme l’approccio clinico, incentrato sulle dimensioni biologiche della malattia, con interventi improntati ad interferire con la determinazione sociale della salute. Per tener conto delle specificità di ogni contesto geografico, economico e sociale, si stabilisce un confronto attivo con il territorio, per scoprirne e valorizzarne le diverse risorse, formali e informali. In un’ottica di cooperazione e di sostenibilità, si negozia con gli attori comunitari per costruire reti di assistenza. La C-PHC è quindi una strategia per strutturare la cura territoriale in maniera politicamente impegnata, proattiva, attenta all'equità e che si articola mediante azioni multi-professionali, interdisciplinari, orizzontali e partecipate (cfr. Abadía-Barrero e Bugbee, 2019).
La sfida posta dalla C-PHC può essere colta guardando al progressivo aumento delle cronicità e delle fragilità sociali che il modello sanitario attuale, basato sull’ospedale, non è in grado di affrontare. Per questo, nei suoi due anni di vita la Campagna si è mossa principalmente su due fronti. Il primo è quello dell’autoformazione, attraverso l’organizzazione autogestita di seminari, workshop e site visit presso diverse realtà italiane basate sul modello di C-PHC (fra le diverse realtà italiane visitate, nel 2018 la Campagna si è riunita a Trieste per conoscere da vicino l’esperienza delle Microaree, cfr. Belluto, Benedetti, Pecora e Occhini in Maciocco, 2019). Il secondo invece consiste nel portare all’interno del proprio contesto quanto appreso, mettendo in atto a livello locale “pratiche di cambiamento”, volte a costruire forme di prossimità con le comunità e a promuovere la formazione trasversale dei professionisti (prima, durante e post laurea).
Come Campagna, oltre agli appuntamenti in presenza, ci confrontiamo quotidianamente su un canale Whatsapp che include ormai più di cento persone. Spesso ci organizziamo in sottogruppi tematici, per lavorare a proposte progettuali e approfondimenti.

La Campagna PHC ai tempi della pandemia

A partire dalla fine febbraio, il nostro spazio virtuale si è trasformato: il telefono suona in continuazione, ci svegliamo la mattina con un’infinità di messaggi non letti, i gruppi non bastano più, dobbiamo allargarci, sentiamo la fretta e l’esigenza di includere altre persone. Sono specialmente i Medici di Medicina Generale (MMG) a scrivere. Alcuni di loro vivono nelle zone rosse, altri hanno iniziato a lavorare nelle USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale nate per la gestione domiciliare dei pazienti Covid-19. Scrivono perché vogliono sapere cosa succede nelle altre regioni, sentono il bisogno di confrontarsi sulle strategie elaborate per la gestione dell’emergenza, oltreché di condividere le difficoltà e le preoccupazioni che stanno vivendo.

“Chi risponde alle decine e decine di telefonate e mail?”
“Nel vostro caso la valutazione del paziente è telefonica o tramite visita?”
“Ho fatto un registro, li monitoro telefonicamente. Accetto di stare nove ore al telefono al giorno”.
“Provo a specificare meglio la mia fatica di questi giorni: riceviamo quotidianamente (come MMG) telefonate di pazienti con sintomatologia simil influenzale. Come ci comportiamo? […] Confrontandoci con l’Ufficio di Igiene abbiamo definito insieme questi percorsi, che condivido volentieri con voi (vi state comportando diversamente?)”.
“Quello che vorrei capire è se qualcuno si rende conto che il nostro ruolo è importante, e se abbiano dato un indirizzo agli MMG in tal senso”.
“Mi sto accorgendo che la conclusione ulteriore delle nostre riflessioni è… ABBIAMO BISOGNO DI DPI [Dispositivi di Protezione Individuale] SUL TERRITORIO”.

Questi sono solo alcuni dei messaggi che riempiono la nostra chat ogni giorno, in cerca di possibili consigli e di supporto. “All’improvviso, la mattina del 9 marzo ci siamo svegliati e tolti i corpi c’era il telefono” ci racconta Viviana, una dottoressa che lavora a Cagliari, mentre insieme proviamo a riordinare le esperienze di queste ultime settimane. Mancano indicazioni, non si sa bene chi contattare, non si capisce come proteggersi e proteggere adeguatamente, in quale modo visitare i pazienti a domicilio. Non si è formati per un triage telefonico ma è necessario essere operativi. Si sente soprattutto la mancanza, da parte delle istituzioni, di una linea comune di intervento, per evitare di ripetere errori già commessi.
Per rispondere a questa esigenza abbiamo creato insieme delle brevi guide in costante aggiornamento, per accompagnare i medici sul territorio e monitorare la gestione dei casi Covid-19 a domicilio. Nascono così, fra i molti materiali, anche delle flowchart (diagrammi di flusso), utili a orientare la decisioni e le scelte clinico-organizzative; un testo sul monitoraggio e le indicazioni dei possibili quadri clinici; un protocollo di gestione domiciliare dei pazienti vulnerabili o con patologie pregresse. Il materiale al quale facciamo riferimento è qui disponibile. Le proposte redatte dalla Campagna PHC intendono essere un supporto per i professionisti sanitari che in questa fase di emergenza lavorano sul territorio: necessitano di essere contestualizzate nelle singole realtà territoriali e possono essere utilizzate previa autorizzazione delle Ausl locali o enti sanitari di competenza.

Man mano che proviamo ad orientarci nel caos frammentato di informazioni per affrontare questa pandemia, sempre più vengono a galla particolari degni di attenzione, i non-visti del quotidiano. Emergono bisogni che erano rimasti sottesi, appena percettibili, e che ora si fanno evidenti. L’isolamento crea e alimenta nuovi bisogni e ne rende poco riconoscibili altri; aumenta le disuguaglianze e l’emarginazione sociale. Il vuoto che si trova fuori dagli ospedali rinnova la consapevolezza della necessità di avere una medicina di famiglia radicata sul territorio (e parte di quel territorio), basata sul lavoro multidisciplinare e di rete, capace di mobilitare le risorse formali e informali. “Conosci il luogo che abiti?” è il mantra che permette di fare la differenza e di sentirsi meno soli.
Salta la prossimità, saltano gli ospedali, aumenta il controllo sociale e l’incertezza. Crescono anche l’ansia e il senso di colpa degli operatori: per non poter fare abbastanza, per aver ospedalizzato o meno un paziente, per essere potenziali veicoli di contagio per gli altri e per i propri cari, per essere compagni, genitori, figli o amici poco presenti.



Storie Covid nelle Cure Territoriali

Tra le diverse iniziative che sono state avviate, come team antropologico della Campagna PHC (insieme a Valerio D’Avanzo e Francesco Diodati) ci siamo fatti promotori di “Storie Covid nelle Cure Territoriali”. Si tratta di un progetto pensato per intercettare il bisogno di condivisione e confronto degli operatori (firmatari e non della Campagna) e per provare a offrire loro, in risposta, alcuni strumenti utili a “fare ordine” (possiamo essere contattati attraverso numeri Whatsapp, un gruppo Facebook e un indirizzo email: qui maggiori informazioni). La proposta nasce dalla convinzione che in queste settimane le nostre chat siano un campo preziosissimo e traboccante di risorse, sebbene gli scambi avvengano in modo fisiologicamente disordinato. In questo sfibrante navigare a vista, avvertiamo come nostro compito quello di supportare la creazione di saperi e significati condivisi in grado di donare senso a ciò che sta accadendo. Attenti a non perdere la complessità che giorno dopo giorno si va generando, a chi ci contatta chiediamo:

Come è cambiato il tuo lavoro nelle cure territoriali dall’arrivo del Covid-19?
Quali strategie hai messo in campo dal punto di vista lavorativo e personale?
Quali racconti, paure e riflessioni sono emersi da questa situazione?

Attraverso le narrazioni raccolte, l’obiettivo è quello di produrre un “diario di bordo” da restituire ai professionisti, una sorta di archivio delle narrazioni che possa, da una parte, far affiorare il carico di sofferenza che si dispiega oggi sul territorio e, dall’altra, supportare gli operatori nei loro tentativi di “addomesticare” la situazione (Freire, 1994). La nostra iniziativa si ispira infatti all’Educazione Permanente in Salute (e.g. Ceccim e Feuerwerker, 2004), una strategia sviluppata nel contesto brasiliano che, mediante la messa in dialogo di diverse discipline, mira ad aprire spazi collettivi per riflettere sugli atti prodotti nel proprio quotidiano e, a partire da questi momenti, ad attivare pratiche collaborative di formazione. Abbiamo quindi messo a disposizione le nostre competenze per mappare e raccogliere la grossa mole di informazioni di questi giorni , cercando di sostenere processi di (auto)apprendimento e di (self)empowerment utili ad affrontare questa crisi con maggiore resilienza.
Parallelamente, sempre nell’ottica di promuovere approcci interdisciplinari alla gestione dei problemi, per rendere fruibile la grossa mole di informazioni, materiali e link è nato GLOCARED (“Global-Local Center per l'Aiuto e la Ricerca Ecosistemica Divergente”). GLOCARED è un team multiprofessionale che coinvolge designers, informatici, esperti di scienza della cooperazione, professionisti sanitari e antropologi, impegnati nella progettazione di piattaforme sensibili ai bisogni di natura tecnologica rilevati. 


Le Cure Primarie che vogliamo (adesso!)

Come antropologhe e antropologi abbiamo vissuto queste settimane attraversando diverse fasi. In un primo momento, ci scoprivamo angosciati da un certo senso d’impotenza, dall’inadeguatezza dei nostri modi di guardare e dei nostri saperi, di fronte all’emergenza che si stava consumando. Mentre le nostre certezze si sfaldavano, ci confrontavamo tra noi, ci raccontavamo di come stessimo rimodulando i nostri progetti di ricerca e ci chiedevamo: che futuro può nascere dall’inaspettato?
La certezza che le Cure Territoriali dovessero essere differenti prendeva sempre più piede. Recluse, sofferenti e inascoltate durante il lockdown, le comunità sembrano più invisibili durante la pandemia. Una cura basata solamente sulla persona non è in grado di rappresentare il disagio che si sta vivendo sul territorio. La fragilità sociale e la cronicità non sono solo fattori clinici di cui tenere conto, bensì delle realtà di solitudine e abbandono. Realtà che la comunità è in grado di curare meglio di qualunque terapia.
Prendendo parte alle riunioni della Campagna, un’altra certezza diventa sempre più forte: la formazione in medicina non può più essere solo di natura biomedica. Se i corpi si volatilizzano e rimane il telefono, quali competenze possono mettere in campo i professionisti per offrire un supporto concreto, terapeutico e relazionale?
Non si può aiutare le persone a recuperare e a mantenere la salute senza comprendere le loro preoccupazioni, i loro bisogni e, soprattutto ora, le loro speranze per un futuro migliore. Il distanziamento sociale richiesto dalla gestione dell’epidemia deve allora trasformarsi in un allontanamento fisico in cui si riescano ad instaurare dei legami comunitari forti (per una discussione sul recupero della dimensione sociale nell’assistenza in tempi Covid-19 si veda Buffel, Doran, Lewis, Philipson e Yarker, 2020), dove curare e prendersi cura anche dei professionisti stessi, provati fisicamente ed emotivamente.
Forse una parte di tutto questo lo avevamo già in mente. Non a caso, gli incontri residenziali della Campagna che si sarebbero dovuti tenere in queste settimane avevano come titolo “Multidisciplinarietà e Primary Health Care: immaginare il futuro” (Firenze, 11-13 marzo) e “Le Cure Primarie che vogliamo” (Trento, 17-19 aprile 2020). Queste sono le Cure Primarie che vogliamo. E le vogliamo adesso, subito.

Bibliografia

Abadía-Barrero, C. E., Bugbee, M. (2019) Primary health care for universal health coverage? Contributions for a critical anthropological agenda, Medical Anthropology, Cross-Cultural Studies in Health and Illness, 38(5), 427-435.

Belluto, M., Benedetti, C., Pecora, N., Occhini, G. in Maciocco, G. (a cura di) (2009) Cure primarie e servizi territoriali. Esperienze nazionali e internazionali, Roma: Carocci Faber Professioni Sanitarie.

Buffel, T., Doran, P., Lewis, C., Phillipson, C., Yarker, S. (2020) Covid-19: Bringing the social back in, The Age of COVID-19, Somatosphere, on-line.

Ceccim, R. B., Feuerwerker, L. (2004) O quadrilátero da formação para a área da saúde: ensino, gestão, atenção e controle social. Physis: revista de saúde coletiva, 14(1), 41-65.

Freire, P. (1994) (ed. it. 2004) Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA, Torino.

WHO: World Health Organization (1978) Declaration of Alma-Ata, International Conference on Primary Health Care, Alma-Ata, URSS, Geneva (Health for All Series N° 1), on-line.

WHO: World Health Organization (2008) The World Health Report - Primary Health Care (Now More Than Ever), on-line.

WHO: World Health Organization and UNICEF (2018) Declaration of Astana, Global conference on primary health care, Astana, Kazakhstan, on-line.


Bologna-Uppsala, 30 aprile 2020
Campagna PHC – Primary Health Care: Now or Never
Martina Belluto, Dottorato in Scienze Umane - Antropologia della Salute, Università di Ferrara
Martina Consoloni, Dottorato in Storie, Culture e Politiche del Globale - Antropologia della Salute, Università di Bologna
Mirko Pasquini, Dottorato in Antropologia Culturale, Università di Uppsala (Svezia)

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Qui Perugia: sull’antropologia medica e le politiche (regionali) della salute

Molti anni fa abitavo in provincia di Napoli, ma ammiravo moltissimo la città di Perugia, dove oggi vivo. Non solo perché chi ci veniva poteva mangiare bene alla mensa comunale per poche lire, accanto a funzionari di amministrazioni diverse, a persone che vivevano in strada, a studenti e docenti universitari e a turisti di vario genere; non solo perché Edoardo Bennato, da Napoli, aveva cantato la prima scala mobile di una bella città dell’Italia centrale; non solo perché lo stereotipo del qui-si-fermano-al-semaforo-rosso corrispondeva a più dell’usuale cinquanta per cento di verità e neanche solo perché c’era la piscina pubblica o perché eravamo accolti da un abbraccio corale e rispettoso, sincero e franco, sobrio e mai scontato. Non solo. Pensavo sempre a Perugia per altri due motivi: il jazz e l’antropologia culturale.


Durante il festival “Umbria Jazz” a Perugia si poteva dormire nei sacchi a pelo per terra. Beh, forse proprio dappertutto no… in effetti ricordo che quando arrivammo in città all’alba di un giorno di luglio del 1982, io rimasi a dormire in macchina, il mio compagno di viaggio si distese in un portico libero. Ma in mattinata fu risvegliato da un vocione: – “Documenti!”, esclamò il carabiniere. Per poi chiedergli perché stesse dormendo sotto le arcate della prefettura.
Nel mese di gennaio di quell’anno avevo iniziato a Napoli a frequentare il corso di studio di Lingue e letterature straniere all’Istituto Universitario Orientale, allora si chiamava così, ed ero diventato allievo di Alfonso Maria di Nola (1926-1997), antropologo e storico delle religioni in quell’Ateneo. L’antropologia mi piaceva, di Nola allora lavorava al libro L’arco di rovo (che sarebbe uscito a Torino, per Boringhieri nel 1983), una lettura storico-culturale di alcune pratiche del corpo in Europa che andava ben oltre le forme otto-novecentesche della “medicina popolare” italiana ed europea. Al ritorno da Perugia gli chiesi una tesi di laurea sul male dell’arcobaleno: volevo sciogliere l’enigma di numerose tradizioni popolari europee del perché ti fai giallo se ci urini contro.

Nei primi anni Ottanta Alfonso M. di Nola ancora ammirava diverse persone importanti nel campo accademico italiano e tra coloro che ricambiavano stima e affetto c’era sicuramente Tullio Seppilli (1928-2017). Questi alla fine dell’anno successivo, a metà dicembre del 1983, da Perugia, aveva organizzato a Pesaro il Convegno internazionale Salute e malattie nella medicina tradizionale delle classi popolari italiane (dedicandolo alla memoria del suo maestro Ernesto de Martino) per il quale nell’ottobre del medesimo anno 1983 aveva pubblicato un numero monografico della Rivista “La Ricerca Folklorica” dal titolo La medicina popolare in Italia (n. 8), lasciando che di Nola lo aprisse con un saggio intitolato Questioni di metodo. Uomini straordinari, alla memoria dei quali manifesterò sempre la massima gratitudine. Poche settimane prima del convegno, Seppilli era stato a Napoli, all’Orientale, invitato a un ciclo seminariale del dottorato di ricerca che da studente seguivo, coordinato da Clara Gallini (1931-2017): la grande antropologa italiana in quel periodo insegnava alla facoltà di Scienze Politiche all’Orientale e nel 1983 stava pubblicando per l’editore Feltrinelli di Milano il celebre volume La sonnambula meravigliosa. Di Nola mi aveva detto di seguire con attenzione quella lezione. Fu il primo ponte che potei esperire tra i due, tra Napoli/Roma, città quest’ultima dove di Nola viveva, e Perugia, dove Seppilli abitava e lavorava. Tutti ci potemmo avvalere di quel sodalizio amicale e politico. A Perugia, come anche a Firenze, Seppilli aveva avviato un monitoraggio moderno e critico sulle forme, le pratiche e le figure di operatori della medicina popolare in Italia centrale. A Napoli, come già ad Arezzo, di Nola era andato rielaborando con originalità il modello gramsciano della cultura popolare e ora provava a interrogare su quello gli esponenti più aperti delle medicine democratiche italiane.



