Confesso subito che in queste particolari settimane di isolamento ho sviluppato inizialmente una forma di rifiuto nei confronti di qualunque reazione, ragionamento, pensiero articolato attinente alle dinamiche in corso, dettate dall’emergenza Covid-19. E tuttora, ammetto, resto titubante. Anche a causa della mia social-fobia, più che altro un’ansia da immersione nel mondo dei social network, su cui a maggior ragione di questi tempi si esprime gran parte del pensiero comune, del sentire collettivo, ho evitato di dare forma a qualsivoglia contributo di lettura antropologica. È un’allergia, forse più che una fobia, la mia. E non vi ho ancora trovato rimedio. Tuttavia, tempi morti, di cedimento, di crisi, di silenzio, di estraniamento e ri-immersione fanno parte anch’essi dell’esperienza dell’etnografo.
Ora però vorrei spendere poche righe per proporre degli spunti di lettura di quanto sta accadendo, in una situazione davvero inimmaginabile, almeno per noi qui in Europa, fino a circa un mese fa. Premetto che si tratta di spunti poiché la possibilità di creare un campo di ricerca, ora come ora, per me personalmente non è perseguibile – pur non escludendo che una ricerca non debba per forza di cose essere determinata dalla possibilità fisica, concreta di avere a disposizione un campo “reale”, dato che i mezzi di comunicazione oggi permettono questo ed altro, e che l’apporto degli antropologi possa essere significativo e doveroso anche ora, nel breve periodo, con ricadute positive sulla gestione dell’emergenza. Ciò che può rappresentare il mio contributo nell’immediato mi giunge dal precedente lavoro di ricerca nell’ambito dell’antropologia del rischio e dei disastri.
Risalente ad un paio di anni fa e sfociato in una corposa tesi di laurea, il mio lavoro ha riguardato la contaminazione delle acque superficiali e di falda da un insieme di sostanze altamente tossiche, i Pfas. Limitata inizialmente ad alcune province del Veneto, si tratta in realtà di una presenza ben più diffusa e capillare di tali inquinanti in tutta Italia – e non solo, gli Stati Uniti hanno fatto da apripista tempo prima con il più noto caso dell’azienda DuPont e 3M. Dove voglio arrivare? Ebbene, si è trattato di un caso – né il primo, né l’ultimo, anzi l’elenco sarebbe lungo – di protagonismo di un nemico invisibile.
Quello attuale ha certamente dei netti tratti distintivi rispetto ai Pfas o alle varie diossine degli anni Settanta e lungi da me commettere l’errore di accostarli: non si tratta di un composto chimico, di una lavorazione industriale deliberatamente immessa nell’ambiente, né di una contaminazione a seguito di un incidente, bensì di un virus che non mi dilungo a descrivere, il quale dilaga in forma di pandemia. Ciò che possiamo permetterci di fare, però, è individuare delle dinamiche comuni ad altri seppur differenti disastri. Il disastro in generale, quello che stiamo vivendo a livello globale in particolare, nella sua varietà e con le molteplici differenze non trascurabili, si definisce nel momento in cui impatta una società, un dato contesto socio-culturale e ambientale. Finché un fenomeno, in questo caso il virus, non interagisce con la comunità umana non può essere detto disastro, poiché quello rappresenta “semplicemente” un agente fisico d’impatto. Non si tratta in tal caso di un disastro tecnologico, ma possiamo dirlo un disastro naturale? Distinzioni binomiali che sappiamo bene reggere difficilmente il confronto con una realtà fluida e complessa. Di cosa si tratta allora?
Ora vi siamo dentro. Da questo “dentro”, ad esempio, percepiamo un “prima”, un “durante” che stiamo vivendo minuto per minuto, e un “dopo”, per alcuni utopico, immaginario, per altri più definito. Vi sono gli scenari delineati dalle autorevoli voci dei saperi esperti e le forse ingenue previsioni dei cosiddetti saperi comuni; vi è il dramma di chi un dopo non lo vedrà, di chi si trova già in un dopo seguito alla perdita di una persona cara – molto ci sarebbe da dire sui cambiamenti intervenuti a proposito di pratiche e concetti quali malattia, morte, ritualità, elaborazione del lutto – di chi vive un perpetuo “qui ed ora”, sempre sospeso nell’incertezza – come chi continua a lavorare nelle condizioni che sappiamo –, insomma svariati scenari in cui ha rilevanza la componente cronologica. Se avremo la fortuna di vedere un domani, subentrerà allora la memoria, un macro contenitore, su cui davvero si potrà lavorare molto. Capiamo bene come il disastro non possa essere concepito come il solo istante in cui è avvenuto il passaggio del virus dall’animale all’uomo, bensì come un evento complesso connotato da una articolata durata.
Abbiamo anche un dove, la componente spaziale. Quest’ultima ovviamente non è unica e identica per tutti: per molti è la casa – anch’essa entità plurima e irriducibile ad un unico modello –, per altri è la strada, è il centro di accoglienza, l’ospedale, il carcere e via dicendo. Di tutti questi luoghi sappiamo esistere non solo una dimensione reale, pragmatica, ma anche un aspetto e una valenza simbolici e culturali. Si fanno contenitori di svariate sfaccettature – luoghi di solitudine, di violenza, di ingiustizia, di malattia, di solitudine, di ritrovo. Sulla nuova relazione che viene a intercorrere tra interno/esterno, dentro/fuori si potranno porre numerose domande: sono dimensioni opposte che però vivono l’una dell’altra, senza dimenticare luoghi e non-luoghi intermedi. Nel caso di contaminazione idrica da me studiato, la casa – e altri spazi chiusi come le scuole e le palestre – era divenuta luogo insicuro, poiché il nemico invisibile usciva dal rubinetto di casa e intaccava ogni aspetto della quotidianità, compresa soprattutto quella intima, familiare.
Ciò che più conta, tuttavia, come ci insegna l’antropologia in questo campo, sono le percezioni: le percezioni soggettive e collettive del tempo e dello spazio, delle relazioni umane, di se stessi, di ciò che resta fuori dalla sfera più ristretta in cui possiamo agire ora, di individualità in sospeso, sottratte ad una presunta normalità. Quest’ultimo concetto tanto utilizzato, a favore o contro, è un costrutto culturale di cui siamo poco consci, indispensabile all’organizzazione e all’attribuzione di senso ad una realtà altrimenti caotica. C’è una normalità – costituita da quell’insieme di pratiche quotidiane che costituiscono il nostro habitus – che ci auto imponiamo a livello personale, una normalità che proiettiamo verso l’esterno, una normalità che ci viene calata dall’alto. Andando a sviscerare questa presunta antecedente condizione potremmo scoprire ciò che un disastro ci conferma e che – a riprova che lo scenario che stiamo vivendo non era così impensabile – molti tentavano di contrastare: ovvero che la crisi era già presente nel tessuto globale, latente, potenziale, imminente; l’agente d’impatto, il virus, non fa altro che mettere a nudo il grado di vulnerabilità della società globale e scatenare gli effetti della crisi stessa. Di quante crisi potremmo parlare? Quanti fronti vacillavano già e stanno crollando ora sotto la spinta di un’emergenza ancora in corso? (continua)
Soave (VR), 6 aprile 2020
Lara Bettoni
Laureata in antropologia presso Università Ca' Foscari Venezia
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.