tag:blogger.com,1999:blog-30719704465265880532024-03-20T02:35:30.101-07:00La giusta distanzaOSSERVATORIO ETNOGRAFICO SULLA PANDEMIA, SULL'ISOLAMENTO E SUL MONDO CHE VERRA'Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comBlogger80125tag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-50782905897983952852021-11-02T08:39:00.003-07:002021-11-02T08:43:05.243-07:00Il blog è chiuso, l'archivio è aperto<div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">"La giusta distanza" ha operato come blog da marzo a giugno del 2020, i mesi dell'inizio della pandemia di Covid-19 e del primo periodo di isolamento in Italia. </span></div><div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Trascorsi ormai quasi due anni da quella fase, è tempo per questo spazio online di mutare forma e farsi archivio. Il blog è chiuso, ma le decine di contributi pubblicati restano a disposizione di chi oggi e in futuro vorrà rileggere le riflessioni, i percorsi di analisi e le note etnografiche che in quei giorni senza precedenti antropologhe e antropologi condivisero nella comune ricerca della "giusta distanza" per osservare quel che stava accadendo e per immaginare insieme il mondo che sarebbe venuto. </span></div></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEg1o8KzEO3VY-QNTnxN-sLUZrU_4JXdmN2NxWfpWj3j5O9r0-F7w_f1mwf5p5zzoR4fe1PNaLjJ1TrQ7x6oyYJ249szrWxLZ-je8WPQrv0gG5JsDc2s6sXrl-i1uYOfs885PUa9Jpsw0AALSwwuuPHU30FI2ZIYGcJ29zg1UfOQM_PfNfA9N-TPFCqk=s1280" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="640" data-original-width="1280" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEg1o8KzEO3VY-QNTnxN-sLUZrU_4JXdmN2NxWfpWj3j5O9r0-F7w_f1mwf5p5zzoR4fe1PNaLjJ1TrQ7x6oyYJ249szrWxLZ-je8WPQrv0gG5JsDc2s6sXrl-i1uYOfs885PUa9Jpsw0AALSwwuuPHU30FI2ZIYGcJ29zg1UfOQM_PfNfA9N-TPFCqk=w400-h200" width="400" /></a></div></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Le attività del gruppo di lavoro dell'AnthroDay Milano continuano e possono essere seguite sul nostro <a href="https://anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">sito web </a>e sulla nostra <a href="https://www.facebook.com/AnthrodayMilano/" target="_blank">pagina Facebook</a>.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Milano, 2 novembre 2021</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">AnthroDay Milano - Antropologia pubblica a Milano</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Università di Milano Bicocca</span></div></div>Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-39102404238484605982020-07-03T09:43:00.000-07:002020-07-03T09:55:46.968-07:00"10 e più oggetti dalla Terra di mezzo del lockdown": il blog diventa laboratorio / FASE 3<div style="text-align: justify;">
In occasione dell'inaugurazione della <a href="https://www.museovalfurva.it/appuntamenti/mostra-antropologica/" target="_blank">mostra "10 oggetti (d)alla fine del mondo"</a>, Ivan Bargna e Giacomo Pozzi terranno un <a href="https://www.museovalfurva.it/appuntamenti/workshop/" target="_blank">workshop</a> rivolto a studenti di scuola secondaria di secondo grado e università, insegnanti, educatori e tutti coloro che siano interessati alle tematiche proposte dal laboratorio.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdsd0vGV_dHRZ2a_8My60OxSD3MRiAd5oxi_3IgjqWSfmNNs6WNIA1SFzafTaQit8_G1UYJE0mFcCQI75cP-1NlMHr140DEguLxMimlPSOWi-QULTP4eAPV_pQ7eWdyZcjEhDfB3SVj5s/s1600/locandina_a3indd.520x0.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="735" data-original-width="520" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdsd0vGV_dHRZ2a_8My60OxSD3MRiAd5oxi_3IgjqWSfmNNs6WNIA1SFzafTaQit8_G1UYJE0mFcCQI75cP-1NlMHr140DEguLxMimlPSOWi-QULTP4eAPV_pQ7eWdyZcjEhDfB3SVj5s/s400/locandina_a3indd.520x0.jpg" width="282" /></a></div>
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Siete invitati a portare uno o più oggetti fra quelli che hanno accompagnato la vostra vita nello spazio sospeso del lockdown. Quando il mondo si è ritratto nel guscio delle nostre case, certi oggetti sono diventati più importanti di altri, per molti ad esempio è stato il caso del divano (ma quello lasciatelo dov’è!).</div>
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Gli oggetti sono una parte importante della nostra vita, perché fanno da ponte nel nostro rapporto con le altre persone (lo smartphone certo, ma non solo) e il mondo o perché diventano così intimi e personali da essere parti di noi stessi.</div>
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Li amiamo, li odiamo, li sfruttiamo, li proteggiamo o li buttiamo: gli oggetti dicono tanto di noi, custodiscono e risvegliano i nostri ricordi, danno forma ai nostri desideri e a chi vogliamo o non vogliamo essere. Condividiamo le nostre esperienze degli oggetti in un periodo così particolare: portate gli oggetti che vi sono stati più di conforto, quelli che avete detestato, quelli che vi hanno permesso di rimanere in contatto con gli altri o ve li hanno ricordati, quelli che vi hanno aiutato a passare il tempo o a scoprire qualcosa di voi stessi che non conoscevate; quelli che vi siete portati con voi quando il mondo ha riaperto le sue porte e quelli che non vorreste più rivedere. Li raccoglieremo su un tavolo e daremo loro la parola. Non sarete soli, anche noi porteremo i nostri!</div>
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Raccoglieremo le parole che gli oggetti susciteranno in brevi testi, che produrremo in maniera interattiva, attraverso una chat su WhatsApp (non preoccupatevi, sarà uno strumento di lavoro che chiuderemo alla fine del laboratorio!). I testi, insieme alle fotografie degli oggetti che avete portato, saranno pubblicati sul nostro blog "La Giusta Distanza. Piccolo osservatorio etnografico sull'isolamento", per lasciare una traccia di questa esperienza e della nostra vita in compagnia degli oggetti, durante il lockdown.</div>
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DATA E ORA: 10 luglio ore 15.00 – 16.30</div>
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Laboratorio gratuito, a numero chiuso.</div>
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Per info e prenotazioni: 377 149 80 07<br />
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-51030973092733315932020-06-25T09:14:00.001-07:002020-07-03T09:55:59.417-07:00"10 oggetti (d)alla fine del mondo": il blog si mette in mostra / FASE 3<div style="text-align: justify;">
Anche per il nostro blog è venuto il momento della Fase 3. Dopo oltre 100 giorni online, con un ottantina di contributi pubblicati e circa 30.000 pagine lette, siamo felici di annunciare che siamo prointi a tornare sulla Terra approdando al <a href="https://www.museovalfurva.it/" target="_blank">Museo Vallivo Valfurva</a>... una prima tappa del viaggio che ci porterà all'edizione 2021 del World Anthropology Day.</div>
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Grazie all'iniziativa di Maria Valentina Cassa, già studentessa del <a href="https://ama.formazione.unimib.it/" target="_blank">Corso di Perfezionamento in Antropologia Museale e dell'Arte dell'Università di Milano Bicocca </a>e oggi Direttrice del Museo, il gruppo di lavoro dell'AnhtoDay Milano è stato coinvolto nel progetto di realizzazione di una mostra che si terrà dall'11 luglio al 15 settembre 2020.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh8V7IIB0chVvHKjttFpv9FOgTv45gbqUWcd31AUV0OBqVrmlC-1TjXHRAWvKEi-FMo1GaqRWPNjctsdtSqdcPq9swaiczPBF-yqLHILbiYDQums5AofSmTTF3-zYKob0DmT2IwtVBK9O0/s1600/museo_vallivo_valfurva_locandina.520x0.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="729" data-original-width="520" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh8V7IIB0chVvHKjttFpv9FOgTv45gbqUWcd31AUV0OBqVrmlC-1TjXHRAWvKEi-FMo1GaqRWPNjctsdtSqdcPq9swaiczPBF-yqLHILbiYDQums5AofSmTTF3-zYKob0DmT2IwtVBK9O0/s400/museo_vallivo_valfurva_locandina.520x0.jpg" width="285" /></a></div>
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Il titolo della mostra, <a href="https://www.museovalfurva.it/appuntamenti/mostra-antropologica/" target="_blank">"10 oggetti (d)alla fine del mondo"</a>, evoca evidentamente Ernesto De Martino e muove dalla considerazione che i mondi culturali nascono e muoiono, ma lasciano traccia di sé negli oggetti, testimoni materiali delle vite delle persone. Il percorso che abbiamo ideato presenta 10 oggetti che arrivano dalla fine del mondo contadino di montagna e che ci vengono incontro alla fine del mondo che abbiamo conosciuto finora. Alla luce della pandemia e dell’antropologia, rivelano qualcosa di sé e di noi che forse non sapevamo.</div>
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Se ogni società va compresa nel suo specifico contesto per evitare di ridurla a noi, è pur vero che non possiamo farlo se non a partire dal luogo in cui poggiamo i piedi. La pandemia ci ha però rivelato la fragilità di una normalità che davamo per scontata; ci è mancata la terra sotto i piedi e quella normalità è forse già diventata “il mondo di una volta”. Questo evento traumatico cambia il nostro sguardo sul passato insieme a quello sul futuro che ci attende. La mostra seleziona alcuni oggetti del collezione etnografica permanente del Museo Vallivo Valfurva per farli entrare in risonanza con il periodo che stiamo vivendo e riflettere come, al di là delle differenze, si possa ritrovare una comune condizione umana.</div>
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L'inaugurazione della mostra avverrà venerdì 10 luglio 2020 alle ore 17.00. Vi aspettiamo!<br />
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-80439362251293912452020-06-19T03:19:00.000-07:002020-06-19T05:57:32.784-07:00Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Fase 2: Superare l’inquietudine, la rabbia, lo spaesamento tra sociale e virtuale [STUDENTS' CORNER]<div style="text-align: justify;">
<i>Pubblichiamo la TERZA E ULTIMA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.</i></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKoYnrK9wm7mwoLhixlLIXI78uoffFUbJrFAVbHRNCNSMb-kso220sxLWQihV4fIZUGR-LQlSEBqTBsJ1EeBHZVho2LDv1RZPJqczOOVN-SQLvBpuG0bX-2ndIozxEaDFPZpP1kBudJzc/s1600/IMG_1392.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="750" data-original-width="750" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKoYnrK9wm7mwoLhixlLIXI78uoffFUbJrFAVbHRNCNSMb-kso220sxLWQihV4fIZUGR-LQlSEBqTBsJ1EeBHZVho2LDv1RZPJqczOOVN-SQLvBpuG0bX-2ndIozxEaDFPZpP1kBudJzc/s400/IMG_1392.JPG" width="400" /></a></div>
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"I social hanno mostrato canti, balli, striscioni che hanno animato i balconi di tutti gli italiani, da nord a sud, per non parlare di motti quali ‘ce la faremo’, ‘andrà tutto bene’ e ‘torneremo!’. Ecco queste pratiche hanno mostrato una certa solidarietà tra le persone. [Ma] veramente questa quarantena ci spinge ad essere persone migliori? O sarà come un ‘Natale’ quando siamo tutti più ‘buoni’ per un solo giorno? Il confine [tra prima e dopo] si mostra molto labile e poroso" (Ersilia Bernardone, Diario di campo). </div>
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Il “campo” è un’esperienza poliedrica e complessa, che deve essere nutrita incessantemente da una certa “curiosità etnografica” (così la chiamano John Borneman, Abdellah Hammoudi nel loro <i>Being There: The Fieldwork Encounter and the Making of Truth</i>). Nel tentativo di afferrare una certa rappresentazione della realtà - o detto altrimenti: nel tentativo di contribuire a produrla insieme ai nostri interlocutori privilegiati - ricercatori e ricercatrici hanno dovuto affrontare le sfide di camuffamenti, doppi ruoli e posizionamenti tutt’altro che lineari. Qualcuno tra noi ha colto l’occasione di continuare la ricerca negli spazi esterni e pubblici, approfittando dunque di un altro ruolo. Come dicevamo, accadeva anche prima che il “campo” fosse un terreno di posizionamenti molteplici e da negoziare, di volta in volta, con i propri informatori o informatrici. Fare ricerca ai tempi del COVID-19 significa sfruttare le occasioni che abbiamo di poter rivestire un duplice ruolo. Per farlo bisogna attrezzarsi con tutte le protesi medicalizzanti che vengono prescritte perché ritenute protettive (mascherine e guanti), immergendosi in una realtà che ci vede protagonisti di una relazione estetica simmetrica. E mentre siamo lì per fare altro (lavorare o prestare volontariato), osserviamo le dinamiche, captiamo discorsi, interveniamo nello scambio... </div>
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Una prima riflessione sul futuro della ricerca - appena si capirà meglio quali possibilità avremo di muoverci perché senza mobilità il campo come abbiamo visto si fa fin troppo intimo - ha a che vedere con l’uso di strumenti distanzianti perché (appunto) protettivi, che finiscono inevitabilmente per medicalizzare anche la relazione etnografica (oltre al nostro spazio quotidiano). La mascherina, in particolar modo, risultava a principio essere una cosa impensabile perché limitante nell’esercizio dell’espressione facciale, di una certa mimica in grado di facilitare il riconoscimento e la relazione di prossimità e fiducia. Massimo Leone, Professore dell’Università di Torino, racconta così in un’intervista a <i>UniTo News</i>, come la mascherina cambia e forse cambierà le nostre interazioni sociali. </div>
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"Cambiano i volti anche nello spazio pubblico perché compare la mascherina. La mascherina è un oggetto al quale il mondo occidentale non è abituato, lo considerava come un oggetto tale da apparire soltanto in alcuni scenari molto specifici […] Adesso invece queste mascherine dilagano e portano con sé una connotazione di una medicalizzazione dello spazio pubblico. Ci sono altre società invece in cui ciò non avviene. Le culture dell'estremo oriente sono più abituate alle mascherine". </div>
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Ciò che il semiologo definisce “medicalizzazione dello spazio urbano” coglie appieno, secondo noi, quanto detto: lo spazio di interazione e di scambio sociale diventa strettamente connesso alla dimensione medica riducendo così i confini tra sano e malato, impedendo la costruzione di un’idea di untore che potrebbe colpire il ricercatore stesso (Lorenzo Maida) [1]. La riflessione su questi temi da parte di gruppi di ricerca antropologica che hanno lavorato su altre epidemie ci sembrano preziose (cfr. <a href="http://www.ebola-anthropology.net/">http://www.ebola-anthropology.net/</a>) e da stimolo per immaginare la funzione sociale della ricerca. Come continuare a fare campo può contribuire a seguire la lezione antropologica, di testimoniare e apprendere (“testimone” e “allievo” sono le parole usate da Claude Lévi-Strauss in <i>Razza e Storia</i>) dai propri interlocutori? </div>
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Potrà sembrare improprio quest’altro parallelismo, ma proviamo a suggerirlo. Fare ricerca dietro una mascherina - che sta sempre più diventando “oggetto” dai significati sociali molteplici (medico-sanitari, estetici, morali) - ci ricorda altre sfide metodologiche di ricercatrici che hanno condotto le loro ricerche etnografiche “sotto il burka” o dietro altri veli. Fariba Adelkhah, antropologa franco-iraniana prigioniera politica dal 5 Giugno 2019 nel carcere di Evin a Teheran, è una di quelle ricercatrici che hanno reinventato il campo in zone a rischio, ad alto rischio, dove difficilmente ci si inoltrava per fare ricerca a viso scoperto [2]. </div>
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Chi tra noi ha tentato una ricerca “sotto copertura” ha potuto toccare con mano le prime difficoltà e i nodi del doppio ruolo, senza che questo ovviamente sia comparabile ai campi sopra evocati. Proviamo a fare questo esempio:</div>
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"Qualche giorno fa ho constatato che cosa significa essere una lavoratrice ai tempi del COVID-19, ma non solo: ho constatato anche cosa può significare essere una ricercatrice sul campo, con tutti i dubbi e le “complicazioni” che ciò può comportare. Non è stata una cosa voluta in realtà. Diciamo piuttosto che ho colto l’occasione al volo. </div>
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Non sono andata molto lontano, serviva un aiuto nell’azienda di famiglia vista la provvisoria carenza di personale. In caso qualcuno si chiedesse perché l’azienda non è stata chiusa, la risposta è perché si tratta di un’azienda alimentare, quindi fornitrice di beni di prima necessità. È un’azienda piccola, con circa una trentina di dipendenti in tutto (gli stessi da sempre), le protezioni sono garantite e le distanze di sicurezza anche. Alcuni lavorano da casa, altri sono indispensabili per mandare avanti la produzione, a meno che non stiano male o mettano in pericolo la salute degli altri dipendenti.</div>
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Ad ogni modo, ho messo guanti, camice e una specie di elmetto con plexiglas come protezione per il viso. Inutile dire che, in quel contesto, non ho potuto che essere una “mosca sul muro” bianco. La mia presenza ha inevitabilmente modificato i comportamenti delle persone che avevo intorno …</div>
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La fabbrica si apre con il magazzino nel quale sono situati tutti bancali di vasetti e le celle frigorifere. Una volta attraversato tutto il magazzino, si arriva all’entrata della parte della fabbrica dedicata alla produzione vera e propria.</div>
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È proprio alla destra di questa entrata che si trova l’oggetto più importante per la mia ricerca, quello dal quale tutto è iniziato: la macchinetta del caffè. Luogo di ritrovo e di relax, la macchinetta del caffè – anche se data sempre per scontata – è un mezzo per potersi lasciar andare, per poter tornare ad essere ciascuno sé stesso, con il suo viaggio, i suoi problemi e le sue quotidiane preoccupazioni. Una cella frigorifera si trova in una stanza proprio vicino alla macchinetta del caffè.</div>
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Ho controllato che la temperatura della cella rientrasse nei parametri della tabella e mi sono avviata verso l’uscita, quando ho sentito delle voci. Erano tre donne, le conosco da sempre e mi conoscono da sempre. Borbottavano infastidite e stavano parlando del loro datore di lavoro, cioè di mia mamma. </div>
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Nascosta dietro la porta della stanza della cella frigorifera, ho cercato di fare meno rumore possibile per non farmi scoprire e per riuscire ad ascoltare chiaramente i loro discorsi. Mi sono sentita invadente, come se stessi violando la loro privacy.</div>
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Mi sono interrogata su quanto valesse la pena ascoltare gli sfoghi degli altri solo perché riguardanti mia mamma; con lei non mi sarei mai potuta confidare, le avrei messe nei guai… e poi io lì non ci sarei nemmeno dovuta essere, o almeno non per ascoltare i loro discorsi, carpire le loro preoccupazioni lavorative.</div>
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“Non capisco ancora perché non chiudiamo”, diceva una.</div>
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“Siamo un bene di prima necessità, più che altro non capisco perché è tornata sua figlia a lavorare qua, potremmo non essere al sicuro, non sappiamo dove sia stata lei e con chi abbia avuto contatti”, replicava una seconda.</div>
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Al sentire queste parole sono uscita dalla stanza della cella frigorifera come se nulla fosse. Le tre donne hanno fatto come se nulla fosse: “Martina! È un piacere riaverti qui con noi… come stai? Come procedono gli studi?”, dicevano quasi in coro… un coro al quale sono da sempre abituata.</div>
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Per tutti gli operai dell’azienda sono la “figlia del capo”: potrei definirla un’arma a doppio taglio? Vantaggio o svantaggio? Si lascerebbero andare oppure no? Sarei riuscita a scoprire ciò che davvero pensavano riguardo a questa situazione?" (Martina Anfosso, Diario di campo).</div>
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Per continuare il lavoro di documentazione, si scelgono strade insolite, inedite, innovative. Musei internazionali importanti hanno avviato un processo di raccolta di informazioni simile al processo implicato nell’“osservazione partecipante”. </div>
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"In tutto il mondo, l’emergenza scatenata dalla pandemia di coronavirus ha messo in stato di massima allerta i medici e gli operatori sanitari, ma ha dato da fare anche a un manipolo di studiosi e di curatori dei musei di tutta Europa, incaricati di seguire in tempo reale gli eventi e le conseguenze della crisi. Molti di loro non sanno né come né quando sarà impiegato il frutto del loro lavoro, ma credono che in futuro quelle informazioni interesseranno ai musei – e ai loro visitatori. Il fenomeno non riguarda solo la Finlandia: anche musei danesi, sloveni e svizzeri, fra gli altri, si stanno adoperando per documentare l’emergenza coronavirus sotto aspetti diversi: c’è chi chiede ai concittadini di tenere un diario della loro vita quotidiana in isolamento, e chi raccoglie oggetti capaci di rappresentare questo momento storico. [...] [L]a raccolta di oggetti legati alla pandemia richiede di stare al passo con i suoi sviluppi. Prima che fosse imposto l’isolamento, per due settimane gli studiosi finlandesi hanno intervistato i cittadini su vari argomenti, dalle conseguenze della crisi sul settore della ristorazione alla chiusura del porto di Helsinki. Ma l’evolvere della situazione li ha costretti ad adattare le loro tecniche. Adesso svolgono le interviste al telefono o su Skype, e stanno valutando l’opportunità di chiedere agli intervistati di “autodocumentarsi” inviando foto e video realizzati da loro stessi. Quando cominceranno a documentare la chiusura delle frontiere della regione di Uusimaa, gli studiosi osserveranno la situazione dai posti di blocco e intervisteranno gli agenti tornando alle tecniche tradizionali, che comportano la presenza fisica sul posto, ma con le modifiche imposte dalle circostanze. “Ci saranno due fotografi e io farò le interviste”, ha spiegato Ollila. “Dovremo solo assicurarci di stare a due metri l’uno dall’altro” (Lisa Abend, <i>New York Times</i>) [3].</div>
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Quanto sta avvenendo è dunque un massiccio spostamento di ogni relazione a distanza tramite i mezzi di comunicazione digitale (Whatsapp, Zoom, Skype, Teams…). Una nostra collega ha per esempio raccolto elementi utili per comprendere le mutazioni nella sfera privata e intima del religioso: anche i fedeli stanno adottando strumenti sempre più virtuali per restare vicini agli altri fedeli, per tentare di restare in contatto nella spiritualità. Dal Diario di campo di Souha Benhlima emerge bene quale sia l’orizzonte entro cui si muove questo nuovo apostolato: </div>
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"Ho contattato Suor Carmen con cui avevo partecipato ad una formazione per una settimana nel contesto religioso del Famulato Cristiano a Torino. </div>
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“Dal punto di vista dell’apostolato certo ci sono venute meno tutte le attività con la gente”, mi dice. Il loro servizio ha a che vedere con il ricevimento delle colf/badanti e dei datori di lavoro e prima dell’emergenza copriva tre giorni alla settimana. Il servizio ora è stato ridotto solo per via telefonica. I corsi di formazione per colf e badanti anche sono stati sospesi, così come i corsi di cucina, i gruppi di canto, i corsi di italiano, le attività liturgiche e le attività pastorali con i giovani universitari e la pastorale vocazionale. Si è intensificato il lavoro con il web e la presenza e vicinanza con le persone attraverso i social, specialmente WhatsApp" (Souha Benhlima, Diario di campo).</div>
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Messe telematiche, scrive anche la nostra collega Stefania Baronetto, che ricorda i più fortunati tra i parenti che hanno potuto accompagnare almeno a distanza i loro cari ormai defunti. Il dramma per gli altri è stato il silenzio assordante intorno a queste morti invisibili. </div>
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D’altra parte, la stessa Associazione americana di antropologia (AAA) aggiorna il suo sito regolarmente con indicazioni su “campi” da condurre in modo sempre più digitale [4]. Ci dovremmo dunque familiarizzare con questo nuovo modo di fare ricerca per rappresentare una realtà sociale che, riducendo la mobilità, vede paradossalmente sempre più simili nei loro posizionamenti ricercatori e informatori (il ricercatore o la ricercatrice erano, fino solo a qualche mese fa, coloro che dal “campo” tornavano quando il progetto era terminato o semplicemente dovevano continuare altre attività altrove). Forse potrà essere l’avvio di una nuova stagione dell’antropologia “a casa” (<i>anthropology at home</i>) per comprendere meglio se stessi e gli Altri. </div>
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[1] Il confronto che viene fatto dallo studioso tra paesi asiatici e paesi europei mette in luce come la mascherina possa entrare a far parte dell’abito quotidiano e quindi possa diventare al tempo stesso un accessorio che contribuisca a costruire un nuovo linguaggio modaiolo europeo, che coniughi la parte più estetica e quella funzionale. A tal proposito Massimo Leone afferma nell’intervista sopra citata: “c’è una diversa idea dell'individuo rispetto alla comunità: in molti di questi Paesi si indossa la mascherina per proteggersi dagli altri, ma anche per proteggere gli altri. La mascherina è diventata quindi così presente che si è trasformata in un’abitudine, in un oggetto di moda”.</div>
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[2] Fariba Adelkhah ne fa esplicito riferimento <a href="https://books.google.it/books?id=euePCgAAQBAJ&pg=PT13&lpg=PT13&dq=fariba+adelkhah+Afghanistan+burka&source=bl&ots=Eku9b4SX9i&sig=ACfU3U3wxmuzqNKlVliqd8mRO16X58eKmg&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwj6jOOX3ZnpAhW9DWMBHauMC_kQ6AEwEHoECAoQAQ#v=onepage&q=fariba%20adelkhah%20Afghanistan%20burka&f=false" target="_blank">qui</a>.</div>
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[3] <a href="https://www.internazionale.it/notizie/lisa-abend/2020/04/04/musei-pandemia">https://www.internazionale.it/notizie/lisa-abend/2020/04/04/musei-pandemia</a></div>
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[4] <a href="https://docs.google.com/document/d/1clGjGABB2h2qbduTgfqribHmog9B6P0NvMgVuiHZCl8/preview?pru=AAABchPZR9k*EJm8TdYlSMOQBnFSvqEiQw">https://docs.google.com/document/d/1clGjGABB2h2qbduTgfqribHmog9B6P0NvMgVuiHZCl8/preview?pru=AAABchPZR9k*EJm8TdYlSMOQBnFSvqEiQw#</a></div>
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<span style="font-family: inherit;">Torino, 19 giugno 2020</span></div>
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Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino</div>
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Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.</div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/">World Anthropology Day - Antropo</a><a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">logia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-39255070938069269712020-06-17T06:53:00.001-07:002020-06-17T06:54:07.985-07:00Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Fase 1: Superare l’inquietudine, la rabbia, lo spaesamento dell'estraneo e del troppo intimo [STUDENTS' CORNER]<div style="text-align: justify;">
<i>Pubblichiamo la SECONDA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.</i></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOeC0ckABg0HdfBzl-Pyd2DRy94UA9oWAVB02jjEkNoS-eZipmjErum-sbUaBTP5RcKOUhfNFsY5261yQ2k0u4-VWMoHf1WrbulBqtOUb0nYS4yWcWyy3huOzeCwwNijJJm6E9s-CtYNc/s1600/photo-1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1328" data-original-width="1600" height="331" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOeC0ckABg0HdfBzl-Pyd2DRy94UA9oWAVB02jjEkNoS-eZipmjErum-sbUaBTP5RcKOUhfNFsY5261yQ2k0u4-VWMoHf1WrbulBqtOUb0nYS4yWcWyy3huOzeCwwNijJJm6E9s-CtYNc/s400/photo-1.jpg" width="400" /></a></div>
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“Premetto che questo esercizio in principio mi ha un poco inquietato” (Maria Fresta, Diario di campo).</div>
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“Il mio metodo di ricerca durante questo mese di quarantena è cambiato drasticamente con lo scorrere delle settimane e dei decreti. Se infatti nelle prime settimane (anche all’inizio del lockdown) mi sentivo tranquilla nell’andare al supermercato e, pur mantenendo le distanze di sicurezza, sentirmi in contatto con le persone che mi circondavano, piano piano anche il mio stato di inquietudine ha iniziato ad acquistare nuovo peso. La percezione della diffidenza e della paura espresse dalle persone attorno a me (e probabilmente anche da me stessa) sono aumentate sempre più con lo scorrere delle settimane” (Mia Tessarolo, Diario di campo).</div>
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La paura per qualcuno di noi si è spostata dallo spazio esterno a quello intimo, domestico, familiare. Drasticamente familiare.</div>
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"Purtroppo, poi c’è stata una situazione di emergenza in famiglia che ha di nuovo portato cambiamenti alla mia ricerca. Mia nonna è stata male ed è stata operata d’urgenza, e questo ovviamente ha portato ansia e tensioni in famiglia. Mia nonna è stata operata a Vercelli in un ospedale in cui non c’è un reparto COVID, quindi non eravamo troppo preoccupati per quello, ma più che altro non potendo andare a trovarla, era difficile starle vicino, e lei ha sofferto particolarmente questa situazione. L’intervento è andato bene ed è tornata a casa, ma questa esperienza mi ha influenzata molto e non ho più portato avanti la mia ricerca. Questo mi ha fatto ragionare su quanto è facile che il lavoro sul campo venga stravolto dalla propria esperienza personale" (Maria Agnese Capellupo, Diario di campo).</div>
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Altre nonne hanno fatto irruzione sui nostri rispettivi “campi”.</div>
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"Mi sono rimaste solo le mie nonne. I miei nonni sono morti a distanza di dieci anni l’uno dall’altro. L’ultimo l’ho perso nel mese di dicembre. Probabilmente è vero che le donne sono più forti degli uomini; anche il Coronavirus sembra colpire meno il gentil sesso.</div>
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Nonna Maria abita a nemmeno un chilometro da casa mia. A piedi sono 7 minuti se cammini velocemente. Nonna è più verso i novanta che verso gli ottant’anni ormai. Ieri si è commossa mentre mi parlava di un dottore del bresciano afflitto dalla situazione emergenziale ormai insopportabile. La nonna si tiene a distanza, ma non troppa. Non ci dà baci. Non ci abbraccia e non ci accarezza. La andiamo a trovare uno per volta, uno ogni sera, a turno. Io, papà, Sofia, zia. Suoniamo il campanello verso le sei di sera, una bella partita a carte, si cucina e poi, dopo il lavaggio dei piatti, si torna a casa.</div>
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Entrambe le mie nonne vogliono vivere. Lo dicono chiaramente, che non si vogliono ammalare. Se nonna Luigina ha deciso che l’orto è un toccasana per l’umore, che deve essere mantenuto rigorosamente alto per non indebolire le difese immunitarie, nonna Maria è invece convinta che l’abbandonare qualsiasi tipo di lavoro domestico possa tutelarla dal farsi male, finire in ospedale ed ammalarsi. La differenza dei loro atteggiamenti sta proprio, a mio parere, nei dieci anni d’età che le separano. L’una rimane indipendente, l’altra è bisognosa di compagnia ed assistenza continua. Entrambe sono combattive. Entrambe accusano il mondo di oggi che, permettendo scambi di persone e di merci così rapidi, ha dato possibilità al coronavirus di diffondersi in fretta. La classica sentenza “ai miei tempi non sarebbe successo” sembra avere validità universale.</div>
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Mamma è andata a trovare nonna Luigina, per portarle il pane. È andata una volta a settimana. La prima settimana la nonna l’ha trovata ad aspettarla al cancello, le altre due volte però la nonna è rimasta a salutarla dal balcone, che non si sa mai. Lei è preoccupata. Beve bevande calde perché è convinta che il caldo possa uccidere il virus. Ora che non ha più da andare al cimitero dai suoi morti (questo è il suo più grande cruccio) e che non deve più andare a recuperare qualcuno dei suoi sei nipoti a destra e a manca, passa tutto il suo tempo nell’orto. Lei è autosufficiente, dice. Da quando è iniziata la quarantena non ha ancora incaricato nessuno di farle la spesa. Dice che fa scorte da anni. Che le sue galline le danno le uova. Che al limite avrà bisogno di becchime per loro, ma non nell’immediato.</div>
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[…] Era gennaio quando abbiamo iniziato a parlare di Coronavirus. Eravamo da lei, guardavamo quel programma di politica sul 4. Io ero spaventata, forse la più spaventata di tutti. Nonna mi diceva di non preoccuparmi, che le frontiere sarebbero state chiuse, che non avremmo avuto problemi. L’emergenza non era la nostra. Intanto sui social già giravano video apocalittici diffusi solo per aumentare il panico. Ne abbiamo guardato uno tutti insieme quella sera, con la nonna, mia sorella ed i miei cugini. Sono andata a letto pensando e ripensando a cosa sarebbe capitato, sovrastata da un nemico invisibile che mi metteva sotto pressione. La nonna mi ha rassicurata perché la televisione passava questo messaggio qui: non c’è nulla di cui preoccuparsi, non è la nostra battaglia. Di lì a poco i due turisti cinesi sarebbero stati ricoverati a Roma. Non c’è nulla di cui preoccuparsi, mi diceva, perché noi qui in Italia non moriremo. Abbiamo un sistema sanitario eccellente che riuscirà a salvare loro e tutti quanti noi. Ora sono io che rassicuro lei, che la tranquillizzo dicendole che nessuno in Italia patirà la fame, che ne usciremo più forti, che presto ci riabbracceremo e sarà ancora più bello; tutto questo mentre alla televisione si prega in diretta, si discute su quali misure il governo dovrà prendere e su quelle che sono già state prese, si dibatte in merito alla possibilità di far fare due passi ai bambini. Mia nonna, come molte anziane ed anziani della sua età, ha solo la televisione a cui affidarsi. Non ha un telefono cellulare collegato ad internet, non ha la possibilità di uscire di casa e comprarsi un giornale. Benché la varietà di canali e programmi rimanga vasta, lo schermo della sua tv, che domina la sala da pranzo, è il suo unico contatto con il mondo ed è il medium tramite il quale lei interpreta il mondo esterno. La confusione che adesso domina il palinsesto televisivo sta aumentando la sua ansia da reclusione forzata" (Irene Chiambretto, Diario di campo).</div>
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L’11 marzo una nostra collega ha avuto una febbre improvvisa ed ha chiamato la guardia medica. Scriveva in una email:</div>
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"Negli ultimi dieci giorni mi sono trovata ad avere un'improvvisa febbre, molto alta con picchi di 40 gradi, e questa mattina sono riuscita a scrivere tutto l'accaduto sotto vari punti di vista; pensavo potesse essere interessante riportare la mia esperienza con il sistema sanitario durante l'emergenza coronavirus, come ha risposto alla mia (più che altro quella dei miei genitori) richiesta di aiuto. Quello che è successo è stato illuminante, sotto il punto di vista della ricerca: il panico/rabbia del mio medico di famiglia, la guardia medica irreperibile e il numero regionale che non sapeva come classificare questa febbre improvvisa. Non so se può essere d'aiuto nel nostro piccolo progetto, se può essere uno spunto di riflessione o se può essere inserito come un altro punto di vista della ricerca, quello di chi si ritrova con dei sintomi e deve affrontare l'incertezza e comunicare con il sistema sanitario al collasso per la mancanza di posti negli ospedali, tamponi, informazioni, ecc."</div>
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<br /></div>
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Così con più calma scriveva della sua esperienza:</div>
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"Mercoledì mattina ho cominciato ad avere un gran mal di testa, ma la comparsa della febbre è avvenuta in serata, 39°C. Credevo si trattasse di stanchezza, ma la febbre non scendeva né assumendo paracetamolo né con le spugnature. La mattina di giovedì alle 6.40 ho perso i sensi, vedevo nero e non riuscivo a sentire nulla così mia madre presa dal panico ha cercato di contattare la guardia medica, che non ha risposto neanche ad una singola chiamata; dopo uno squillo si interrompeva la chiamata. […] Il mio medico non ha risposto alle chiamate, quindi abbiamo telefonato al numero verde regionale, ho risposto ad alcune domande e mi è stato detto che si trattava probabilmente di un’influenza intestinale, anche se non ne presentavo i sintomi – e che era l’ipotesi più plausibile – quindi, per precauzione prendevano i miei dati in caso avessi richiamato con sintomi diversi dall’influenza. Siamo riusciti a contattare il mio medico alle 10 del mattino, che arrabbiata con noi ha urlato al telefono a mio padre di non telefonare per una febbre perché – cito – “Siete tutti nel panico! La dovete smettere! Si prenda la tachipirina e una bustina di Oki dopo i pasti per l’infiammazione”, senza alcuna spiegazione. Non ha fatto domande, non ha chiesto informazioni, ha interrotto mio padre mentre spiegava le mie condizioni e ha riattaccato il telefono. Io non avevo mal di gola, né problemi di stomaco, intestino, o tosse. Non sono riuscita a capire l’origine della febbre, ma ho potuto constatare come (non) funzioni il sistema sanitario in questa emergenza. La guardia medica dovrebbe essere disponibile dalle 20 alle 8 e invece non c’era. Il medico ha prescritto un farmaco senza neanche considerare la mia cartella in cui ci sono le allergie alla maggior parte delle medicine, senza ascoltare minimamente ciò che i miei genitori cercavano di spiegare, senza fornirci assistenza, senza contare il fatto che si è resa disponibile alle 10 del mattino. Per fortuna il numero verde regionale ha saputo aiutarci, anche se l’operatrice non ha capito come mai avessi la febbre così alta senza presentare altri sintomi. Paura, rabbia, delusione. Questo è quello che stiamo vivendo, di fatto siamo stati abbandonati dal sistema sanitario, e ci sentiamo persi" (Jessica Bellardita, Diario di campo).</div>
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<br /></div>
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Una collega del Laboratorio – che conduce un’esperienza parallela (dalla parte di chi risponde alle telefonate) – così accompagna le parole di Jessica:</div>
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<br /></div>
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"Già ad inizio marzo [1], ancora prima che il governo varasse misure restrittive su scala nazionale, i tempi di attesa al numero verde di pubblica utilità si aggiravano attorno ai venti minuti per poter parlare con un primo operatore. Se le domande poste richiedevano una competenza maggiore da parte dell’operatore [che prendeva la chiamata], si veniva rimandati ad un operatore di “secondo livello”, con un’attesa di altri quaranta minuti circa. Nel momento in cui poi si cerca di indagare questioni spinose come tempi di incubazione o assenza di sintomi, la risposta che si riceve è che “gli studi scientifici attualmente disponibili non indicano un’alta probabilità di trasmissione da parte di persone asintomatiche”.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’enorme instabilità della situazione è resa manifesta anche dal diverso numero di pareri, protocolli, comportamenti da seguire e figure da consultare. Una chiamata al numero verde può dover essere seguita da una chiamata al proprio medico di base o al Dipartimento di igiene e prevenzione della propria provincia, e in ognuno di questi casi si può trovare un parere medico leggermente differente.</div>
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In questo contesto di forte incertezza e “non conoscenza”, la figura del malato asintomatico o con sintomi lievi desta non poche preoccupazioni. In questa categoria, infatti, rientrano tutti quei soggetti che risultano positivi al Coronavirus senza presentare alcun sintomo, o presentando sintomi tanto lievi da poter essere confusi con un’altra qualsiasi influenza stagionale [2]. Questi soggetti, pur avendo sintomi lievi o totalmente assenti, sono comunque in grado di diffondere il virus a causa della carica virale che trasportano. Attraverso la nostra prospettiva di analisi, dunque, questi soggetti potrebbero essere visti come “untori” che non possono riconoscersi e non possono essere riconosciuti da terzi. L’impossibilità di distinguere l’untore attraverso sintomi, comportamenti, caratteristiche specifiche o appartenenza ad un qualche gruppo sociale, crea uno scenario di incertezza e di mutabilità, in cui è difficile operare una distinzione tra i “sani” e gli “untori”, appunto. Da qui si innesca dunque un meccanismo di sfiducia nei confronti di tutti, dal momento che ognuno potrebbe essere un potenziale untore.</div>
<div style="text-align: justify;">
In un contesto in cui tutti dubitano di tutti e in cui il distanziamento sociale pare essere la sola indicazione incontrovertibile, due sono i comportamenti principali che si possono ravvisare, riassumibili nella definizione di un untore “agente” e di un untore “agito” (Giulia Cattaneo, Diario di campo).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Varia l’attenzione che prestiamo a quanto accade intorno a noi e dentro di noi, varia l’attenzione data all’esperienza vissuta come se col corpo sentissimo e capissimo la realtà che ci circonda. In un lavoro del 2010, Jason Throop [3] parlando del dolore e di come si possa farne una etnografia sottolineava l’importanza che per lui aveva avuto una indicazione teorico-metodologica di Thomas Csordas. I “modi di attenzione somatica” sono per i due antropologi delle elaborate modalità culturali con cui apprendiamo il mondo e la presenza degli altri, attraverso il corpo e il suo stare all’erta. Diciamo che i nostri corpi sono stati ben all’erta, dunque, sensibili e ‘svegli’ anche quando deboli, affannati, sudati, stanchi. </div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
"Terminiamo questa prima parte di riflessioni su cosa ha significato “fare campo” in questi due mesi con le riflessioni di due nostre colleghe, quasi all’opposto l’una dell’altra per le condizioni di vita che ci hanno visto protagonisti, a volte, nostro malgrado. Non si ha la possibilità di osservare qualcosa o qualcun* a noi sconosciuto" (Ersilia Bernardone, Diario di campo).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
"Penso all’attaccamento fisico. Vivo in un Ashram e siamo in 25 a condividere la stessa cucina, stesso bagno e alcuni di noi anche stessa stanza. Qui in molti tossiscono, starnutiscono, viviamo tutti insieme ed io sto molto attenta ma è quasi inevitabile beccarlo [il virus]. Forse siamo tutti positivi, tutti siamo stati in contatto con il virus, non so se la pratica dello yoga, la meditazione, il pranayama, la preghiera, aiuta a mantenere vibrazioni positive della mente e a salvarci dalla malattia. Questa pratica è vero rafforza il sistema immunitario, ma anche è vero che voglio convincermi di questo e non indebolirmi. Oggi mi sono tagliata il dito e non smetteva di scorrere sangue. Avevo paura che la ferita fosse troppo profonda. No, no, sono anemica – mi dicevo – non posso perdere troppo sangue. Poi pensavo: No, i punti no. Devo andare in ospedale e poi mi metteranno in quarantena perché in contatto con altre persone. Poi ho pensato: mi metto i punti qui da sola, con ago e filo. Il dolore si fa più acuto e non penso più al corpo, ma solo al dolore. Riesco a sopportare a combattere il dolore e la mente si fa più forte e la mente resiste e dà forza al corpo, il coraggio… quando tutto finisce realizzo che la preoccupazione che c’è prima della malattia mi ha fatto agitare, ammalare. Dopo due ore, tutto era passato" (Margherita Peluso, Diario di campo).</div>
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Dopo qualche giorno, la nostra collega rimasta bloccata in Canada, continua così il suo Diario di campo:</div>
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"Mi domando se avessi preferito rimanere a casa con le persone a me più care e vicine. Forse dovevo essere qui a pregare per tutto il mondo. Mamma ma quando finirà? Ma quando posso tornare a casa? (Margherita Peluso, Diario di campo).</div>
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<br />
(continua)</div>
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<br /></div>
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[1] Riportiamo qui l’esperienza di Giulia Cattaneo, che ha avuto modo di operare presso i servizi preposti all’assistenza dei cittadini durante questa emergenza. Nello specifico qui si tratta di diverse consulenze telefoniche richieste nel corso delle prime due settimane di marzo.</div>
<div style="text-align: justify;">
[2] In merito alla questione si veda: Lawton G., (2020), <a href="https://www.internazionale.it/notizie/graham-lawton/2020/03/26/sintomatici-diffondono-virus" target="_blank">Gli asintomatici che diffondono il virus senza saperlo</a></div>
<div style="text-align: justify;">
[3] J. Throop (2010), Suffering and Sentiment. Exploring the vicissitudes of experience and pain in Yap, University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London.<br />
<br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: start;">
<span style="font-family: inherit;">Torino, 17 giugno 2020</span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: start;">
Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: start;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: start;">
Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.</div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/">World Anthropology Day - Antropo</a><a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">logia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-70703203312102355722020-06-16T06:19:00.003-07:002020-06-17T06:54:21.397-07:00Etnografie dell’isolamento e del nostro futuro incerto. Domande intorno al “campo” e al cambiamento della ricerca in antropologia [STUDENTS' CORNER]<div style="text-align: justify;">
<i>Pubblichiamo la PRIMA PARTE del lavoro collettivo prodotto da parte delle studentesse e degli studenti nel corso del Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale dell'Università di Torino, con l’accompagnamento di Simona Taliani.</i></div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQG_Voj8aN5iLlc0A52LeJ146Rhjb7VqMXDppHTumJJ92rm-aiTmx26qB6UCeY1s0aHPu7z8CDMiJZgP5jzk1aBXCYrJicTp72X2FxJUV-urV-4N4L0fiBnV3MzdIrmm0o3xVOhx4Uup0/s1600/Cartina+Lab.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="775" data-original-width="1600" height="193" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQG_Voj8aN5iLlc0A52LeJ146Rhjb7VqMXDppHTumJJ92rm-aiTmx26qB6UCeY1s0aHPu7z8CDMiJZgP5jzk1aBXCYrJicTp72X2FxJUV-urV-4N4L0fiBnV3MzdIrmm0o3xVOhx4Uup0/s400/Cartina+Lab.png" width="400" /></a></div>
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<br /></div>
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<div class="MsoNormal">
<div style="text-align: justify;">
Più che nel mezzo di un’emergenza
sanitaria sembra di essere al centro di un campo di battaglia in piena guerra,
a partire dal lessico usato da decisori politici, giornalisti, opinionisti,
tecnici ed esperti. Eppure non sono pochi gli autori e le autrici che mettono
in guardia sull'utilizzo delle “retoriche di guerra” per parlare dell’attuale
situazione di isolamento, in relazione all’evento pandemico (Ciccarelli, 2020) [1]. Più recentemente torna con
piglio critico sul tema Raoul Kirchmayr, in un suo bell'intervento su <i>Antinomie</i><span style="font-family: "times new roman" , serif;"><i> </i>[2]</span>:</div>
</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
"[L]a metafora della guerra ritorna stolidamente, effetto di un inceppamento del linguaggio, zeppa simbolica di fronte a un trauma collettivo che riesce ad essere nominato – in realtà mancato – da parole e immagini inadeguate, ancora una volta deresponsabilizzanti. Come la guerra miete le sue vittime, così il virus soffoca, letteralmente, le esistenze. Ma né l’una né l’altro sono innominabili, né l’una né l’altro sono l’assolutamente eterogeneo rispetto a un mondo umano e storico di cui rappresentano variabili computabili, se non addirittura effetti di scelte. Lo vediamo già: i meccanismi sociali della rimozione sono al lavoro, il discorso della cultura, con il suo girare a vuoto attorno al trauma, invece che farsene carico e di tentare di simbolizzarlo, sta contribuendo per la sua parte ad alimentare un sentimento diffuso di angoscia e disorientamento. A un discorso di verità la cultura egemone preferisce, quasi per un automatismo interno, un discorso di riempimento. Infatti, le ideologie di recupero hanno sempre funzionato quali soluzioni ad hoc per le contraddizioni inerenti i sistemi socio-politici ed economici. Ma ora il virus è l’irrompere di un reale di morte nella trama smagliata delle nostre rappresentazioni. Per quell’analisi che ci è necessaria per poter pensare meglio e concretamente l’alternativa al capitalismo nella sua fase neoliberale, esso ci fornisce il reagente per comprendere il funzionamento tanatopolitico del paradigma. Mai come oggi un oggetto come una mascherina chirurgica o un ventilatore polmonare rivelano tutto il rimosso tanatopolitico del modello occidentale: la morte è una scelta calcolabile prima ancora di essere la condizione di finitezza dell’uomo. Nella cultura dell’occidente neoliberale questa si comprende a partire da quella, e non viceversa".</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Per noi non è stato facile
orientarsi in questo scenario spaesato e spaesante. Abbiamo dovuto iniziare a
riflettere su una metodologia di ricerca, prima che avessimo esperienza di cosa
fosse significato <i style="mso-bidi-font-style: normal;">un tempo</i> (in un
passato molto prossimo da poter ancora ben ricordare) fare etnografia. Iniziamo
da qui perché le notizie, le analisi, le riflessioni sono proliferate
frammentarie<span style="font-family: "times new roman" , serif;"> [3]</span>, incerte, spesso smentite e
poi di nuovo confermate: non è stato facile seguire il dibattito per noi che ci
stiamo avvicinando ad un campo di sapere per apprenderne, almeno in parte, il
metodo. Le strategie sono in perenne divenire, con l’ovvio fermento che il
continuo adattamento alle situazioni in essere porta con sé: un grande spirito
di solidarietà unito al peggior egoismo, la mutua assistenza morale, sanitaria,
economica (che si riscontra a livello di gruppi di dimensioni ridotte)
affiancata dallo sciacallaggio e arrivismo individuale e istituzionale (il
rincaro di prezzi fino al 200% in alcuni esercizi commerciali poi denunciati
dalle autorità stesse); e poi l’abbandono psicologico alla situazione di
emergenza contrastato dalla forza d’animo che puntuale si presenta nei momenti
difficili, specialmente se condivisi. Di cosa interessarsi? Con quali
strumenti? Come iniziare una etnografia dell’isolamento, del distanziamento,
della medicalizzazione della vita quotidiana?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Questo studio vuole essere
innanzitutto un’osservazione etnografica delle persone, che fornendo esperienze
e vissuti, contribuiscono a comporre alcune tra le più urgenti domande di
ricerca ed a immaginare insieme il futuro della ricerca, avendo dovuto avviare
queste prime e acerbe riflessioni proprio ora, proprio ai tempi del COVID-19.
Ci spieghiamo meglio.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
La ricerca etnografica come era
stata inaugurata da Malinowski e perpetuata nei decenni successivi – e solo
fino a qualche mese fa – si trova di fronte alla necessità di fare un passo
indietro, di rivalutare una etnografia “da veranda”<span style="font-family: "times new roman" , serif;"> [4]</span>,
alla quale il ricercatore è costretto dai decreti restrittivi emanati dagli
organi statali per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da
Coronavirus. Docenti e ricercatori di più lunga esperienza di noi lo
sottolineano nei loro interventi più recenti. Così esordisce Fabio Dei nel suo
contributo al dibattito effervescente che si sta sviluppando su blog, forum,
siti online.<br />
<br />
"Non parlerò di etnografia, che è difficile fare senza poter uscire di casa o tenendosi a un metro di distanza dagli altri. Ma documentazione, descrizione che cerchi di andare un po’ oltre ciò che i media possono offrire (che non è poco, beninteso)" [5].</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify; text-indent: 14.15pt;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Pur essendoci ben chiare le
ragioni di questa posizione, siamo un gruppo di studentesse e studenti di
Comunicazione interculturale dell’Università di Torino iscritti ad un
Laboratorio di Etnografia che si sono ritrovati a dover <i style="mso-bidi-font-style: normal;">pensare come fare ricerca</i> quando era praticamente impossibile
continuare a farla come la si era sempre pensata e praticata. Questo ci sembra
un motivo sufficiente per tentare di andare laddove altri in questo momento
dicono di non potersi spingere. Ne va del nostro futuro, delle nostre prime
tesi, delle nostre aspirazioni per corsi di laurea magistrale, di un impegno
che avevamo pensato di avere di qui a qualche anno … Ci spingono ovviamente
passioni e interessi diversi, ma l’adesione al Laboratorio ci accomuna nel
desiderio di incamminarci lungo il sentiero di una conoscenza che passa prima
di tutto attraverso una esperienza, una relazione: la relazione etnografica.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Sebbene tra la fine del mese di
febbraio e gli inizi di marzo 2020 – quando il Laboratorio stava iniziando –
fosse ancora possibile svolgere ricerca etnografica al di fuori delle proprie
case, entrando in contatto (seppur con le opportune limitazioni) con altri
soggetti non appartenenti al proprio nucleo familiare ristretto e registrando
pertanto la realtà circostante, con il decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri (Dpcm) 9 marzo 2020, sono state estese all’intero paese forti misure
restrittive che hanno imposto grandi limitazioni alla libertà di movimento dei
cittadini. Da quel momento in poi, l’Italia ha visto un progressivo aumento
delle restrizioni alla possibilità di spostarsi liberamente, restrizioni che
hanno ovviamente influito anche sulle modalità di ricerca del presente
lavoro. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Pertanto, pur senza sottovalutare
l’iniziale periodo di ricerca sul campo, questo lavoro è principalmente frutto
della nostra esperienza personale, divenuta essa stessa oggetto di ricerca. Le
conversazioni con amici e parenti, i discorsi dei vicini, i post sui social
media sono diventati oggetto della nostra osservazione partecipante, pur con
tutti i limiti di una etnografia “da veranda”, “da tavolino”, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">da terrazzo</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
(continua)<br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
[1] Ciccarelli, R. (2020), <a href="https://ilmanifesto.it/siamo-in-uneconomia-di-guerra/">Siamo inun’economia di guerra</a></div>
<div style="text-align: justify;">
[2] Kirchmayr, R. (2020), <a href="https://antinomie.it/index.php/2020/04/30/sulla-miseria-dellattuale-filosofia/">Sulla miseriadell’attuale “filosofia”</a></div>
</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
[3] È di primaria importanza il ruolo dell’informazione, tramite tra le istituzioni e i cittadini. «Giornalismo e scienza devono distinguere fonti legittime di informazione da voci di corridoio, mezze verità, propaganda. Un compito che, nel mezzo di una pandemia, può diventare arduo» scrive Torrisi (2020), <a href="https://www.valigiablu.it/coronavirus-giornalismo/">Come il giornalismo dovrebbe affrontareepidemie e pandemie di malattie infettive</a></div>
<div class="MsoNormal">
<div style="text-align: justify;">
[4] E. Tauber, D. Zinn (2018), Back on the verandah and off again: Malinowski in South Tyrol and his ethnographic legacy, ANUAC, 7, 2: 9-25.</div>
<div style="text-align: justify;">
[5] F. Dei (2020), <a href="http://fareantropologia.cfs.unipi.it/notizie/2020/03/1421/">L’antropologia e ilcontagio da coronavirus – spunti per un dibattito</a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
</div>
<div style="mso-element: footnote-list;">
<div id="ftn5" style="mso-element: footnote;">
<div class="MsoNormal">
<span style="font-size: 10.0pt;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Torino, 16 giugno 2020</span></div>
</div>
<div class="MsoNormal">
<div style="text-align: justify;">
Laboratorio di Etnografia, Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, Università di Torino</div>
</div>
<div class="MsoNormal">
</div>
<div class="MsoNormal">
<div style="text-align: justify;">
Anna Airoldi, Martina Anfosso, Stefania Baronetto, Mariangela Jessica Bellardita, Souha Benhlima, Ersilia Bernardone, Maria Agnese Capellupo, Giulia Cattaneo, Irene Chiambretto, Maria Fresta, Lara Gino, Alice Rampado, Lorenzo Maida, Margherita Peluso, Mia Tessarolo con l’accompagnamento di Simona Taliani.</div>
</div>
<div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/">World Anthropology Day - Antropo</a><a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">logia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-83934264330711310272020-06-01T01:46:00.001-07:002020-06-01T01:53:18.631-07:00Pandemia, ecosistema e antropologia. Riflessioni a partire da "Antropologia dei microbi" [STUDENTS' CORNER]<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
Nel corso della quarantena ho avuto l’opportunità e il piacere di leggere il nuovo libro di Roberta Raffaetà, <a href="http://www.cisu.it/index.php?page=shop.product_details&flypage=flypage_images.tpl&product_id=570&category_id=1&option=com_virtuemart&Itemid=1"><i>Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute</i></a>. Si tratta di un’etnografia svolta fra il 2014 e il 2020 presso un laboratorio di metagenomica, il Segata Lab del CIBIO (Center for Integrative Biology) dell’università di Trento. Con metagenomica si intende “[…] lo studio di comunità microbiche nel loro ambiente naturale (in-vivo) che si basa su tecniche avanzate di sequenziamento del DNA dei membri della comunità microbica che si vuole studiare” (Raffaetà, 2020, p.37), in parole più semplici, si tratta dello studio dei microbi, l’oggetto principale del libro. Per quanto riguarda l’obiettivo della ricerca, l’autrice sottolinea come il suo intento fosse studiare cosa significhi essere umani dalla prospettiva microbica.<br />
<br />
Il motivo per cui ho deciso di commentare la lettura di <i>Antropologia dei microbi</i> in questo blog è che ritengo che il suo contenuto sia importante per tre motivi fra loro correlati: 1) può fornire una nuova e interessante chiave di lettura alla pandemia in corso, 2) può aiutare ad aumentare la consapevolezza rispetto all’ecosistema che abitiamo e 3) può stimolare riflessioni che portino alla luce sfumature non ovvie dell’antropologia e del lavoro antropologico.<br />
<br />
La prima volta che ho letto la dicitura “antropologia medica” fra i vari corsi in programma previsti dalla magistrale in Scienze antropologiche ed etnologiche della Bicocca sono rimasta stupita e mi sono chiesta in che modo antropologia e medicina potessero centrare l’una con l’altra. Credo che questo stesso stupore e questa stessa domanda possano essere suscitati dall’accostamento fra i termini “antropologia” e "microbi”, il cui rapporto è ancora meno intuibile di quello fra antropologia e medicina. Lo stesso Prof. Simonicca, che ha scritto la presentazione del libro, parla proprio di spaesamento nei confronti dell’accostamento di una disciplina che studia gli esseri umani e di qualcosa che è nel dominio di una disciplina che studia le entità biologiche. A questo punto è lecito chiedersi esplicitamente: cosa c’entrano i microbi con l’antropologia? Cosa vuol dire “studiare gli esseri umani dalla prospettiva microbica”? E cosa c’entrano i microbi con la pandemia di COVID-19? Le risposte a queste domande si implicano a vicenda in una logica relazionale e per fare chiarezza comincerò nel definire cosa sono i microbi, rielaborando quanto contenuto nel libro di Raffaetà.<br />
<br />
Meglio conosciuti nel linguaggio comune come “batteri”, i microbi sono organismi viventi di dimensioni microscopiche e generalmente unicellulari. Nel dibattito scientifico contemporaneo, i microbi vengono distinti in procarioti, che si dividono a loro volta nei sottogruppi batteri (o eubatteri) e archea ed eucarioti. Ciò che è interessante per una lettura diversa della pandemia è che di questo mondo microscopico fanno parte anche i virus, entità biologiche parassitiche che hanno necessità di almeno una cellula per potersi riprodurre. I microbi, dunque anche i virus, si trovano dappertutto, anche attorno e dentro a noi e possono essere causa di pandemie, così come rivelarsi preziosi alleati per la salute umana. Di conseguenza, come spiega in modo chiaro Raffaetà (2020) esplicitando la linea che ha guidato e guida tutte le sue ricerche, ciò significa che la salute non è solo la proprietà di un corpo, ma emerge da una rete di relazioni. Seguendo questo ragionamento, non è corretto pensare al COVID-19 come ad un corpo estraneo (Ferrari, Guigoni, 2020) arrivato dal nulla, che ha provocato da solo questa situazione, perchè non è un elemento esterno o nemico del nostro ecosistema, ma qualcosa che ne fa parte e che ci ha ricordato che gli esseri umani sono una specie indissolubilmente legata alle altre (Quammen, 2012).<br />
<br />
<div style="text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyeFSCNkoAPTBxZltTTtk-HQ6F9UHap9ywqENKJXQoUsuKTUtPPU95pXSsyhB1Fj7UabcvHUwia4Rxn68Ek0hyphenhyphen_ekr3QLSsLcrHpcclEc6LE77Lhs9gzgMle6UXqx0IqQGDktTh1LJnX8/s1600/1.jpg"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyeFSCNkoAPTBxZltTTtk-HQ6F9UHap9ywqENKJXQoUsuKTUtPPU95pXSsyhB1Fj7UabcvHUwia4Rxn68Ek0hyphenhyphen_ekr3QLSsLcrHpcclEc6LE77Lhs9gzgMle6UXqx0IqQGDktTh1LJnX8/s400/1.jpg" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<a href="https://www.earthlymission.com/amazing-planets-of-bacteria/?cn-reloaded=1"><span style="font-size: x-small;">Piastra di Petri che contiene i microbi presenti sulle chiavi</span></a></div>
<br />
Ciò che ci ha fatto ammalare è l’interazione del virus con una serie di fattori umani e sociali e solo a partire dalla presa di coscienza che condividiamo lo stesso mondo si può avviare un processo per mantenerne gli equilibri. Sebbene il lavoro di Raffaetà sia iniziato ben prima della pandemia, l’autrice nel suo libro manda un messaggio molto attuale. Infatti, l’antropologa insiste sull’urgenza di arrivare a questa presa di coscienza e suggerisce di considerare la salute in un’ottica ecosistemica, intendendo con questo di considerarla nella visione più ampia della convivenza: è importante cominciare da subito ad “[…] interrogarsi [su] come è possibile vivere bene insieme in un mondo in cui, volenti o nolenti, siamo tutti implicati in un intreccio di relazioni con umani e non-umani” (Raffaetà, 2020, p. 26). Questo significa che i microbi vanno presi sul serio, perchè il loro destino “[…] è strettamente legato al nostro” e “forse è il momento di cominciare a considerare le modalità di questa co-abitazione con maggiore serietà e responsabilità” (Raffaetà, 2020, p. 30). Per potere effettuare tale operazione, Raffaetà ci dice che è necessario integrare diversi sguardi e diverse sensibilità disciplinari ed è quanto ha fatto con la sua ricerca. Infatti, il campo si è svolto in mezzo a biologi e biologhe e bioinformatici e bioinformatiche che si occupano di metagenomica: li ha studiati come se fossero una tribù, osservandone le pratiche ed imparando il loro linguaggio. La necessità di istituire una collaborazione fra le cosiddette “scienze dure” e le “scienze umane” è la spina dorsale che percorre tutto il testo e, a mio parere, l’autrice ci ha mostrato attraverso il suo approccio applicativo, che non solo questa collaborazione è auspicabile, ma che è anche possibile, a patto che ci sia un “[…] riconoscimento e rispetto delle [reciproche] differenze” (Raffaetà, 2020, p. 255).<br />
<br />
Da qui uno dei motivi per cui, secondo me, questo libro ha una portata innovativa in termini di lettura e comprensione della pandemia. Nell’antropologia italiana non c’era ancora uno studio simile, che mostrasse come un’alleanza fra scienze, in questo caso fra antropologia e metagenomica, oltre a rendere ancora più evidente come la loro separazione sia costruita tanto quanto quella fra natura e cultura (Descola, 2005), possa produrre una conoscenza molto più ricca e democratica. Chi più di coloro che nelle scienze naturali studiano i microbi può aiutarci a capire qualcosa di questi microorganismi? E chi più degli scienziati sociali può aiutare a calare le loro ricerche nella società? La prima fase dell’epidemia ci ha mostrato chiaramente che l’attuale modo di procedere, ovvero la separazione tra le scienze sociali e le scienze naturali con le prime che si limitano alla critica nei confronti delle seconde, non funziona: è stata affrontata in una dimensione di panico perché ci ha posto domande complesse a cui non sapevamo rispondere e che tutt’ora non hanno risposta, perché, come l’autrice mostra nel libro, nessuna scienza è in grado di fornirla in modo definitivo. In fondo, come fa notare Raffaetà, non ci è nemmeno possibile poter comprendere completamente il mistero della natura, ma, forse, rileggendo la situazione in un’ottica ecosistemica e cominciando un serio dialogo interdisciplinare, i rapporti fra umani e non-umani potranno essere ridiscussi e sarà anche possibile ripensare la salute in modo non antropocentrico, ovvero in un’ottica di “umanismo critico” (Raffaetà, 2020, p. 263).<br />
<br />
Un umanismo critico inteso come uno scostarsi dall’antropocentrismo è quanto mai necessario, dal momento che, come scrive l’autrice citando il biologo Stephen Jay Gould, la Terra è sempre stata nell’epoca dei batteri e “[…] i microbi sono entità estremamente più resilienti ed essenziali alla vita di noi” (Raffaetà, 2020, p. 255). Oggi la biologia computazionale è un’alleata preziosa per avviare questo processo, dal momento che ci offre gli strumenti per misurare le interconnessioni che caratterizzano il nostro ecosistema. L’antropologia ha bisogno di queste misurazioni quanto queste misurazioni hanno bisogno dell’antropologia per essere interpretate, dal momento che i numeri dipendono dal contesto e “[…] sviluppare la capacità di leggere i numeri al di là di essi e comprendere i processi e le logiche della ricerca scientifica è essenziale e rappresenta un potente antidoto al diffondersi di bufale che polarizzano e semplificano la situazione, spesso manipolando l’opinione pubblica” (Raffaetà, 2020, p. 257).<br />
<br />
La questione delle bufale è particolarmente attuale e riguarda da vicino le discussioni attorno alla pandemia, specialmente nella dimensione del digitale. Anche in questo ambito, l’approccio antropologico potrebbe avere molto da dire, relazionando l’enorme numero di dati quantitativi che sono stati riversati attraverso i media nel corso della pandemia alle loro interpretazioni e problematicità (Ferrari, Guigoni, 2020), ma non senza una negoziazione e una collaborazione con chi lavora con il linguaggio digitale e i suoi strumenti. Dico questo perché sto provando personalmente la necessità di comprendere come integrare lo sguardo antropologico che ho appreso nel corso della mia formazione e la prospettiva di chi lavora in un altro ambito, nel mio caso quello del digitale. In questo periodo sto seguendo un corso in digital curation e spesso, quando intervengo a lezione, le questioni che sollevo mettono in difficoltà gli interlocutori, a volte non ricevo risposta, o la ricevo a fatica. In generale, l’impressione è che ognuno rimanga semplicemente sulle sue posizioni. Ho cominciato a chiedermi quale fosse il problema e la soluzione a cui pian piano sto arrivando, e che questo libro ha contribuito ad ispirare, è che devo sforzarmi a non limitarmi a decostruire quello che gli altri dicono, ma devo proporre anche soluzioni per ricostruire. L’unico modo per fare questo è, assieme al criticismo, comprendere anche quanto hanno da offrire altre discipline e avviare un confronto democratico, aperto e costruttivo. <br />
<br />
Il caso della pandemia ha mostrato con forza quanto sia necessaria una correlazione fra discipline: il modo in cui pensiamo alle epidemie e al contagio riflette un modo culturalmente determinato di intendere la relazione fra umani e non-umani e il virus stesso mette in crisi i fondamenti della biopolitica contemporanea, “[…] ovvero la distinzione tra vita e non vita e l’assunto vitalista in base al quale costruiamo le nostre gerarchie ontologiche e di valore” (Raffaetà, 2020, p. 260), perché gli stessi biologi e biologhe dibattono se il virus debba essere definito come un essere vivente o meno. Raffaetà ci dice che tutto questo mostra come la pandemia e anche la crisi ambientale pongano questioni etiche e morali sul modo di relazione all’interno dell’ecosistema e sul come immaginiamo queste relazioni. Questo è ciò che significa comprendere cosa significhi essere umani dal punto di vista dei microbi.<br />
<br />
<div style="text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjaseZ6QydzbjW0-W3nVRS1wKMJdtvn_1ArihcaI1Yw1YLh4mxN4tH1_aIkB-xsvLiWJejvdzFHTmWs9AiwtUK2Ag4xbfTIivfwPA2IfIpo1aFpUWVN4c67b9gvo5OSxW43AbgmdPoUhoA/s1600/2.jpg"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjaseZ6QydzbjW0-W3nVRS1wKMJdtvn_1ArihcaI1Yw1YLh4mxN4tH1_aIkB-xsvLiWJejvdzFHTmWs9AiwtUK2Ag4xbfTIivfwPA2IfIpo1aFpUWVN4c67b9gvo5OSxW43AbgmdPoUhoA/s400/2.jpg" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<a href="https://www.earthlymission.com/amazing-planets-of-bacteria/?cn-reloaded=1"><span style="font-size: x-small;">Piastra di Petri che contiene i microbi presenti su un computer portatile</span></a></div>
<br />
Il secondo motivo per cui questo libro è innovativo è che ha aperto la strada per indagare l’antropologia della scienza anche in Italia e di conseguenza ha scavato un primo sentiero per tutti gli/le studenti e studentesse, i/le giovani antropologi e antropologhe e anche per gli/le antropologi e antropologhe più esperti per poter percorrere questo tipo di studio senza partire da zero. Facendo questo, secondo me, ha dato anche la possibilità di riflettere ulteriormente su cosa sia un/a antropologo/a e in cosa consista il suo lavoro. Nello specifico, trovo che lo spaesamento che il Prof. Simonicca e quello che può provare un/una giovane antropologo/a nel vedere accostati i termini “antropologia” e “microbi” siano legati ad una questione che tormenta, se non tutti gli/le antropologi e antropologhe, almeno quelli/quelle alle fasi iniziali: definire cosa sia un/una antropologo/a e soprattutto far capire agli altri cosa fa e a cosa serve, specialmente quando si cerca di accedere al mondo esterno all’Accademia. Non posso certo parlare per tutti/e gli/le antropologi e antropologhe, ma credo che in molti si ritroveranno nella situazione in cui ci si presenta professionalmente. La reazione degli interlocutori nel sentire la parola “antropologo/a” varia da sorpresa/imbarazzo, perché non si sa di cosa stiamo parlando, all’esclamazione: “Ah! Quello/a che studia le ossa!”. Sebbene non tutti/e gli antropologi e antropologhe possano essere interessati allo studio della scienza, ciò che secondo me dovrebbe accomunarci tutti/e è che abbiamo la necessità di capire e saper comunicare in modo chiaro chi siamo e quale sia il nostro ruolo, tanto più se vogliamo poter dare un contributo alla società e al discorso sulla pandemia. Il libro di Raffaetà ci dà degli spunti interessanti in questo senso. <br />
<br />
Antropologia dei microbi ci ricorda che la biologia è legata a doppio filo alla cultura, che le nostre interazioni con questi microrganismi sono culturali e questo apre moltissimi scenari al lavoro antropologico: ci dice che possiamo occuparci anche di qualcosa che apparentemente sembrava non appartenere al dominio della “nostra scienza” e ci dice che la nostra conoscenza e i nostri strumenti, uniti a quelli delle scienze naturali, possono costruire un ponte fra discipline. Nicola Segata, il coordinatore del Segata Lab, che ha scritto la prefazione del libro, sottolinea che il suo laboratorio fosse già predisposto alla multidisciplinarità, ma “il salto all’antropologia è di gran lunga più spericolato e richiede un’elasticità a cui non eravamo avvezzi nel perimetro della nostra multidisciplinarità […]” (Raffaetà, 2020, p. 16). Trovo che questo salto spericolato sia lo stesso che Roberta Raffaetà ha fatto verso le scienze naturali e con questo sforzo ci ha detto, così come esplicita nella conclusione del libro, che gli/le antropologi e antropologhe possono anche frequentare le frontiere interdisciplinari, perché la cultura si nutre di interdipendenze.<br />
<br />
Gli antropologi e le antropologhe quindi possono osare questo salto spericolato e, secondo me, tale opportunità non solo incoraggia i giovani a portare il loro bagaglio antropologico ovunque la vita li porterà, ma di fatto dice loro che possono avere accesso e portare contributi importanti in tutti gli ambiti che possono essere di loro interesse. Raffaetà ci ha fatto vedere che è possibile studiare gli scienziati e le loro pratiche con gli strumenti dell’antropologia, come se fossero una tribù, e credo che quello che ha fatto lei sia applicabile anche in altri ambiti, come all’interno del digitale citato sopra o di un’azienda, ad esempio. <br />
<br />
Da qui l’altro grande contributo che il salto dell’autrice ha dato ai/alle giovani antropologi e antropologhe e non solo: la collaborazione è preziosa e possiamo imparare tantissimo da altre discipline. Personalmente ho trovato di grande ispirazione l’ambito della metagenomica: nonostante esista una grande competizione tra laboratori, esiste anche una forte etica che si basa sulla condivisione di informazioni. Per esempio, il Segata Lab sviluppa strumenti che vengono utilizzati anche da altri scienziati e, i ricercatori gioiscono se altri riescono a fare delle grandi scoperte grazie agli strumenti da loro offerti. Inoltre, la metagenomica è anche molto onesta nel riconoscere che è esposta a moltissimi errori, dati dalla difficoltà di gestire milioni di comunità microbiche simultaneamente. Questo atteggiamento, definito da Raffaetà di “affascinata umiltà”, si accompagna ad una serie di pratiche nello studio dei microbi che richiedono un riduzionismo necessario: hanno troppi dati su cui lavorare e curarsi anche della dimensione socio-politica va oltre le loro capacità. Guardando il riduzionismo dal punto di vista della metagenomica si capisce la sua logica. Al tempo stesso, però, i bioinformatici e le bioinformatiche e i biologi e le biologhe del Segata Lab attraverso il dialogo con un’antropologa hanno riconosciuto quanto la dimensione politico-sociale sia importante e come potrebbe essere integrata nei loro studi, come osserva Nicola Segata nelle ultime righe della sua prefazione: “E con questa mia nuova sensibilità sul valore di come siamo visti e interpretati, piuttosto che per come definiamo noi stessi quello che facciamo e la materia che studiamo, sembra quasi che “l’antropologia dei microbi” mi abbia già influenzato più di quanto credessi” (Raffaetà, 2020, p. 17).<br />
<br />
Alla luce di quanto detto fino ad ora, <i>Antropologia dei microbi </i>di Roberta Raffaetà fornisce degli strumenti fondamentali per riconsiderare il nostro ecosistema, specialmente in un’ottica post-COVID-19: sebbene il libro mostri che la collaborazione non è sempre facile, solo a partire dalla consapevolezza che insieme, con le differenze che ci caratterizzano e che danno ricchezza al dibattito, si potrà produrre una conoscenza che ci permetterà di capire meglio questa pandemia, di convivere con le sue conseguenze e soprattutto tornare a convivere consapevolmente con i microbi all’interno del nostro comune ecosistema.<br />
<br />
Descola P. (2005), <i>Oltre natura e cultura</i>, ed. it Nadia Breda (a cura), Firenze, SEID Editori<br />
Ferrari R., Guigoni A. (2020) (a cura), <i>Pandemia. La vita quotidiana con il Covid-19</i>, M&J Publishing House<br />
Quammen D. (2012), <i>Spillover</i>, Milano, Adelphi<br />
Raffaetà R. (2020), <i>Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute</i>, CISU, Roma<br />
Raffaetà R. (2020), <a href="https://aspeniaonline-it.cdn.ampproject.org/c/s/aspeniaonline.it/amp/una-prospettiva-antropologica-sui-virus/"><i>Una prospettivaantropologica sui virus</i></a>, da «Aspenia Online»<br />
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<br />
Milano, 1 giugno 2020<br />
Francesca Esposito<br />
Laureata in Scienze antropologiche ed etnologiche<br />
Università degli Studi Milano-Bicocca<br />
<br />
<i>Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.</i><br />
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/">World Anthropology Day - Antropo</a><a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">logia pubblica a Milano</a>.</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-13215494536741648472020-05-26T10:30:00.000-07:002020-05-26T10:32:29.894-07:00Pandemic Insights<div style="text-align: justify;">
Segnaliamo con piacere la pubblicazione sull'<a href="https://www.anthropology-news.org/" target="_blank">Anthropology News</a> dell'<a href="https://www.americananthro.org/" target="_blank">American Anthropological Association (AAA)</a> di un contributo a firma del gruppo di lavoro del World Anthropology Day - Antropologia Pubblica a Milano per la rubrica <a href="https://www.anthropology-news.org/index.php/category/pandemic-insights/" target="_blank">"Pandemic Insights"</a>, che raccoglie contributi di antropologi di ogni parte del mondo sui temi inerenti l'epidemia globale di Covid-19. Il nostro intervento, intitolato <a href="https://www.anthropology-news.org/index.php/2020/05/18/back-to-the-future-in-milan/" target="_blank">Back to the Future in Milan</a>, ricostruisce brevemente la genesi, gli obiettivi e i risultati del blog "La giusta distanza" inserendoli nel quadro di una riflessione sul presente e sui futuri possibili dell'antropologia pubblica. </div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZpt1kSi0taa6Xhyphenhyphen1j2TLQ1N4WyijPno2Dl8zW6jAAHw2FwQw65-Z-KpCspKdGnsnKZpfwxak_8vwPrq6onWH4ypxUFwDN7C3skyZuHjYOda9-aNPnqVXS2mtHRDD9kR2x3RLfxG9njZI/s1600/SwirlsText_PandemicInsights_WhiteShadow.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="320" data-original-width="720" height="177" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZpt1kSi0taa6Xhyphenhyphen1j2TLQ1N4WyijPno2Dl8zW6jAAHw2FwQw65-Z-KpCspKdGnsnKZpfwxak_8vwPrq6onWH4ypxUFwDN7C3skyZuHjYOda9-aNPnqVXS2mtHRDD9kR2x3RLfxG9njZI/s400/SwirlsText_PandemicInsights_WhiteShadow.png" width="400" /></a></div>
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Il testo integrale è disponibile sul sito di "Anthropology News", al quale vi rimandiamo. Qui di seguito vi proponiamo un breve estratto del testo:</div>
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<i>Reflecting on the “pandemic present” also holds an orientation for the future, which is, in Bryant and Knight’s words, “a way of thinking about the indeterminate and open-ended theologies of everyday life.” In liminal times, the blog promotes anthropological analyses of possible future scenarios, anticipating public debates, evaluations, and negotiations about the world that will come. If we were not prepared for the impact of the pandemic and found refuge in the outer space of comfort theories, we now must be collectively ready for the post-pandemic return back to Earth with renovated tools.</i></div>
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<i><br /></i></div>
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<i>At the same time, an orientation for the future acts reflexively on the role of public anthropology itself. Following Antonio Gramsci, crises consist in the fact that the old is dying and the new cannot be born. How we decide to act as public anthropologists in this crisis will define the future of the discipline.</i></div>
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Milano, 26 maggio 2020</div>
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Ivan Bargna, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera, Francesco Vietti</div>
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World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</div>
<div style="text-align: start;">
Università di Milano Bicocca</div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-39648344144094079752020-05-26T03:01:00.001-07:002020-05-26T10:37:41.196-07:00Denaro e quarantena<div style="text-align: justify;">
Il lockdown ha stravolto la maggior parte delle nostre abitudini, anche quelle più intime, legate al rapporto con il tempo, lo spazio e il corpo. Alcune di queste pratiche sono parte di una routine così automatizzata e inconscia che non ci pensiamo neanche più. In quarantena, abbiamo guardato gli oggetti quotidiani con occhi nuovi, è certo. Lo hanno detto in tanti, sotto tantissimi punti di vista. Le relazioni umane e le pratiche della vita quotidiana sono cambiate, schermi dove prima c’erano occhi, guanti e mascherine a coprirci e proteggerci. Anche gli ambienti in cui trascorriamo il tempo si sono ridotti drasticamente. Stefano Mancuso ha fatto notare come questa esperienza ci avvicini alla comprensione della vita delle piante, che si muovono senza potersi spostare, sono attentissime alle risorse disponibili nelle immediate vicinanze e a ciò che succede intorno a loro. </div>
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L’aspetto della vita materiale che ha catturato di più la mia attenzione, forse sintomo di una leggera ipocondria, è la relazione con oggetti che provengono dall’esterno: la busta della spesa, le chiavi di casa, le scarpe, il denaro. In casa mia regna un regime molto severo, lo ammetto. La procedura per uscire e rientrare a casa prevede: spogliarsi in balcone, ripetuti lavaggi di mani, appoggiare gli oggetti su un apposito ripiano e pulire tutto con l’alcol, recuperato dopo estenuanti giri tra i negozi bengalesi della zona. Banconote e monete sono state in qualche modo esiliate, allontanate dal mio corpo. Questa circostanza ha per certi versi cambiato, fosse anche in minima parte, il mio rapporto coi soldi.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIdqxn07Gvr9BaGkb55gIKR39GDexwfRTMKEfOlygGRxME9knHtB4RzZZjDNNydjhMwGv06JkdoZ9gDi6RNQLJd8hWLVrOgqkzwaiZRMESlz2bu4u_aYZTDrxx9GH01RejvPKGGrZSOgc/s1600/MASSEY200414.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="626" data-original-width="1000" height="250" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIdqxn07Gvr9BaGkb55gIKR39GDexwfRTMKEfOlygGRxME9knHtB4RzZZjDNNydjhMwGv06JkdoZ9gDi6RNQLJd8hWLVrOgqkzwaiZRMESlz2bu4u_aYZTDrxx9GH01RejvPKGGrZSOgc/s400/MASSEY200414.jpg" width="400" /></a></div>
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Scambiare e utilizzare denaro è un gesto scontato, anche quando non abbiamo soldi è difficile immaginare o mettere in pratica alternative. L’antropologo David Graeber si è speso tantissimo per decostruire la necessità di questo rapporto sociale e dimostrare che il denaro, i debiti, la compravendita e l’economia come sfera separata della vita sociale non sono sempre esistite. Tuttavia è una pratica così radicata nel comportamento da sembrarci ovvia e naturale. In altre parole embedded, come la scrittura o l’uso di un paio di scarpe. </div>
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Il denaro potrebbe essere definito come una grammatica sociale che tutti conosciamo. Ha plasmato e si è adattato al pensiero e alle società umane in modo capillare. Contro di lui sono state lanciate imprecazioni e accorate benedizioni. Se volessimo seguire Bruno Latour, e adottare un approccio estremamente inclusivo verso le specie animali, vegetali e verso tutti quegli agenti non-umani che fanno parte del nostro ambiente, anche il denaro potrebbe avere un agency ed essere paragonato a una specie invasiva e parassitaria. Per esempio un piccione. Specie contro cui - per inciso - in casa mia vige una profilassi altrettanto minuziosa, visto che siamo impegnati in una lotta per disinfestare un balcone che, dopo anni di semi-abbandono, ha dato i natali a generazioni di questi testardi e disgustosi animali.<br />
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Ma il denaro non è solo questo, è parte di un sistema di relazioni socio-economiche, è uno strumento ideologico e di governo, è un simbolo di successo o di fallimento… Nella sua materialità non è sempre stato uguale a se stesso e non avrà per sempre la forma che conosciamo oggi. Le carte di credito, i sistemi di pagamento online, l’abitudine di comprare a rate hanno già reso in parte obsoleti i contanti. E per due mesi l’oggetto denaro è quasi scomparso dalla mia vita. Da un certo punto di vista è stata una perdita, perché insieme a lui sono scomparse una quantità di cose e avvenimenti che lo accompagnavano. Ma una perdita accompagnata da un vano e fugace senso di liberazione. Utopisticamente, mi sono trovata un passo più vicino all’immaginare che un giorno il denaro potrebbe non esistere più e l’economia essere guidata da regole completamente nuove.<br />
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<a href="https://www.focus.it/images/2020/02/17/coronavirus-e-denaro_w630.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img alt="Epidemia da coronavirus: la Cina pulisce le banconote - Focus.it" border="0" height="245" src="https://www.focus.it/images/2020/02/17/coronavirus-e-denaro_w630.jpg" width="400" /></a></div>
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Il Covid-19 rappresenta una crisi senza precedenti per il nostro modello sociale, è l’esperienza traumatica più invasiva che le società occidentali si trovano a vivere dopo la seconda guerra mondiale. Per alcuni un nuovo undici settembre, per altri un passaggio cruciale nella critica e nella lotta al modello di sviluppo neoliberista e antropocentrico. Personalmente non sono tra quelli che elogiano il lockdown come occasione di crescita, sono sempre stata scettica verso chi diceva che da questa esperienza saremmo usciti migliori, come individui e come società. Per me l’epidemia assomiglia più a un abisso che a un portale.</div>
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Tuttavia mi chiedo come potremmo trarre beneficio dal potenziale creativo della distruzione, dalla molteplicità di situazioni e sensazioni nuove, dalle abitudini stravolte, dalla rinegoziazione di rapporti con cose e persone che davamo per scontate. La mia impressione è che questo insieme di esperienze costituiscano una matassa di saperi nuovi, una materia ancora inerme da lasciar germogliare e innestare nelle nostre relazioni. </div>
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A pensarci bene queste conoscenze, estremamente personali ma significative e condivisibili su larga scala, potrebbero davvero diventare uno strumento potentissimo per il riconoscimento reciproco tra individui e gruppi diversi e lontani. Per farci largo nella storia e orientare processi di trasformazione e libertà abbiamo bisogno di unirci, aprirci verso l’esterno e prenderci cura della diversità all’interno. In molt* sentiamo l’urgenza di tornare a sentirci parte di collettività culturalmente inclusive e politicamente incisive. Forse una pista da seguire potrebbe essere quella di mettere in comune il vissuto, i bisogni, le idee e le emozioni scaturite da questa situazione così sconvolgente e inaspettata; e utilizzare tutto ciò come ceppi di legna secca da gettare tra le fiamme del cambiamento.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdkbunTmb9pxIW6BSxoB8ntBINGD5YKU0b-B47ahHw9Wb_R5nYrQcX6poZFfkKcCce-ixcS6BaiI_osjeH0yKzFX3SryU6YAJ6fHGI7qAOpYRt3ls5TKktBuFRs-7tfFlMpI5ZKzzJeDc/s1600/murales-imponenti-maestoso-piccione-super-a-5.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="500" data-original-width="1000" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdkbunTmb9pxIW6BSxoB8ntBINGD5YKU0b-B47ahHw9Wb_R5nYrQcX6poZFfkKcCce-ixcS6BaiI_osjeH0yKzFX3SryU6YAJ6fHGI7qAOpYRt3ls5TKktBuFRs-7tfFlMpI5ZKzzJeDc/s400/murales-imponenti-maestoso-piccione-super-a-5.jpg" width="400" /></a></div>
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P.S.: non vi preoccupate il balcone dei piccioni non è lo stesso dove metto i vestiti. </div>
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Roma, 26 maggio 2020<br />
Francesca Messineo</div>
<div style="text-align: justify;">
Dottorato in Scienze Sociali Applicate</div>
<div style="text-align: justify;">
Università di Roma - La Sapienza<br />
<br />
P.S.2: questo post, per inevitabile contagio delle storie, mentre attendeva di venire pubblicato sul nostro blog è uscito anche su <a href="https://www.qcodemag.it/" target="_blank">Q Code Mag</a>. Se l'avete letto qui e vi è piaciuto, potete anche rileggerlo là (e viceversa). Vi consigliamo inoltre di immergervi nella lettura degli altri interessanti testi della rubrica <a href="https://www.qcodemag.it/sequenze/contagio-delle-storie/" target="_blank">Contagio delle storie.</a><br />
<br /></div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a></div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-38825938851404075802020-05-21T02:15:00.000-07:002020-05-21T02:20:38.582-07:00Border Trouble: ripensare le mobilità e i confini dal "limbo" marocchino // FASE 2<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
C’è un’immagine, ripresa da alcune <a href="https://www.tpi.it/esteri/ragazza-piazza-marrakech-foto-emergenza-coronavirus-20200320570165/" target="_blank">testate italiane</a>, che ha fatto il giro dei social media nei giorni dello scoppio della pandemia: la fotografia, scattata a Marrakech, ritrae una ragazza quasi completamente sola in una deserta Jemaa el Fna, una delle piazze più famose al mondo, patrimonio mondiale dell’umanità e principale icona del Marocco. È un’immagine straniante e surreale soprattutto per chi come me, solo qualche giorno prima, si trovava ad attraversare la “mitica” piazza, popolata dalla consueta e variopinta “corte dei miracoli” (fatta di cantastorie, incantatori di serpenti, acrobati, musicisti, teatranti, guaritori tradizionali, chiromanti, tatuatrici, ambulanti, etc) che vi si riunisce ogni giorno, mettendo in scena un vero e proprio spettacolo<i> en plein air</i>, capace di attrarre milioni di turisti affamati di “esotismo e alterità”. </div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFzlq0N5DcQekbfnpVVVdE6M2JRKF3hWuBGoCHKFmT9ul9Mv9yztw2cogRgXvz6Q0cCz3winZZx1LGX4nPhyphenhyphenNgLQBE2CTFGn8RQ2p9-b_ayPlo7_XumLi-c4uxHDUQN8Bne593nA4_yAc/s1600/1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFzlq0N5DcQekbfnpVVVdE6M2JRKF3hWuBGoCHKFmT9ul9Mv9yztw2cogRgXvz6Q0cCz3winZZx1LGX4nPhyphenhyphenNgLQBE2CTFGn8RQ2p9-b_ayPlo7_XumLi-c4uxHDUQN8Bne593nA4_yAc/s400/1.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: center;">