Questo ricordo è per me un modo di testimoniare il rapporto stretto fra antropologie mediche nascenti nell’Italia dei primi anni Ottanta del Novecento. Intorno alla capacità dialogante, istituzionale, operativa e trasformativa di Tullio Seppilli e insieme alla genialità profondamente colta, creativa, dialettica e critica di Alfonso M. di Nola si andava costruendo una libertà intellettuale e scientifica che puntava a unire il Centro e il Sud Italia, per disarticolare la nozione di “medicina popolare” e aprirla all’attualità dell’antropologia medica. Non senza uno sguardo critico alle politiche sanitarie nazionali. D’altronde all’antivigilia di Natale del 1978 era stata approvata dal Parlamento la legge n. 833 che istituiva il Sistema sanitario nazionale rendendo finalmente operativo l’articolo 32 della Costituzione repubblicana sul diritto alla salute. Come questo evento doveva interpellare le diverse antropologie italiane?

Ma cos’è l’antropologia medica? Diciamo che essa è lo studio sociale, culturale e politico, del corpo, dei processi di salute/malattia, delle diverse medicine praticate sul nostro pianeta, ivi compresa la presa in carico della cura nei sistemi democratici contemporanei. Di lì a poco con maggior forza, l’antropologia medica, in tanto che antropologia politica dei processi corporei, avrebbe studiato direttamente con il suo metodo etnografico il welfare sanitario, cioè lo stato sociale inteso come offerta pubblica ed egualitaria dei servizi sanitari moderni, che negli stati di diritto sono garantiti a tutte e a tutti le/i cittadine/i. Un campo di ricerca antropologica non solo sincronico, ma a suo agio tra passato e presente, del quale ancora oggi si colgono le feconde influenze anche sul piano operativo dell’uso sociale e formativo delle conoscenze prodotte.

Ma c’è un’altra questione molto importante: proprio in questo momento globale così drammatico che tutti stiamo attraversando in maniera analoga, stante la gravità della pandemia mondiale da Covid-19 che ci sgomenta, l’enormità della distanza che separa le regioni del Nord Italia da quelle del Sud Italia, e la funzione straordinaria del Centro Italia, tornano come diversificati nodi al pettine, tali da indurre allo svolgersi doveroso di più di una riflessione. La facciamo e la faremo, a caldo e a freddo.
In verità non è certo da ora che l’antropologia medica, in Umbria fondata e guidata da Seppilli fin dai primi anni Cinquanta del Novecento, ha aperto un fronte critico verso i recenti processi di aziendalizzazione dell’assistenza sanitaria, contrapponendosi a un declino complessivo della cura della salute pubblica che, pur analogo su tutto il territorio nazionale, non appare oggi pienamente omogeneo. Il regresso dello stato sociale in Italia è stato diverso da una regione all’altra sia nei tempi sia nei modi di attuazione della legge nazionale. Appare legittimo dunque interrogarsi sulle ragioni di tale mancata uniformità. E probabilmente, proprio alla luce di quel che accade, si potrebbe rilevare come in Italia centrale la resistenza di una pur residuale struttura a rete della cura sanitaria costituisca il tronco su cui innestare un nuovo futuro di rapporti sociali. E come in Italia meridionale, a causa del ridotto processo di industrializzazione, l’incidenza pandemica sia apparsa minore, laddove sembra avere attecchito in maniera più virulenta nei luoghi del Nord, in quelle aree periferiche e urbane che costituiscono veri e propri motori della nave industriale italiana. Rigetto certamente antichi stereotipi di razzializzazione del Sud e respingo con analoga forza improbabili quanto banali capovolgimenti della “questione meridionale” in “questione settentrionale”. Nondimeno credo sia legittima la seguente domanda: la resistenza di elementi connessi all’organizzazione sanitaria in area umbra può essere considerata una ragione valida per spiegare la diversa virulenza della pandemia da Covid-19 in atto?



Certamente vanno rilevate le motivazioni “oggettive” espresse nei termini di una componente demografica molto diversa e di una profonda distinzione nella mobilità umana sul territorio. Ad esempio tra Lombardia e Umbria. Ma tale oggettività può essere fatta oggetto di un esercizio critico? O si tratta di dati che non possono essere revocati in dubbio? Esiste una lotta per l’oggettività? Pongo questi interrogativi proprio per comprendere il ruolo che il discernimento può avere nell’analisi della pandemia che ci tormenta.

Vent’anni fa, l’allora governo di centro-sinistra italiano approvò una legge che modificava la Costituzione repubblicana conferendo alle singole regioni poteri federalistici nella gestione dell’assistenza sanitaria. Fu la famigerata legge che modificò il cosiddetto Titolo V della Costituzione. Oggi la principale forza politica che allora la portò a termine, il Partito Democratico, sembra fare ammenda. Da quel momento la missione del Ministero della Salute si andò significativamente modificando da “pianificazione e governo della sanità” a “garanzia di salute” per il cittadino, talora metaforica e spesso affidata alle competenze della singola persona.

Ora il Covid-19 ha causato troppi morti nel Nord Italia nel corso di questa pandemia per non porre queste domande. Ma la colpa non è solo del virus. Sono parimenti responsabili i tagli alla sanità pubblica determinati dalle scelte dei poteri di governo centrali e locali e la volontà di azzerare l’assistenza sanitaria di base messa in atto pienamente al Nord Italia grazie a quella legge. Specifiche scelte politiche ed economiche si sono andate sovrapponendo a dati oggettivi, ma è indubbia l’impressione che quel che resiste dei modelli di salute distrettuale e territoriale in Centro Italia sia anche esito dell’esperienza sociale di lungo periodo dei piani sanitari storici che hanno caratterizzato il welfare di quest’area culturale italiana. Ciò è avvenuto a dispetto della profonda erosione di quel modello beveridgeano che aveva prodotto nel secondo dopoguerra un nesso concettuale e operativo nazionalmente valido tra sanità e resistenza, collegando la salute alle lotte di liberazione dei popoli che caratterizzarono Italia ed Europa e che raggiunsero esito positivo nel 1948 allorché, anche grazie alla Costituzione italiana, si dimostrarono in grado di guidare un nuovo processo mondiale di istituzionalizzazione della pace.

L’Umbria non è stata certo estranea ai tagli governativi. Anzi, la sua sanità risulta falcidiata da una simile tendenza imposta da chi ha introdotto una commistione tipicamente italiana tra pubblico e privato fino a causare una vera e propria crisi del welfare. Nondimeno, l’Umbria sembra conservare i resti di una rete di sanità pubblica che almeno nella sua dimensione di memoria strutturale pare costituirsi come il frutto di scelte politiche passate che continuano, ancorché carsicamente, a resistere. La drastica riduzione del personale sanitario ha di certo determinato anche in questa regione rarefazioni, disuguaglianze ed erosioni del diritto alla salute sul territorio. Ma credo che occorra prendere atto della resistenza che il modello sanitario e sociale umbro, certo in crisi radicale e messo in mora dalle scelte di governi di destra e di sinistra, continua a mostrare.


«Lombardia ultima, Umbria prima» titolavano giorni fa i quotidiani chiedendosi quando vi sarebbe stato, e con quali differenze regionali, lo stop dei contagi. Sono titoli ironici che tuttavia espongono un problema reale: se gli spazi pubblici italiani costituiscono altrettanti laboratori (la nostra patria è un laboratorio politico internazionale permanente da secoli) quale esemplarità politica esprimono le singole regioni? Se si dovesse guardare al dibattito pubblico apparirebbe evidente che la Lombardia da molti decenni a questa parte ha costituito un laboratorio di livello europeo in cui si sono sperimentate le risposte neoliberiste più ciniche alla crisi. E questo nel quadro di uno statuto del lavoro reso volutamente precario, seppure attraverso strumenti legali che tuttavia nella nostra Costituzione hanno trovato sempre un baluardo di resistenza, al punto che questa, come ricordavo all’inizio, fu manipolata da leggi di cui solo ora ci si pente. Fin dai tempi della cosiddetta stagione di “Mani pulite” il capoluogo lombardo, Milano, è stato un esempio dello scontro tra diverse visioni della convivenza sociale. Da un lato la magistratura legalista, dall’altro la corruzione politica. E i dirigenti politici italiani di allora cosa fecero? Dopo un timido tentativo di difesa, essi rivendicarono la propria immunità, quasi come decenni prima era avvenuto nel lugubre discorso all’aula parlamentare giudicata “sorda e grigia”. Forse l’assemblea risultava troppo burocratica, ma certo non era il contesto adatto a evocare spettri di correità dell’intera classe politica. Ironia della sorte, oggi come allora, dalla corruzione al contagio, torna come luogo di partenza il Pio Albergo Trivulzio. Oggi che le “mani pulite” sono letterali e non più metaforiche, le residenze sanitarie assistenziali sono l’oggetto di nuove inchieste. Un gesto davvero incomprensibile quello di “nascondere” nelle RSA i casi iniziali di coronavirus, anche perché queste residenze per anziani non autosufficienti in Lombardia rappresentano affari milionari e pertanto sono l’oggetto di indagini permanenti. Come pure è incomprensibile quella pressione esercitata con successo da parte di Confindustria affinché i lavoratori continuassero a lavorare anche nelle numerose fabbriche di Bergamo. Mi rifiuto di comprendere la logica del profitto a tutti i costi. Anche quello della vita. Tutti possono andare sulla rete a verificare i dati attendibili, le lamentele, ad esempio, di cittadini ammalati come la dolente testimonianza di Veronica che si sfoga con il web, o i titoli che parlano di “disastro lombardo” da spiegare e che tentano di farlo. Mi viene in mente, certo dall’Umbria, che mentre il Veneto ha conservato la traccia territoriale di un rimasuglio di stato sociale, un barlume di welfare pubblico, la Lombardia è stata il laboratorio politico di un’operazione di smantellamento delle garanzie e dei diritti.

