Arrivo al Dipartimento di Prevenzione alle 11,00 dopo un po’ di giorni di assenza. Lavoro all’ASL da molti anni e coordino il programma “Comunità e ambienti di vita” del Piano Locale di Prevenzione. Normalmente l’atrio è pieno di bambini e genitori che attendono il turno della vaccinazione, oggi è vuoto, più della settimana precedente. Domando alla coordinatrice infermieristica se è stato deciso di sospendere il servizio vaccinale, lei mi dice di no, però molte persone si sono auto-regolate e hanno chiesto di spostare l’appuntamento.
Sembra tutto molto tranquillo, pochi operatori in giro per i corridoi, c’è silenzio in un luogo spesso rumoroso, la sensazione è di assenza. Qualcosa non torna…
Decido di salire al primo piano per salutare alcune colleghe. Lì trovo un’altra atmosfera: è tutto un aggirarsi per i corridoi con fogli in mano, si entra e si esce dalle stanze con aria trafelata, nessuno ha voglia di chiacchierare…
Adesso ho capito: è qui la festa!
Qui si gestisce la sorveglianza dei casi infetti e di chi sta in quarantena, un lavoro immane.
Qui si risponde alle domande dei medici di base e dei pediatri di libera scelta.
Qui telefonano i cittadini angosciati per avere qualche rassicurazione.
Tutti insieme: medici, operatori sanitari di varia natura, tecnici, amministrativi.
Io non sono obbligata a dare una mano, sono a part time e mi occupo di altro, ma mi sento eticamente ed emotivamente chiamata a fare la mia parte, non posso stare a guardare tutto questo movimento senza implicarmi in qualche modo.
Chiedo al mio amico epidemiologo, stanco e indaffarato, se posso servire, lui mi conosce bene, sa che sono un’antropologa e che me la so sbrigare anche nelle situazioni complesse.
Mi mette in mano un plico di fogli e mi dice che dovrei telefonare tutti i giorni alle persone positive al virus, ma asintomatiche, e ai cittadini messi in quarantena perché sono stati a contatto con persone infette. Ogni foglio corrisponde a una persona, non è un lavoro burocratico, è un counselling telefonico: devo accertarmi che stiano bene, che si misurino la febbre due volte al giorno, che non abbiano nulla da segnalare e così via… Soprattutto devo ascoltarli e ricordare loro che non devono uscire. Posso farlo anche da casa, se qualcosa non va lo devo segnalare al medico di turno, ma vista la mole di lavoro dovrò essere il più autonoma possibile.
Inizio le telefonate, sembra un lavoro banale ma non lo è per nulla.
Il sig. Giuseppe (qui è in seguito utilizzo nomi fittizi, per tutela della privacy) mi racconta che è lui il paziente positivo e che è un medico, oggi non si sente tanto bene, ha un po’ di febbre e, nonostante sia un medico, non sa bene cosa deve fare. Le certezze sembrano svanite, c’è una gran confusione, quando bisogna chiamare il 112? Quando andare in ospedale?
Paradossalmente mi tocca rassicurare un medico, oggi io so più di lui, conosco le procedure e provo a spiegargliele.
Non voglio sbagliare risposta quindi domando: voglio sapere cosa rispondere in caso di febbre o di malessere e quali sono i sintomi che mi devono preoccupare. Mi viene spiegato che ci si deve allarmare se la febbre supera i 37,5 e se ci sono difficoltà respiratorie. Comunque un medico sarà sempre a mia disposizione per chiarimenti.
Sono abituata a fare counselling anche telefonici, ho lavorato per molti anni in un Dipartimento di Patologia delle Dipendenze ed erano molte le persone che telefonavano per avere chiarimenti o conforto.
Oggi mi sembra diverso, probabilmente sto incorporando la sensazione di eccezionalità del momento, come se fossi in mezzo alla storia, quella con la S maiuscola.
Continuo le telefonate, la signora Laura è preoccupata, oggi si è misurata la febbre più volte, sale e scende, sua madre è ricoverata in terapia intensiva e lei non può uscire di casa. Quando verranno a farle un tampone? Domando al medico del tampone, non sappiamo come mai non è ancora stato effettuato, noi lo richiediamo, ma è l’unità di crisi che decide quando e a chi farlo.
In questa situazione la catena di richieste e di informazioni si può inceppare, ci sono 400 e-mail che devono essere aperte, schede per il monitoraggio della temperatura da inviare, richieste da evadere, oltre 600 telefonate da fare tutti i giorni in continuo aumento.
A tutte le persone che contatto chiedo come stanno, se hanno qualcosa da segnalare o domandare, li saluto dicendo loro che ci sentiremo domani.
Mi ringraziano, nessuno è sgarbato, qualcuno mi dice che gli faccio compagnia, che così ha qualcuno che si preoccupa per lui o per lei.
Ho fatto 50 telefonate, ma è una goccia in un mare di cose di cui a sanità pubblica si deve occupare.
Sono sincera, lascio da parte la vocazione critica dell’Antropologia medica, certo le questioni di potere sono sempre tra noi: chi sarà più importante? Chi risponde ai quesiti dei medici di base o chi telefona alle persone in quarantena? Ci sono comportamenti che noto o domande che mi pongo ma che di fronte alla complessità della situazione mi sembrano banali, quando tutto questo sarà finito ci sarà tempo per riflettere.
Adesso vorrei soltanto annotare, scrivere mi aiuta a ripensare e a non dimenticare.
Sicuramente la biomedicina sta imponendo uno stile di vita a chi ha contratto il virus o è stato in contatto con persone positive e a tutti noi, c’erano alternative possibili?
Ci sono persone abbandonate: i senza fissa dimora o chi sta in carcere; ci sono professioni, come quelle educative poco tutelate. C'è chi ha perso il lavoro o lo perderà.
In questa situazione così complessa mi viene in mente la parola agency, a volte abusata dagli antropologi. Oggi però questa parola ha avuto senso e concretezza: ho deciso di implicarmi intenzionalmente, di non essere spettatrice, di buttarmi nella mischia…
Per me è innanzitutto un dover essere, un imperativo etico, se si può, si fa…
Sono esausta, domani si ricomincia.
Torino, 13 marzo 2020
Lucia Portis
ASL Città di Torino
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano.