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E l'Africa?

#Iorestoacasa, e ripenso alle epidemie vissute in passato. Negli anni di lavoro in Africa, in paesi in guerra o in pace ma sempre con poche risorse, le epidemie non sono mancate. Il ricordo più nitido riguarda l’HIV/AIDS. Far parte dell’ingranaggio sanitario nella Tanzania rurale mi ha permesso di vedere la devastazione prodotta da quel virus fino a poco prima sconosciuto. Ripesco qualche riga scritta in quegli anni:

“La maggior parte delle persone che affollano l’ambulatorio per il trattamento HIV/AIDS sono donne e uomini tra i 20 e 30 anni. Magrissimi, stanchi, stanno seduti per ore, e qualche volta giorni, ad aspettare il loro turno. Ci sono quelli che hanno la tubercolosi, e da lì hanno scoperto di avere anche l’HIV; ci sono donne che hanno scoperto di essere ammalate quando il loro bambino è morto di AIDS; ci sono bambini accompagnati dalla nonna perché entrambi i genitori sono morti.”

Ci sono molte differenze tra l’epidemia attuale e quella dell’HIV, certo. A miei occhi, ci sono aspetti che si sovrappongono. Anche l’HIV, come l’epidemia che stiamo vivendo, aveva sopraffatto il sistema sanitario. Ospedali e centri di saluti sovraffollati, che non riuscivano a dare risposta alle molte persone malate. Con difficoltà e ritardo poi si servizi sanitari sono cambiati per adattarsi alla nuova realtà. Allora si sono ampliati reparti, laboratori e creati ambulatori per le persone in trattamento. Anche oggi si ampliano e si riconvertono posti-letto e si espandono i servizi di rianimazione. Anche l’HIV si era accompagnato a molti pareri diversi, a polemiche, diatribe, sulla strada che la società doveva percorrere. Allora si discuteva di sessualità, adesso dell’uso di mascherine e di distanziamento sociale. Anche epidemia di HIV aveva approfondito le disuguaglianze sociali, colpendo di più i poveri, togliendo la capacità di lavorare a chi di lavorare ne aveva più bisogno.


La vita in Italia è cambiata. Orari supermercati regolari, impegni scolastici dei figli scanditi da calendario e  orologio, treni che partono e arrivano a orari prestabiliti. Una collega mi dice: “in Europa siamo abituati che tutto sia prevedibile”. In Africa, la vita non è prevedibile. I trasporti, le scuole, gli uffici. Anche il tempo, mutevole e tempestoso, fa la sua parte. Le piogge, intensissime, impediscono di rispettare orari previsti: ci si bagna, gli ombrelli non servono, le strade diventano fiumi, si preferisce restare a casa e aspettare. Quando piove i bambini arriveranno in ritardo a scuola, gli appuntamenti non saranno rispettati.  Le malattie in Africa rientrano nell’imprevedibilità della vita. 

Un'altra differenza con l’epidemia di allora viene da un rapporto diverso con le avversità. Parlo con mia zia, medico, dell’epidemia di COVID-19, mi dice: “pensavamo di essere invincibili”. Ecco, sì. La vita nell’Africa rurale invece è una lotta per sopravvivere. Succede che manchi l’acqua. Pochi sono allacciati alla corrente, chi ci è riuscito, è abituato che la corrente si interrompa. Che manchi in mezzo a una partita, oppure in mezzo alla fiction alla televisione. Si va avanti, la vita è piena di avversità. La morte accompagna sempre la vita, tutti hanno avuto in famiglia morti giovani, di bambini, di adulti. Morti improvvise o dopo lunghe malattie, senza spiegazioni.

Mentre #iorestoacasa, l’epidemia di COVID-19 si sta diffondendo anche in Africa. Il distanziamento sociale, lo restare in casa, sono privilegi di cui non molti potranno godere. Forse ci si renderà conto dell’inadeguatezza di un approccio unico per tutti, e che è necessaria una soluzione adatta al contesto. Le risposte all’epidemia di COVID-19 nel continente dovranno nascere dagli scienziati africani, dalle istituzioni locali, in grado di tenere conto delle caratteristiche del contesto e delle risorse disponibili. Soluzioni forse imperfette, ma adatte.

Milano, 4 aprile 2020
Manuela Straneo

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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.