Credo che le vestigia del welfare in Umbria, così come i resti delle prassi culturali meridionali del paese, possano essere utili per ripartire. Si tratta di una dimensione sociale che c’è e si incarna nelle persone, nelle istituzioni e nel rapporto tra le due. Occorre dunque valorizzare questa capacità di esserci e di agire, è una presenza, individuale e collettiva. D’altronde abbiamo dalla nostra parte l’articolo 3 e l’articolo 32 della Costituzione. Sono testi importanti e vincolanti che non si potranno mai cambiare. Andiamo a rileggerli e cerchiamo di attuarli. Vi troveremo  i valori antichi che possono guidarci verso una forma radicalmente nuova di mutualità sociale.

Perugia, 28 aprile 2020
Giovanni Pizza
Università di Perugia

Giovanni Pizza è professore associato di antropologia medica e culturale presso l’Università degli studi di Perugia dove dirige la Scuola di specializzazione in beni demoetnoantropologici e la Rivista “AM. Rivista della Società italianadi antropologia medica”.
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.

Dall’anomalia al bisogno di significato [STUDENTS' CORNER]

L’epidemia del coronavirus è un evento anomalo rispetto al normale andamento della vita sociale. L’interruzione dell’ordinario scorrere del tempo pone l’uomo di fronte al problema del significato del suo universo culturale. Il disordine penetra nelle fessure semantiche della società e la smuove. Ed è proprio sul significato che questa epidemia assume nel suo contesto che, secondo me, è interessante interrogarsi.

Il coronavirus si inserisce nel contesto storico-ideologico dell’Antropocene, termine che, nato in seno alla geologia, arriva a sintetizzare la diffusa sensibilità ambientale dell’uomo occidentale contemporaneo. Il rapporto dell’uomo con la natura è un tema che pervade ormai la società ed emerge non solo da molti prodotti della nostra cultura (arte, media, politica…), ma dalla nostra stessa concezione degli eventi. E così anche questo virus appare come una conseguenza degli abusi ambientali.

Prescindendo dalle effettive cause del virus (che comunque vengono presentate in quest’ottica, ma io non sono un giornalista), è diffusa la concezione per cui l’uomo debba subire questa punizione perché ha infranto dei tabù. Osservando il mio piccolo campo etnografico, il web, noto spesso vignette disegnate dove la natura, con gli animali, si prende gioco dell’uomo in questa situazione di pandemia, che è stata creata da lui stesso. Nuovo Lucifero, l’uomo antropocenico ha voluto ergersi al cospetto della Natura e si è fatto demiurgo al posto suo, infrangendo la gerarchia che lo subordinava ad essa. Perciò adesso è in quarantena. Sul piano concettuale, quindi, il trattamento riservato a questo incidente sociale è il suo reinserimento in uno schema razionale, una risignificazione in linea con i principi del suo particolare contesto storico e sociale.

Inscritto in un simile quadro concettuale, il coronavirus emerge quasi come la realizzazione di un’escatologia ambientalista. Un evento tragico e distruttivo che può segnare la fine di un ciclo, ma che può, al contempo, portare a un nuovo inizio. E il nuovo inizio consisterebbe nella speranza di una nuova e più elevata responsabilità nel rapporto uomo-ambiente.


A questo punto farei anche una considerazione sulla concezione del tempo: se a livello cosciente noi pensiamo il tempo come una linea unidirezionale, mi sembra che questa pandemia abbia fatto emergere una soggiacente concezione ciclica del tempo, come quella che Sahlins attribuisce alle popolazioni hawaiane, o come nella mitologia indiana (tra gli altri, Eliade: Il mito dell’eterno ritorno). Forse in questo caso sarebbe più appropriato definirla una concezione a spirale perché, nell’ottica sociale, una volta conclusa la quarantena, ci si propone un miglioramento delle condizioni di vita e non un identico ripetersi della storia. In ogni caso, dopo un momento di destabilizzazione sociale e semantica, l’uomo si reinventa, stabilisce un nuovo inizio e questo inizio comprende anche un nuovo significato, cioè un riposizionamento dell’uomo nel mondo.

Credo che questa concezione sia individuabile anche, a livello più ampio, nella stessa necessità di inventare la nuova era dell’Antropocene: piuttosto che di cicli cosmici, noi parliamo di ere geologiche perché questi termini si confanno di più alla nostra mentalità scientifica, sedicente secolarizzata, e ci soddisfano. Ma probabilmente si tratta di una stessa necessità dell’uomo di concettualizzare e scandire il tempo in modo da renderselo comprensibile, dotandolo di un senso. Così l’uomo si reinserisce nel flusso della storia.

Questo momento di transizione è quindi tutto proteso al futuro, carico di aspettative e fecondo. In Purity and Danger, Mary Douglas scrive: “Nel disordine non vi è un modello, ma un infinito potere di crearne. […] Riconosciamo che è distruttivo per i modelli esistenti, ma anche che ha delle potenzialità. Esso simboleggia sia il pericolo che il potere”. Insomma è un terreno fertile. E se da un lato questa fertilità assume l’aspetto di un frenetico moltiplicarsi delle norme imposte, cioè un potenziamento del biopotere (che qui prende il significato di un ristabilimento forzato dell’ordine sociale e simbolico); dall’altro lato, a livello popolare, questo si traduce in creatività: molti di noi, ad esempio, si stanno dedicando all’arte, in ogni sua forma (compresa quella culinaria). Personalmente credo che l’arte sia non solo una risposta automatica, di tipo psico-fisiologico, al bisogno di un significato della vita, ma che sia espressione di un’implicita padronanza di tale significato.
Ma lo stesso senso di solidarietà e il rafforzamento di una coscienza sociale (seppur temi piuttosto controversi) mi sembrano prodotti della creatività di questo momento, scaturiti dalla medesima necessità di rilegare insieme il tessuto semantico della società.
Perciò a mio parere anche l’aspetto della creatività è riconducibile al tema del significato.

In conclusione, voglio esprimere la mia contentezza, assolutamente inopportuna e fuori luogo, perché se quello che ho scritto è almeno in parte giusto, vuol dire che la ricerca di significato continua ad essere fondamentale per l’uomo. Pur se a livello inconscio o meccanico, che sia espresso in termini scientifici, etici, sociali o individuali, di costrizione o di libertà, di distruzione o di creazione o di qualsiasi altra forma possa assumere, il bisogno di significato sembra uno di quei principi che stanno alla base della vita di tutte le culture, anche della nostra. L’esistenza di un significato giustifica la vita e la sancisce a dispetto del nulla. Perciò noi lo cerchiamo e la nostra stessa ricerca è il motore della vita.

D’altro canto può anche darsi che la mia stessa nozione di significato non sia che un prodotto della mia cultura…

Bologna, 27 aprile 2020
Silvio Mottolese
Studente del Corso di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia
Università di Bologna

Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.

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Lapidi e supermercati. Appunti urbani dal 25 aprile e oltre // FASE 2

Il 21 aprile il collettivo Wu Ming pubblica, all’interno del suo blog, una lunga riflessione dal titolo “Verso il 25 aprile. Riflessioni urgenti sulla necessità di rompere il vetro e tornare in strada”. Gli autori riflettono su come il precetto dello “stare a casa” abbia portato, nei due mesi di confinamento domestico, ad una progressiva delegittimazione  di ogni forma di espressione partecipativa che si disallinei da quanto è stato prescritto. Il richiamo al senso di responsabilità ha prodotto, in realtà, un ritrarsi spaventato all’interno del conosciuto ed una deresponsabilizzazione individuale.

Molti cittadini, nelle loro case e di fronte ai loro schermi, o al massimo seduti sui loro balconi, hanno progressivamente perso la connessione con gli spazi sociali e antropologici della città, riducendo il fuori ad una griglia di traiettorie predeterminate verso il supermercato o, al massimo, verso lo sportello bancario. Wu Ming invoca una riflessione collettiva su come uscire dal letargo e ricominciare a prendersi lo spazio pubblico, sottolineando come ci si possa organizzare anche “rimanendo formalmente dentro le norme ma sostanzialmente tornando a fare iniziative pubbliche”.


Prima di riflettere su quello che verrà mi sono chiesto se la discontinuità che sembra trasparire dalle parole di Wu Ming tra un prima e un durante, sia davvero tale o se piuttosto il confinamento non abbia fatto altro che rivelare, in tutta la loro crudezza,  dinamiche del vivere urbano ben consolidate. Perdita di connessione con i luoghi, o rivelarsi di una disconnessione che è la cifra del vivere contemporaneo per la grande maggioranza delle popolazioni urbane? Riflessioni quanto mai attuali per me che ho lavorato sui temi delle trasformazioni urbane, delle mobilità e delle disuguaglianze contemporanee. Non è un caso che molti degli episodi di disagio collettivo e di repressione poliziesca apparsi negli ultimi mesi siano avvenuti proprio a Torino, città italiana che più di altre sta attraversando una drammatica fase di liminarità, con un’identità sospesa tra un passato operaio, ormai quasi del tutto dimenticato, e un futuro dai contorni indefiniti. Proprio oggi un articolo di un quotidiano on-line presenta il progetto di una giovane creativa torinese che, per rilanciare la vita commerciale cittadina nella cosiddetta “fase due”, ha rinominato i quartieri con i brand di diverse multinazionali: il popolare quartiere Barriera di Milano è associato al logo della Barilla, mentre Aurora ad Amazon, per arrivare alle Vallette, identificate con Louis Vuitton. L’amministrazione cittadina, in primis la sindaca, hanno plaudito all’originalità dell’iniziativa, sottolineando come unisca creatività a “senso d’appartenenza”. Non è la sede questa per evidenziare come proprio la grande distribuzione con discount, ipermercati e catene commerciali abbia fisicamente e socialmente colmato i vuoti del tessuto urbano lasciati dalla deindustrializzazione delle periferie torinesi. L’iniziativa si ricollega allo spirito dei tempi evocato da Wu Ming ed emerso con forza nei lavori etnografici raccolti in un recente volume collettivo su Torino (Capello C. e Semi, G., a cura di, Torino. Un  profilo etnografico). 

La moltiplicazione delle differenze, siano esse sociali, etniche, generazionali, di classe, o di mobilità che dividono gli abitanti della nuova metropoli post-industriale, amplifica la disconnessione dei cittadini con i luoghi e con le memorie che in quei luoghi sono inscritte. I quartieri oggi più fragili sono quelli che non sono stati in grado di ricostruire un discorso comune, che non hanno fatto i conti con il proprio passato e con le plurime identità incarnate dalle strutture e dai loro abitanti. 

Le risposte a queste crisi di identità collettive si possono trovare proprio sotto casa, rimanendo nei duecento metri consentiti dal Dpcm vigente. La memoria è, innanzitutto, una memoria di prossimità che può essere recuperata attraverso un radicamento ai luoghi che, ben da prima del COVID, ci siamo assuefatti ad attraversare con inconsapevolezza. Da qui è nata l’iniziativa che, insieme ad un gruppo di cittadini, amici, vicini di casa e colleghi abbiamo promosso per il 25 aprile.  Insoddisfatti, come molti altri, da una ricorrenza ridotta a commemorazione virtuale o dai balconi, abbiamo scoperto che la nostra città, come molte altre città italiane, è punteggiata dalle lapidi commemorative di partigiani e cittadini morti nei giorni della Liberazione dal nazifascismo. Le istituzioni pubbliche come gli istituti storici della resistenza hanno prodotto archivi dove si può ritrovare documentazione particolareggiata delle biografie dei protagonisti di quella stagione. Per Torino lo ha fatto l’Istoreto, con una mappatura on-line di tutti le lapidi commemorative. Ogni quartiere ha le proprie lapidi, talvolta rovinate dall’incuria del tempo o confuse nelle nuove segnaletiche urbane.  Ma sono ancora là, dopo settantacinque anni, e dicono molto non solo sulle persone, ma anche sui luoghi in cui quelle persone vivevano, lavoravano, e si contendevano gli spazi pubblici. Lo spazzino Ugo Vietti, il meccanico alla Fiat Ferriere Angelo Ferro, lo scolaro Guglielmo Chiesa, l’autista Bruno Bongiovanni… Riscoprire le loro storie, localizzarle ed omaggiarle è stato un piccolo atto simbolico e di riapproprazione degli spazi urbani.


Chiudo questo intervento con un dubbio a cui cerco risposta. Al numero 62 bis di Corso Vigevano è attestata la presenza di una lapide dedicata a Maggiorino Morando, appartenente ai gruppi sappisti del quarto settore cittadino e ucciso da un colpo di cannoncino sparato da un milite delle Brigate nere, durante un pattugliamento presso lo stabilimento industriale Nebiolo. Ora la lapide non si trova, e la facciata dell’edificio è stata da poco rinnovata per l’arrivo del punto vendita di una catena di elettrodomestici. Lì davanti si formano quotidianamente lunghe code di acquirenti in attesa, a debita distanza di sicurezza…

Torino, 26 aprile 2020
Pietro Cingolani
Università di Torino

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Foucault negativo sintomatico: alcuni spunti etnografici // FASE 2

Nei dibattiti scatenati dall’epidemia di Covid-19, una delle figure chiamate più spesso in causa è quella di Michel Foucault. In particolare, per la sua idea di “biopolitica”. Ma le variegate forme dei riferimenti al filosofo francese – che vanno da un ricorso piuttosto sloganistico e superficiale alle sue proposte teoriche fino a un vero e proprio sarcasmo da social network nei suoi confronti – sono un’occasione per riflettere non tanto sul bisogno di prendere o meno le difese del filosofo, quanto sulla pertinenza del pensiero foucaultiano come chiave di lettura dell’emergenza in corso. Evitando ogni velleità di valutazione o rivalutazione in termini di storia della filosofia politica, un modo per farlo è quello di declinare tale pensiero in chiave di possibile riserva di suggerimenti etnografici per lo studio di quanto sta avvenendo e di quanto avverrà in relazione all’epidemia. Si tratta, cioè, di dare un’occhiata a cosa un ritorno sul concetto di biopolitica in Foucault può farci venire in mente per uno sguardo antropologico – in particolare nella prospettiva dell’antropologia medica – su quanto stiamo vivendo e per l’apertura di future piste d’intelligibilità etnografica.

C’è però bisogno di chiarire un presupposto. Per non cadere nei foucaultismi – che sono cosa diversa dai riferimenti critici al pensiero di Foucault – un primo passo consigliabile è quello di leggerlo e constatare, per esempio, come paradossalmente il concetto di “biopolitica” trovi pochissimo spazio nella produzione del filosofo francese. È poco più che accennata: un’analisi promessa e poco mantenuta. È come se i Corsi al Collège de France e altri interventi di quel periodo fossero un lungo preambolo alla discussione vera e propria del concetto di biopolitica, discussione che, in realtà, non è mai iniziata, perché lo studioso non ne ha avuto tempo, spento lentamente da un’epidemia precedente a quella del Covid-19 ma tuttora minacciosa: quella di HIV/AIDS. Foucault aprì dunque un cantiere limitandosi, in qualche modo, a porre solamente la prima pietra: per certi versi, aizzò una rissa e poi lasciò gli altri scannarsi, allontanandosi fischiettando. Chiarito questo presupposto, quello che in questa sede possiamo permetterci non è tanto entrare nell’arena filosofica e discutere i meriti e i demeriti speculativi del filosofo, quanto vedere se, da alcune delle sue tesi più rievocate e dibattute (e talvolta svilite) in questi giorni, possiamo in maniera vagamente eretica – fu del resto Foucault stesso a invitare a un uso della teoria sospeso, frammentato, sparpagliato – cogliere qualche spunto da declinare in prospettiva etnografica. Di questi numerosi spunti possibili, ne sintetizzo nove.


