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Non torneremo alla normalità, perché la normalità è il problema // FASE 2 [STUDENTS' CORNER]

Ora che si profila la fine di un’epidemia, Papa Francesco ci dice che l’umanità deve compiere una scelta tra una revisione dei propri punti di riferimento sociali, economici e culturali, oppure piegarsi al dio denaro e al suo sepolcro. Il miliardario e filantropo Bill Gates ammette che il sistema capitalistico non ha saputo far fronte alle sfide poste dalla pandemia, che peraltro era stata dallo stesso preannunciata nel lontano 2015. La primatologa Jane Goodall asserisce che “la mancanza di rispetto per gli animali ha causato la pandemia, perché mentre distruggiamo, diciamo la foresta, le diverse specie di animali nella foresta sono costrette a venire in contatto fra di loro e quindi  le malattie vengono trasmesse da una specie all’altra, e il secondo animale ha quindi maggiori probabilità di infettare gli esseri umani poiché è costretto a stare stretto contatto con noi”. L’antropologo Bruno Latour infine, a chi chiedeva a gran voce di ravviare la produzione industriale il più rapidamente possibile, rispondeva con un fermo diniego, motivandolo con il fatto che l’ultima cosa da fare sarebbe, secondo lui, di rifare esattamente ciò che abbiamo fatto prima.

In questi giorni di quarantena, senza accorgersene, stiamo cambiando noi stessi ed il modo in cui ci relazioniamo con gli altri ed il mondo. La parola normalità, ha assunto oggi un significato quasi metafisico, che oscilla tra la nostalgia per un passato prossimo che sembra a portata di mano, ma ancora irraggiungibile, e il timore del conosciuto. Già, ma se proprio la normalità fosse il problema? Se fosse che non ci sia nessuna normalità alla quale ritornare, in quanto proprio quella normalità è stata la causa principale della catastrofe odierna? Per orientarsi in questo periodo di incertezza, occorre pensare al COVID-19 non come un fatto isolato ed astorico, bensì situato in una relazione dinamica con un preciso contesto sociale, economico e culturale. E’ per questo che la battaglia contro la pandemia non può limitarsi al potenziamento dei mezzi di emergenza (dpi: disposti protezione individuale), ma deve altresì prendere in esame le ragioni strutturali della pandemia, dalle cause economiche e a quelle politiche, in quanto, come ci insegna la storia, una catastrofe ha sempre un’origine lontana.


Nel 2002 nella regione del Guandong in Cina scoppia l’epidemia della SARS che colpì la popolazione suina, e nel 2016 la stessa regione fu colpita dalla SADS-CoV, un’altro tipo di corona virus che attacca il suino. L’origine del contagio fu localizzata, con precisione, nella popolazione di pipistrelli della regione. Un gruppo di ricercatori cinesi pubblicò infatti un rapporto sulla rivista “Nature” in cui, oltre a enfatizzare l’alta possibilità di una trasmissione dei nuovi virus agli esseri umani, facevano notare come la crescita dei macro- allevamenti di bestiame avesse alterato l’ecosistema dei pipistrelli. Inoltre, lo studio chiarì che l’allevamento industriale aveva incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione. Alcuni esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), hanno segnalato da tempo che l’incremento della domanda di proteina animale e l’intensificazione della sua produzione industriale sono le principali cause dell’apparizione e propagazione di nuove malattie zoonotiche sconosciute, ossia di nuove patologie trasmesse dagli animali agli esseri umani. Lo studio concluse che la cosiddetta rivoluzione dell’allevamento, ossia l’imposizione del modello industriale dell’allevamento intensivo legato ai macro-allevamenti, stava provocando un incremento globale di infezioni resistenti agli antibiotici, rovinando i piccoli allevatori locali e promuovendo la crescita delle malattie trasmesse attraverso alimenti di origine animale. Le epidemie sono un prodotto dell’urbanizzazione globale. Le condizioni di affollamento di questa popolazione in macro-fattorie, convertono ciascun animale in una sorta di potenziale laboratorio di mutazioni virali suscettibili di provocare nuove malattie e epidemie.

Per concludere, non si può non osservare che la lezione più sorprendente del COVID-19, è stata quella di aver provato che in poche settimane è possibile sospendere, in qualsiasi parte del mondo e allo stesso tempo, un sistema economico che sembrava inarrestabile. Prima di oggi, a tutti gli argomenti degli ambientalisti sul cambiamento dei nostri stili di vita, si rispondeva sempre con l’argomento della forza irreversibile del treno del progresso che niente poteva far deragliare a causa della globalizzazione. Tuttavia, è proprio la sua natura globale che rende così fragile questo sviluppo. Il COVID-19 allora, diventa un occasione unica, per mettere in discussione il modello complessivo di società neo-liberista basato sulla massimizzazione dei profitti, la supply-chain e la globalizzazione. Entrare nell’era del post-corona virus significa allora, non più guardare alle cose come erano, bensì al modo in cui le cose dovrebbero essere per limitare le vittime di una prossima catastrofe, contenere lo sfruttamento delle risorse ambientali e della forza lavoro, ridurre le ineguaglianze di reddito e di opportunità, promuovere la democrazia nella solidarietà, grazie ad una politica economica che premi gli investimenti nella sanità, educazione e ricerca pubblica e la valorizzazione degli ultimi. E’ per questo che c’è da augurarsi che non ci sia alcun modo di ritornare normalità, è proprio la normalità il problema.

Milano, 19 aprile 2020
Alessandro Natili
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche
Università di Milano Bicocca

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