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Lapidi e supermercati. Appunti urbani dal 25 aprile e oltre // FASE 2

Il 21 aprile il collettivo Wu Ming pubblica, all’interno del suo blog, una lunga riflessione dal titolo “Verso il 25 aprile. Riflessioni urgenti sulla necessità di rompere il vetro e tornare in strada”. Gli autori riflettono su come il precetto dello “stare a casa” abbia portato, nei due mesi di confinamento domestico, ad una progressiva delegittimazione  di ogni forma di espressione partecipativa che si disallinei da quanto è stato prescritto. Il richiamo al senso di responsabilità ha prodotto, in realtà, un ritrarsi spaventato all’interno del conosciuto ed una deresponsabilizzazione individuale.

Molti cittadini, nelle loro case e di fronte ai loro schermi, o al massimo seduti sui loro balconi, hanno progressivamente perso la connessione con gli spazi sociali e antropologici della città, riducendo il fuori ad una griglia di traiettorie predeterminate verso il supermercato o, al massimo, verso lo sportello bancario. Wu Ming invoca una riflessione collettiva su come uscire dal letargo e ricominciare a prendersi lo spazio pubblico, sottolineando come ci si possa organizzare anche “rimanendo formalmente dentro le norme ma sostanzialmente tornando a fare iniziative pubbliche”.


Prima di riflettere su quello che verrà mi sono chiesto se la discontinuità che sembra trasparire dalle parole di Wu Ming tra un prima e un durante, sia davvero tale o se piuttosto il confinamento non abbia fatto altro che rivelare, in tutta la loro crudezza,  dinamiche del vivere urbano ben consolidate. Perdita di connessione con i luoghi, o rivelarsi di una disconnessione che è la cifra del vivere contemporaneo per la grande maggioranza delle popolazioni urbane? Riflessioni quanto mai attuali per me che ho lavorato sui temi delle trasformazioni urbane, delle mobilità e delle disuguaglianze contemporanee. Non è un caso che molti degli episodi di disagio collettivo e di repressione poliziesca apparsi negli ultimi mesi siano avvenuti proprio a Torino, città italiana che più di altre sta attraversando una drammatica fase di liminarità, con un’identità sospesa tra un passato operaio, ormai quasi del tutto dimenticato, e un futuro dai contorni indefiniti. Proprio oggi un articolo di un quotidiano on-line presenta il progetto di una giovane creativa torinese che, per rilanciare la vita commerciale cittadina nella cosiddetta “fase due”, ha rinominato i quartieri con i brand di diverse multinazionali: il popolare quartiere Barriera di Milano è associato al logo della Barilla, mentre Aurora ad Amazon, per arrivare alle Vallette, identificate con Louis Vuitton. L’amministrazione cittadina, in primis la sindaca, hanno plaudito all’originalità dell’iniziativa, sottolineando come unisca creatività a “senso d’appartenenza”. Non è la sede questa per evidenziare come proprio la grande distribuzione con discount, ipermercati e catene commerciali abbia fisicamente e socialmente colmato i vuoti del tessuto urbano lasciati dalla deindustrializzazione delle periferie torinesi. L’iniziativa si ricollega allo spirito dei tempi evocato da Wu Ming ed emerso con forza nei lavori etnografici raccolti in un recente volume collettivo su Torino (Capello C. e Semi, G., a cura di, Torino. Un  profilo etnografico). 

La moltiplicazione delle differenze, siano esse sociali, etniche, generazionali, di classe, o di mobilità che dividono gli abitanti della nuova metropoli post-industriale, amplifica la disconnessione dei cittadini con i luoghi e con le memorie che in quei luoghi sono inscritte. I quartieri oggi più fragili sono quelli che non sono stati in grado di ricostruire un discorso comune, che non hanno fatto i conti con il proprio passato e con le plurime identità incarnate dalle strutture e dai loro abitanti. 

Le risposte a queste crisi di identità collettive si possono trovare proprio sotto casa, rimanendo nei duecento metri consentiti dal Dpcm vigente. La memoria è, innanzitutto, una memoria di prossimità che può essere recuperata attraverso un radicamento ai luoghi che, ben da prima del COVID, ci siamo assuefatti ad attraversare con inconsapevolezza. Da qui è nata l’iniziativa che, insieme ad un gruppo di cittadini, amici, vicini di casa e colleghi abbiamo promosso per il 25 aprile.  Insoddisfatti, come molti altri, da una ricorrenza ridotta a commemorazione virtuale o dai balconi, abbiamo scoperto che la nostra città, come molte altre città italiane, è punteggiata dalle lapidi commemorative di partigiani e cittadini morti nei giorni della Liberazione dal nazifascismo. Le istituzioni pubbliche come gli istituti storici della resistenza hanno prodotto archivi dove si può ritrovare documentazione particolareggiata delle biografie dei protagonisti di quella stagione. Per Torino lo ha fatto l’Istoreto, con una mappatura on-line di tutti le lapidi commemorative. Ogni quartiere ha le proprie lapidi, talvolta rovinate dall’incuria del tempo o confuse nelle nuove segnaletiche urbane.  Ma sono ancora là, dopo settantacinque anni, e dicono molto non solo sulle persone, ma anche sui luoghi in cui quelle persone vivevano, lavoravano, e si contendevano gli spazi pubblici. Lo spazzino Ugo Vietti, il meccanico alla Fiat Ferriere Angelo Ferro, lo scolaro Guglielmo Chiesa, l’autista Bruno Bongiovanni… Riscoprire le loro storie, localizzarle ed omaggiarle è stato un piccolo atto simbolico e di riapproprazione degli spazi urbani.


Chiudo questo intervento con un dubbio a cui cerco risposta. Al numero 62 bis di Corso Vigevano è attestata la presenza di una lapide dedicata a Maggiorino Morando, appartenente ai gruppi sappisti del quarto settore cittadino e ucciso da un colpo di cannoncino sparato da un milite delle Brigate nere, durante un pattugliamento presso lo stabilimento industriale Nebiolo. Ora la lapide non si trova, e la facciata dell’edificio è stata da poco rinnovata per l’arrivo del punto vendita di una catena di elettrodomestici. Lì davanti si formano quotidianamente lunghe code di acquirenti in attesa, a debita distanza di sicurezza…

Torino, 26 aprile 2020
Pietro Cingolani
Università di Torino

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.