Primo punto: il concetto di “evento”. Sappiamo bene come le implicazioni di un’epidemia non abbiano a che fare solamente con le sue dimensioni strettamente biologiche, ma quanto siano conformate da precise scelte politiche rese manifeste da questioni quali le risorse della sanità pubblica, la selezione di chi curare e come, il rapporto fra sicurezza sanitaria e ordine pubblico, e così via. Al di là di tale osservazione ormai banale, emerge la rilevanza del concetto di “evento” nell’accezione foucaultiana, ovvero l’espressione di ciò che a livello politico si è fatto o non si è fatto affinché qualcosa accada o non accada: l’impatto e le conseguenze di un’epidemia, per esempio. In questo senso, un’epidemia va dunque considerata nei termini del rapporto fra l’evento e le strutture in cui quell’evento si manifesta: strutture sanitarie, politiche, economiche, e così via. È un tema che non solo si presta a una prospettiva etnografica feconda, ma che in questo senso ha già dato vita a volumi interessanti quali Unprepared. Global health in a time of emergency dell’antropologo Charles Lakoff e The pandemics perhaps. Dramatic events in a public culture of danger di Carlo Caduff. Sono opere che ci mostrano come le dinamiche di costruzione di un potenziale evento epidemico futuro strutturino alcune dimensioni – in termini di “salute globale”, protocolli, risorse –  del nostro presente, ovvero di una quotidianità che l’etnografia ha gli strumenti per osservare.

Secondo punto: il normale patologico. Uno dei pilastri portanti della teoria di Michel Foucault è la constatazione secondo cui nella modernità si sarebbe verificata una confluenza genealogica dell’esercizio del potere e della definizione e gestione del normale e del patologico. Tutto ciò sarebbe avvenuto attraverso le istituzioni sanitarie e il loro controllo politico, ed è il prodotto della tensione costitutiva fra legittimità politica e legittimità medico-scientifica. Uno degli interrogativi posti dalla crisi epidemica in corso è la definizione di parametri netti – ma strutturalmente incerti – entro cui individuare non solo i malati (i “contagiati” oppure, e già le cose si complicano, i “positivi sintomatici”), ma anche le persone sane ma minacciose (i “positivi asintomatici”, per esempio) o le persone sane ma a rischio (e quest’ultima categoria, in fondo, include la stragrande maggioranza della popolazione). In questa prospettiva, un tema di rilievo etnografico è l’osservazione delle procedure locali (i singoli ospedali o medici, le ASL o le Regioni), nazionali (il ministero della Salute) e sovranazionali (l’OMS) nel definire le categorie di sano e non-sano, di innocuo e minaccioso, di malato e di guarito, con tutte le relative conseguenze in termini di pratiche sanitarie e di ordine pubblico. 


Terzo punto: fra istituzione medica e destituzione politica. Una delle critiche più spesso rivolte a Foucault era il suo basarsi, nel parlare di potere e medicina, su una visione eccessivamente omogenea, se non monolitica, delle istituzioni scientifico-mediche. Cogliendo lo spunto di questa ragionevole obiezione, una possibile pista di ricerca etnografica si concentrerebbe sulla difformità e sulla frammentazione del sistema sanitario e delle concezioni che lo plasmano in funzione di agende politiche variabili. Sono difformità che è possibile osservare tanto negli uffici degli alti dirigenti sanitari quanto nei corridoi dei reparti degli ospedali. Il tentativo sarebbe allora quello di mettere in evidenza gli scarti locali rispetto alla norma e le maniere in cui tali scarti fanno emergere differenti concezioni da parte delle figure implicate, le loro interpretazioni e rielaborazione delle regole istituzionali, oltre agli spazi di “resistenza” e adattamento che si aprono. ù

Quarto punto: una biopolitica soggettiva. Nell’accezione che Foucault attribuisce al concetto di biopolitica, è più di governo delle popolazioni che di governo delle vite che si sta parlando. In una conferenza pronunciata in Brasile, a Bahia, nel 1976, Foucault dice: “La vita è ora diventata un oggetto del potere. Prima c’erano solo soggetti giuridici dei quali si poteva prendere i beni, e del resto anche la vita. Ora, invece, ci sono corpi e popolazioni”. La biopolitica foucaultiana è dunque prima di tutto una politica delle moltitudini: è una nozione che si riferisce a ciò che misura (la statistica, per esempio), a ciò che regola, a ciò che costruisce collettività umane attraverso tassi di mortalità o programma di pianificazione familiare, alle regole di igiene e alle disposizioni sanitarie, e così via. Se dunque la nozione di biopolitica rimanda più al corpo sociale e alla demografia che ai corpi dei singoli, una possibilità che abbiamo è quella di declinare in termini etnografici ciò che Foucault mirava a far emergere in termini di, da una parte, tecniche di oggettivazione e, dall’altra, tecnologie di soggettivazione. Ovvero: un’etnografia dello spazio che si apre fra le misure che riguardano intere popolazioni e la costruzione di sé stessi da parte degli individui. Le pratiche in relazione alle norme, le persone in relazione alle popolazioni. La società, dunque.


Quinto punto: obbedienza in cambio di protezione. Una delle chiavi di ricerca che l’idea di biopolitica ci offre riguarda i modi in cui certe forme di regolamentazione sociale costruite per affrontare situazioni di pericolo come una pandemia rimangono vive nelle pratiche e nelle regole anche dopo la fine dell’emergenza (a tutti i livelli, dai codici giuridici fino alle procedure amministrative locali ai regolamenti interni delle aziende o delle scuole materne, per esempio). Ma si tratta di uno scenario che non è reso possibile solo da un’imposizione dall’alto di tali poteri: perché essi resistano e siano effettivi, serve anche un processo di assimilazione e legittimazione dal basso. Processo su cui l’etnografia può concentrare la propria attenzione. Lo può fare prendendo in considerazione i discorsi e le pratiche che si relazionano a quelle regolamentazione, assecondandole o contestandole, e lo può fare chiedendosi qual è la disponibilità a offrire obbedienza (politica) in cambio di protezione (sanitaria). Qual è e in che modi si manifesta, dunque, la  richiesta – o il rifiuto – di autorità? Per ispirare una prospettiva etnografica su questo tema, verrebbe quasi da parafrasare il titolo del libro fondamentale del sociologo Michael Lipsky, Street-level Bureaucracy, in Street-level Biopolitics.

Sesto punto: verticalità e co-costruzione. Foucault invitava a rendere le questioni mediche – quali lo sguardo clinico o i protocolli terapeutici –  oggetti di dibattito, di contestazione e di dialogo, più o meno possibile o fecondo, con e fra le istituzioni sanitarie e politiche. È una dialettica che, per esempio, ha costituito uno dei punti di maggior interesse del mondo militante che si è costituito dagli anni Ottanta attorno all’HIV/AIDS. In questo senso, indagare etnograficamente le dinamiche di quelle interazioni e le relative configurazioni e riconfigurazioni è una prospettiva che permette di dare la parola a tutti gli agenti coinvolti – infermiere e infermieri, medici e mediche, epidemiologhe ed epidemiologi, malate e malati, amministratori e amministratrici, e così via – e di cogliere spazi di co-costruzione delle forme terapeutiche e delle misure di contrasto al contagio. Oppure, al contrario, di dare conto di quali sono gli elementi alla base della verticalità delle decisioni, ovvero della verticalità gerarchica del governo dei corpi e i suoi effetti pratici.


Settimo punto: un’indisciplinata etnografia della disciplina. A partire da esempi storici quali le misure contro la peste del XVII secolo, Foucault analizza i modi in cui, a suo parere, la disciplina medico-sanitaria è diventata disciplina tout court, a tutti i livelli sociali e istituzionali (scuole, eserciti, fabbriche, prigioni…).  Eppure, limitarsi ad affermare che il biopotere estende le sue logiche a tutti gli ambiti della vita collettiva è una scorciatoia tutto sommato poco feconda. Da un punto di vista etnografico, al contrario, si aprono spazi per l’analisi delle variazioni, dei dilemmi, dei conflitti, delle convergenze, delle forme di riproduzione o contestazione delle gerarchie, che siano gerarchie politiche e amministrative, o gerarchie fra malattie, o gerarchie fra elementi di rischio patogeno, o gerarchie dei malati da curare o meno e delle vite da proteggere o meno. In tutta questa situazione, i paradossi non sono anomalie o incoerenze: sono esattamente ciò che stabilisce il perimetro dello spazio di dialettica politica, nelle sue sembianze di conflittualità, convergenza, articolazione o organicità. In questo senso, possiamo farci l’augurio di un’etnografia dei paradossi.

Ottavo punto: la vita stretta fra corpi e popolazioni. Sappiamo come Foucault identificasse con il concetto di “anatomopolitica” l’insieme delle discipline che si esercitano sul corpo, che costringono a specifici comportamenti e che determinano un ordine sociale delle cose. In questo senso, potremmo individuare come pilastri della sua analisi del potere la disciplina, i regolamenti, l’anatomopolitica e la biopolitica. Da questa rigida categorizzazione potremmo poi dedurre che, isolando il prefisso bio- dalla politica, Foucault pare dissolvere la vita in due oggetti: i corpi e le popolazioni. Ammessa e concessa questa lettura, possiamo autorizzarci a un approccio etnografico che s’infili proprio in mezzo a quelle due sponde, in mezzo ai corpi e alle popolazioni, cioè che sappia stagliarsi nell’orizzonte della tensione fra quei due poli, e che lo faccia per osservare sul campo come, nella pratica e nelle pratiche, gli individui si costituiscano come, potremmo dire, “intrapolitiche” incorporate e le popolazioni come “intracorpi” politicamente qualificati.

Nono punto: il vivente e i viventi. Nel capitolo «Diritto di morte e potere sulla vita», verso la fine de La volontà di sapere (1976), il filosofo afferma che le forme di potere e di sapere si affacciano sui processi della vita e tentano di modificarli e controllarli. Viene allora da chiedersi se, come suggerisce Didier Fassin ne Le vite ineguali, non sia il caso di parlare, piuttosto che di biopolitica, di biolegittimità, ovvero la postura secondo cui la vita è da proteggere a ogni costo e soprattutto, problematicamente, a scapito di una sua qualificazione politica. Da questa prospettiva possiamo allora trarre l’indicazione di un’altra pista etnografica da seguire: l’analisi del rapporto fra le retoriche della protezione della vita e le pratiche effettive del giudizio differenziato del valore delle singole vite. Ne risulterebbe una etnografia delle traduzioni concrete delle idee di vita e di protezione delle vite, e dei modi in cui le pratiche quotidiane modificano o conformano quelle idee. In questo senso, l’idea di biopolitica risulta da intendere e declinare – o perfino sostituire – in termini di politica della vita: una politica che ha il vivente come oggetto e i viventi come soggetti. E lo stesso potremmo dire di un’etnografia della vita al tempo del Covid-19.

Milano, 24 aprile 2020
Lorenzo Alunni
Docente di Antropologia medica
Università di Milano Bicocca

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Sulla resurrezione (aprile non è il più crudele dei mesi)

Vorrei rassicurare tutti con ciò in cui credo, facendo appello alla mia anima: forse il poeta aveva torto e aprile non è il più crudele dei mesi. Ma poniamoci delle domande: cosa ha da dire il Covid-19 alla filosofia? E cosa ha da dire a noi credenti in Gesù Cristo? Chi è oggi il nostro prossimo da amare come noi stessi? In che modo la pandemia, in cui siamo presi drammaticamente, mi interpella come filosofo e come Cristiano? E vorrei porre infine un ultimo interrogativo di preghiera: quale senso ha assunto per noi il percorso che nella trascorsa settimana Santa ha visto unite nel passaggio la passione, la morte e la resurrezione di Cristo, fino alla Santa Pasqua? Nell’opinione pubblica, nel senso comune, impera ancora l’espressione “risorgere” per indicare l’uscita anche da questa crisi che ci isola e ci sgomenta. Ma questa parola ha significati politici e teologici molteplici. Quella imposta dal virus è senza dubbio un’esperienza di passione e di morte per troppi. Di una morte solitaria, vera e non rassicurata da metafore teologiche. Certamente non possono essere sottomesse alla violenza parole sacre e ancor meno si può piegare il senso della religione. Ora il Coronavirus ci coinvolge, ricordandoci la nostra limitatezza, perché riesce a condizionare le nostre libertà costringendoci nel privato, uno spazio visto ora come limite, chiusura.


Per altri invece Covid-19 ha significato moltiplicare il proprio impegno per donarsi al prossimo in forme inedite e inattese. Sono quelli, ad esempio, che affrontano il virus come  si usa dire “in trincea”: medici e infermieri di cui parliamo per la gratitudine che dobbiamo loro. Continuando con la metafora militare si sente poi dire che il Covid-19 sia un “nemico invisibile”, poiché può entrare nei nostri corpi e da lì fare di noi gli ‘aggressori’ di un altro che a sua volta non sarà più il nostro prossimo da cercare. Ma può un virus ridisegnare il Volto dell’Altro? Può annullare il prossimo nostro? No, nel prossimo il Cristiano da sempre è chiamato a vedere il divino. Il volto dell’altro oggi suscita d’improvviso la sensazione militaresca del “nemico”, quasi a incarnare la separazione, la distanza, la divisione in zone del nostro paese: quelle più colpite e quelle meno. 

Siamo costretti a questa riconfigurazione del rapporto con l’altro, sia per decreto statale sia per l’inedita percezione dell’alterità che tende ora a farsi strada. Viviamo perciò una nuova solitudine, più o meno accentuata a seconda delle condizioni sociali, economiche. Solitudine sembra la cifra di questa singolare Pasqua di Resurrezione. Ma la solitudine evoca il Silenzio, non come spazio negativo, piuttosto come momento di “arresto”. 

Questa forma del silenzio per un cristiano è ancora evocata significativamente in due momenti distinti: quello del Sabato Santo e quello dalla Domenica della Pasqua di Resurrezione. Sabato Santo è stato il tempo dell’Attesa. Una parola che oggi può acquisire simbolicamente e realmente un valore universale, non evocabile soltanto dai cristiani: l’attesa di una guarigione, l’attesa di poter uscire da questa situazione così drammatica. L’attesa messianica di ciò che non dipende da noi, proprio come la venuta del Cristo, attraverso l’Incarnazione, e la sua morte, e  poi la sua Resurrezione. 

È la solitudine, vissuta come momento di silenzio interiore, a predisporci a questa attesa, all’Attesa. Un tempo diverso. La solitudine ci invita a vivere pienamente questo tempo e ad aprire un nuovo spazio all’Altro, apprezzandone in modo inedito la presenza, dopo averne avvertito la mancanza. Lasciamo lo spazio all’altro e che questo continui a sorprenderci. Non ne siamo spaventati, pur restando a distanza, nemmeno nella diffidenza.  
Solitudine e silenzio necessitano pazienza e qualificano l’Attesa come una sorta di passività del pensiero in atto. Un essere lì, non rassegnati, ma pazienti e nella certezza di una Speranza. 

Questa Pasqua è stata quindi per me, per noi, la scoperta che il sepolcro vuoto non è lì per evocare un’assenza, ma al contrario per rivelare una presenza nuova, sorprendente, fuori dalle categorie attraverso le quali possiamo pensarla. Del surreale in quei giorni abbiamo fatto esperienza, vivendo un evento inedito in grado di cambiarci interiormente. Quello della Resurrezione resta per sempre il grido di chi dopo il buio vive la luce.
Il nascosto si rende presente, o torna ad essere presente. 
Viviamolo questo silenzio, per imparare ad accogliere nuovamente e più di prima gioie e dolori dell’altro, per riconoscerlo quando viene, per vederlo in modo nuovo superando le diffidenze e  comprendendo profondamente che l’altro siamo noi ed è uguale a noi.


Il silenzio è luogo del divino, è “il Verbo di Dio”, come ci ha rivelato Simone Weil: esso è presenza e possibilità di incontrare l’altro, facendogli spazio, accogliendolo. Lontananza e vicinanza che prima, quando eravamo vittime della frenesia del presente e di una corsa inarrestabile in avanti, avevamo scordato di guardare o avevamo volutamente accantonato.  Questo tempo di silenzio contiene mille voci e può aprire dei vuoti nei quali emergono tracce di umanità, vie di senso e infine spiragli del Sacro. Nel vuoto del silenzio, l’altro trova spazio. Questo momento può arricchire noi stessi solo se riusciamo a donarci agli altri con questa apertura. Silenzio, rileva Parmiggiani è “Una presenza oggi necessaria e, anche se può sembrare un paradosso, un modo di assumere una posizione”. 

Acquisiamo un nuovo senso di responsabilità, per gli altri, per l’ambiente in cui viviamo, in un modo nuovo. Perché inedite sono le sfide di questo tempo. Ritroviamo il senso smarrito di un’epoca che sembrava averlo perso per sempre: è quello il senso forse troppo a lungo sopito, di una Resurrezione che è invito a riconoscerci in una comune umanità. 
Resurrezione è insieme memoria del passato, vita del presente e speranza per un futuro nuovo. Uno spazio rinnovato in cui sapremo riconoscere le gioie e i dolori che abbiamo vissuto, noi esseri umani di tutte le epoche, di tutti i tempi, di ogni luogo. 

Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008
Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, Le Lettere, Firenze, 2010

Perugia, 23 aprile 2020
Massimiliano Marianelli
Professore Ordinario di Storia della Filosofia
Università degli studi di Perugia

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L’equilibrio invisibile. Un approccio ecosistemico alla pandemia [STUDENTS' CORNER]

Negli ultimi mesi il mondo si è ritrovato nel mezzo di una pandemia che sembra essere arrivata all’improvviso, generando scompiglio e sgomento nell’ecosistema umano. Utilizziamo l’espressione “ecosistema umano” non a caso, perché l’impressione è che qualcosa che ritenevamo “nostro” sia stato permeato da qualcos’altro, che non c’entrava nulla con “noi”: un microrganismo invisibile, un virus. Proprio questa percepita estraneità ha reso ai nostri occhi il fenomeno come incredibile ed eccezionale (Ferrari, Guigoni, 2020).

Tuttavia, SARS-CoV-2 non è un corpo estraneo rispetto al nostro ecosistema, anzi, ciò che ci fa ammalare è l’interazione del virus con una serie di fattori umani e sociali. Il motivo per cui questa “invasione” ci è sembrata tanto sorprendente è radicato in profondità nel sistema di pensiero occidentale: siamo immersi in una concezione del mondo naturalista, che vede natura e cultura come dimensioni separate (Descola, 2005; Remotti, 2011). Diversi studi hanno messo in evidenza come questa concezione del mondo sia un prodotto culturale, una costruzione e hanno portato alla luce altre visioni del mondo che percepiscono la natura come indissociabile dal culturale e dall’umano (Descola, 2005; Viveiros De Castro, 2015; Remotti, 2011).

Il naturalismo porta con sé una visione troppo povera (Viveiros De Castro, 2015) per comprendere a fondo le cause e gli effetti del contagio, la diversità dell’emergenza coronavirus nelle varie parti del pianeta o anche all’interno della stessa nazione. SARS-Cov-2, un virus, un non-umano, un estraneo, un Altro, per giunta particolarmente aggressivo e violento, un nemico, come spesso definito dai media e nel linguaggio quotidiano, sta sfidando apertamente la classica divisione natura e cultura, mostrando che non solo è inserito in una rete di relazioni, ma che può anche plasmare la realtà. Allora, forse, per meglio comprendere la situazione che stiamo vivendo, è necessaria una teoria del sociale che si declini in un’ottica ecosistemica (Raffaetà, 2020), che possa aiutare a rendere evidenti l’equilibrio e le interconnessioni fra umani e non-umani.


A questo proposito la Actor-Network-Theory (ANT) elaborata da Bruno Latour (2005) può essere d’aiuto. Secondo l’autore, la realtà risultante dall’interazione fra attori umani e non-umani si configura come una costruzione composita, incerta, fatta di deviazioni e spostamenti, che vanno a comporre legami deboli ed equilibri precari tra i diversi attori. Tutto ciò ci fa capire che questi ultimi possono agire sulla realtà, possiedono agency e questo li rende agenti sociali (Viveiros De Castro, 2015). Se la rete è composta da umani e non-umani, qualunque cosa che sia in grado di modificare la realtà può essere un agente sociale: un essere umano, un animale, un oggetto, un cactus o un virus. Quest’ultimo rientra nella categoria degli agenti patogeni, i responsabili delle malattie infettive, causate da un processo assimilabile alla predazione. Come i predatori, i virus hanno prede preferite, abituali, bersagli per i loro attacchi, che possono cambiare occasionalmente: “sono incidenti, aberrazioni, ma accadono” (Quammen, 2012). L’incidente è avvenuto nel caso del SARS-CoV-2, che ha effettuato un salto di specie, il cosiddetto spillover e ha provocato una zoonosi, una malattia infettiva trasmissibile dagli animali alla specie umana e viceversa: questo ci ha ricordato che gli esseri umani sono davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, “[…] nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e malattia” (Quammen, 2012).

Nata da quel pensiero moderno che è stato la culla della visione naturalistica, è la stessa evidenza scientifica a mostrarci l’enorme biodiversità e quantità di microbi che vivono assieme, dentro e attorno a noi e che i virus fanno parte di questo mondo microbico. Questi ultimi “[…] incidono infatti sulla nostra stessa identità di esseri umani, perchè circa metà delle cellule di un corpo umano sono microbiche e la loro attività è centrale per lo svolgimento di processi che coinvolgono la salute come il metabolismo, la regolazione del peso, l’attività del sistema immunitario, le reazioni allergiche, le reazioni allo stress e il successo delle terapie, influenzando persino l’umore e la personalità” (Raffaetà, 2020). Così come la gravità lega le geometrie dello spaziotempo, costituendo la forma stessa dello spazio (Comini, 2017), così le interazioni fra umani e non-umani sono la forma, la fabbrica del nostro ecosistema. SARS-CoV-2 ha agito su tutto il pianeta, mettendolo in moto e stimolando le reazioni di molti Paesi, che si sono mostrate diverse in base alle particolari interazioni di fattori economici, sociali, culturali e politici dei rispettivi contesti.

Alla luce di quanto detto fino ad ora, appare chiaro che identificare SARS-CoV-2 come l’unica causa della malattia è quantomeno limitato. La diffusione del virus, la possibilità che colpisca soggetti deboli e il suo tasso di mortalità sono influenzati da molte variabili che poco hanno a che fare con la “natura” come siamo abituati ad intenderla. Le probabilità di ammalarsi e di contagiare altre persone dipendono ad esempio dal sistema socio-sanitario della zona del mondo in cui ci si trova, dalla disponibilità di personale medico o dalla possibilità di ricevere una diagnosi in modo tempestivo: elementi che dipendono anche da scelte politiche molto anteriori. Si vedano ad esempio i casi di Taiwan e della Corea del Sud (Ferrari, Guigoni, 2020).

Vi sono anche altri elementi, meno visibili, che possono contribuire all’avanzare dell’epidemia e sono dati dal capitale sociale, individuale ed economico a disposizione di ogni individuo (Bourdieu, 1983). Non tutti infatti hanno la possibilità di “restare a casa” per ridurre la probabilità di contrarre e diffondere il virus: questa è una scelta che dipende anche dal lavoro svolto, dalle reti di sostegno e di aiuto a disposizione, nonché dalla capacità di recepire ed elaborare le informazioni, elementi che sono a loro volta influenzati da condizione sociale, dal livello di istruzione, dall’essere migrante o senzatetto e molto altro. Vediamo dunque che SARS-CoV-2 non è un agente solitario che ci colpisce in condizioni neutre e uguali per tutti e ovunque, bensì uno degli elementi che può causare la malattia e declinarla in modi molto diversi e inaspettati. Come insegna l’antropologia medica, la malattia è sempre il prodotto di diversi elementi in interazione tra loro, allo stesso tempo sociali e naturali (Cozzi, 2012; Kleinman, Eisenberg, Good, 2006; Pizza, 2005).

Provare dunque a ripensare il paradigma “natura-cultura” ci può aiutare a vedere meglio come il virus sia parte del nostro stesso ecosistema. Inoltre, considerando umani e non-umani come attori del sociale allo stesso livello, riusciamo a cogliere meglio le interconnessioni e gli intrecci che causano la pandemia. Quanto detto fino ad ora ci permette di guardare al futuro in modo diverso, soprattutto se si tiene in considerazione che secondo alcuni esperti del settore “zoonosi […] è una parola destinata a diventare assai più comune nel corso di questo secolo. […] Per questo bisognerebbe parlare più di trovare equilibri che di sconfiggere nemici” (Quammen, 2012). 

Bourdieu P. (1983), La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna

Comini G. (2017), La relatività per non addetti ai lavori, da «Researchgate»

Cozzi D. (2012), Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, Morlacchi editori, Perugia

Descola P. (2005), Oltre natura e cultura, ed. it  Nadia Breda (a cura), Firenze, SEID Editori

Ferrari R., Guigoni A. (2020) (a cura), Pandemia. La vita quotidiana con il Covid-19, M&J Publishing House

Ingold T. (2001), Ecologia della cultura, Meltemi, Roma

Kleinman A., Eisenberg L., Good B. (2006), Culture, illness and care: clinical lessons from anthropologic and cross-cultural research, in «Focus. The Journal of Lifelong Learning in Psychiatry», 4 (1)

Lamma P. (2004), Percezione del rischio e “modernità”, Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università degli studi di Torino

Latour B. (1991), Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Elèuthera, Milano

Latour B. (1998), La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Edizioni di Comunità, Torino, pp. 241-288

Latour B. (2010), Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico, Il Mulino, Bologna

Pizza G. (2005), Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci editore, Roma

Quammen D. (2012), Spillover, Milano, Adelphi

Raffaetà R. (2020), Una prospettiva antropologica sui virus, da «Aspenia Online»

Remotti F. (2011), Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Editori Laterza, Roma-Bari

Milano e Desenzano del Garda (BS), 22 aprile 2020
Francesca Esposito e Laura Graziano
Laureate in Scienze antropologiche ed etnologiche
Università degli Studi Milano-Bicocca

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