<span style="font-size: x-small;"><i>Fonte: The Post International</i></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’irrompere
della pandemia ha spazzato via tutto, innescando effetti inediti e paradossali:
con un’escalation rapida e imprevedibile, a metà marzo, il Regno ha deciso di chiudere
le proprie frontiere e di imporre, a scopo precauzionale, un rigido
confinamento (ancora in corso). Le strade di Marrakech, già ricolme di
visitatori sbarcati dai numerosi aerei low cost che collegano la più importante
meta turistica del Nordafrica alle principali città del Vecchio Continente, si
sono svuotate da un giorno all’altro. Con la repentina chiusura delle frontiere
e l’immediata sospensione dei voli internazionali, però, migliaia di turisti
europei sono rimasti bloccati nel paese, sperimentando per la prima volta il “trauma
dell’immobilità” (Ben Lazreq, Garnaoui 2020), fino a quel momento riservato
esclusivamente ai locali e ai migranti subsahariani fermi da anni nel “limbo
marocchino”. Questa situazione inconsueta ha provocato scene di panico e sdegno
(culminate nelle proteste spontanee nei principali aeroporti del Marocco) e un
senso di diffusa incredulità nel trovarsi per una volta “dall’altra parte”:
come scrive Marmié a proposito dei “francesi bloccati in Marocco”, essi
improvvisamente “hanno scoperto, sotto shock, la reversibilità della situazione
migratoria e la sparizione temporanea dei loro privilegi di circolazione” (Marmié
2020). Termini come </span><i style="font-family: inherit;">confinement </i><span style="font-family: inherit;">(confinamento) et </span><i style="font-family: inherit;">rapatriament</i><span style="font-family: inherit;">
(rimpatrio) d’un tratto non riguardano più solamente gli “altri”, i “migranti”
ma anche i gli “expat”, i “turisti”, i quali se da un lato ricevono numerosi </span><a href="https://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2020/03/14/news/marocco-251267966/" style="font-family: inherit;" target="_blank">attestati di solidarietà</a><span style="font-family: inherit;"> da parte della popolazione locale, dall’altro - visti
come “untori” -</span><span style="font-family: inherit;"> </span><span style="font-family: inherit;">sono anche oggetto di
stigmatizzazione e ostilità.</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma è a
circa seicento chilometri a nord di Marrakech, nelle zone di frontiera tra
Spagna e Marocco, che accade l’impensabile: alcuni giovani marocchini </span><a href="https://fr.le360.ma/societe/coronavirus-depuis-sebta-quatre-jeunes-marocains-rentrent-au-paysa-la-nage-211601" style="font-family: inherit;" target="_blank">fuggono a nuoto</a><span style="font-family: inherit;">
dall’enclave spagnola di Ceuta, uno dei simboli più potenti della “Fortezza
Europa”, per tornare nel loro paese d’origine dove si sentono più al sicuro. Qualche
settimana dopo, il quotidiano </span><a href="https://elpais.com/espana/2020-04-23/mas-de-5000-euros-por-escapar-de-espana-en-patera.html" style="font-family: inherit;" target="_blank"><i><span style="color: #4472c4;">El Pais</span></i></a><span style="color: #4472c4; font-family: inherit;"> </span><span style="font-family: inherit;">riporta la notizia che i </span><i style="font-family: inherit;">passeurs</i><span style="font-family: inherit;"> dello Stretto
hanno iniziato a organizzare costosi viaggi a senso inverso per permettere ai
marocchini bloccati nel paese iberico, fortemente colpito dal Coronavirus, di
ritornare a casa.</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Un paio
di anni fa, per una mia precedente ricerca, mi sono occupata del confine “in
movimento” tra Spagna e Marocco, sottolineandone il carattere flessibile e cangiante
(Turchetti 2019b) ma mai mi sarei aspettata di trovarmi davanti a uno scenario
del genere, dall’oggi al domani. Di primo acchito, nello sconvolgimento di quei
giorni e nella difficoltà di mettere a fuoco ciò che stava accadendo sotto i
miei occhi, mi è tornato alla mente il bel romanzo di Abdourahman Waberi “Gli
Stati Uniti d’Africa”, in cui lo scrittore francese nativo di Gibuti prova a
immaginare un “mondo al contrario” dove i</span><span style="font-family: inherit;">
</span><span style="font-family: inherit;">migranti si accalcano alle frontiere del continente africano,
spostandosi da Nord verso Sud.</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Al di là
di suggestioni letterarie estemporanee, tuttavia, è evidente che il mondo non si
sia affatto capovolto. Per quanto buona parte della popolazione mondiale stia
sperimentando forme di confinamento e restrizione delle libertà, a dispetto di
ogni retorica, non siamo “tutti sulla stessa barca”: la pandemia ha acuito le
disuguaglianze e aumentato la vulnerabilità dei migranti e dei rifugiati in
Marocco e </span><a href="https://www.connessioniprecarie.org/2020/03/24/dallinferno-di-lesbo-il-razzismo-dei-confini-europei-con-e-senza-coronavirus/" style="font-family: inherit;" target="_blank">altrove</a><span style="font-family: inherit;">
(Agier 2020). Nonostante la momentanea riconfigurazione del paradigma della </span><a href="https://migration.iom.int/?fbclid=IwAR1B9dhFb3Q2JmzVMMrwCDFUBowSzcSxwH7weDLK1qq4ZnQr_lJ1qRCvOas" style="font-family: inherit;" target="_blank">mobilità globale</a><span style="font-family: inherit;"> (Borriello, Sahiloglu 2020), poi, le gerarchie e i privilegi di
circolazione non sono stati realmente scompaginati: gli europei bloccati in
Marocco (me compresa) sono tornati quasi tutti a casa con voli speciali autorizzati
dal governo marocchino, mentre </span><a href="https://information.tv5monde.com/afrique/coronavirus-la-galere-des-migrants-subsahariens-au-maroc-359113" style="font-family: inherit;" target="_blank">i migranti subsahariani</a><span style="font-family: inherit;"> sono sempre nel paese in una condizione di ancora
maggiore precarietà, immobilità, sospensione (che colpisce anche gli strati più
vulnerabili della popolazione locale).</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ciò che è
cambiato in questi mesi, però, è sicuramente il livello di attenzione posto sul
tema, soprattutto nelle prime settimane dopo lo scoppio della pandemia: </span><span style="font-family: inherit;"> </span><span style="font-family: inherit;">le migrazioni e le frontiere, negli ultimi
anni al centro di innumerevoli dibattiti, sono d’improvviso quasi del tutto sparite
dalle agende politiche e accademiche, fagocitate dal Coronavirus (Firouzi Tabar
2020). </span><span style="font-family: inherit;">Eppure
viviamo in una fase storica che vede la proliferazione e il consolidamento (ma
anche la destabilizzazione) di confini “esterni” e “interni”, l’instaurazione
(temporanea?) di nuovi regimi frontalieri che attraversano spazi e corpi (De
Silva 2020). </span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgcemq6LrexMmOk9WXimWkuwCGj0T7JtAckRokcTPqTUpfrCS1l_G0Cmy29OVgWXbJGTVrJe4AdJszsJY2JVFJbYfhOSFFho9KjYYZwddJyS3T3AyE04gf4YvJA1vgAv68OULyjVLSmX7o/s1600/3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgcemq6LrexMmOk9WXimWkuwCGj0T7JtAckRokcTPqTUpfrCS1l_G0Cmy29OVgWXbJGTVrJe4AdJszsJY2JVFJbYfhOSFFho9KjYYZwddJyS3T3AyE04gf4YvJA1vgAv68OULyjVLSmX7o/s400/3.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: center;">
<span style="font-size: x-small;"><i>Fonte: Pew Research Center</i></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In questo
contesto, inoltre, la nozione stessa di confine – che, in tutta la sua
polisemia, già prima si mostrava particolarmente feconda sia nel campo delle scienze
sociali che in quello delle pratiche artistiche (Turchetti 2019a) - si carica
di nuovi significati e sfumature (Bargna et alii 2020).</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il
momento, dunque, appare propizio per ripensare le mobilità e i confini, andando
oltre la situazione contingente e provando a immaginare scenari futuri. Da
questo punto di vista, il Marocco, terra di mezzo, può costituire un
osservatorio privilegiato da cui guardare al “nuovo mondo” che ci aspetta. Negli
ultimi decenni, il paese maghrebino ha costituito un vero e proprio laboratorio
per le politiche europee di esternalizzazione della frontiera (</span><i style="font-family: inherit;">border
outsourcing</i><span style="font-family: inherit;">), finalizzate a istituire un </span><i style="font-family: inherit;">cordon sanitaire</i><span style="font-family: inherit;"> a
protezione dello spazio UE. Tali politiche non si riducono solamente alla
costruzione di muri e barriere (come quelle imponenti e “scenografiche” che
circondano le enclaves di Ceuta e Melilla), ma mettono in campo anche </span><span style="font-family: inherit;">una
serie di raffinati dispositivi per controllare, sorvegliare e filtrare le
mobilità umane, sulla base di</span><span style="font-family: inherit;"> una
linea strategica che Campesi definisce “polizia dei flussi” (Campesi 2015:131),
ispirata al principio del </span><i style="font-family: inherit;">profiling </i><span style="font-family: inherit;">e
del </span><i style="font-family: inherit;">risk targeting</i><span style="font-family: inherit;">. Questa strategia
si ricollega al concetto di “confine intelligente” </span><span style="font-family: inherit;">(</span><i style="font-family: inherit;">smart border</i><span style="font-family: inherit;">),</span><span style="font-family: inherit;"> una tecnologia avanzata in grado
di operare in maniera “chirurgica”, di insinuarsi nei corpi (</span><i style="font-family: inherit;">border
insourcing</i><span style="font-family: inherit;">), selezionando e differenziando minuziosamente i flussi.</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Fermo restando che con ogni probabilità alcune gerarchie di
mobilità saranno destinate a durare (e a cui potrebbero aggiungersi </span><a href="https://onezero.medium.com/immunity-passports-could-create-a-new-category-of-privilege-2f70ce1b905" style="font-family: inherit;" target="_blank">altre forme didifferenziazione</a><span style="font-family: inherit;">), </span><span style="font-family: inherit;">possiamo
ragionevolmente pensare che in futuro tali meccanismi di governance,
implementati e testati in paesi terzi e/o su determinate popolazioni-target (i
“migranti”), possano essere importati e applicati su larga scala, portando all’ampliamento
di un “regime che seleziona e sacrifica” (Amselle 2020). </span><span style="font-family: inherit;">Come scrive Paul
Preciado (2020), </span><span style="font-family: inherit;">in parte sta già
accadendo:</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; text-align: center;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; text-align: center;">“il virus non fa che
riprodurre, materializzare, estendere e intensificare per l’intera popolazione
le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica già esistenti […]. Il
corpo è diventato il nuovo territorio all’interno del quale si esprimono le violente
politiche di frontiera che progettiamo e testiamo da anni sugli “altri”,
assumendo la forma di misure di barriera e di guerra al virus. La nuova
frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia verso la porta
di casa tua. Oggi Lesbo comincia sul tuo pianerottolo. E la frontiera non
smette di chiudersi su di te, ti spinge sempre più verso il tuo corpo. Calais
oggi ti esplode in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che
respiri deve essere solo tua. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova
Lampedusa è la tua pelle”.</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; text-align: center;"><br /></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhK4tnRtSFVEj4KOQi6ygIwoV6sJSyrg4Mtnx9J8-yFYYaVgO3WexPeRH46IfX_a-7uWM0bJSjpUFT1nM2lf_YnESE1QICrjIRoncw_n4sGZTWJ5f2xqaoYhom4Si-oUvYFObswymkwyR0/s1600/2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="293" data-original-width="457" height="256" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhK4tnRtSFVEj4KOQi6ygIwoV6sJSyrg4Mtnx9J8-yFYYaVgO3WexPeRH46IfX_a-7uWM0bJSjpUFT1nM2lf_YnESE1QICrjIRoncw_n4sGZTWJ5f2xqaoYhom4Si-oUvYFObswymkwyR0/s400/2.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<i style="font-size: small; text-align: center;"> Yto Barrada, A Life Full of Holes: The Strait Project</i></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tenuto
conto del suo carattere polisemico, il confine, però, non è solamente una
tecnica di potere e governo ma può configurarsi </span><span style="font-family: inherit;"> </span><span style="font-family: inherit;">anche come uno spazio “aperto” di conflitto e
creatività. In tal senso, la frontiera tra Spagna e Marocco è da tempo un
laboratorio di pratiche e “lotte di confine” (Mezzadra, Neilson 2013) in cui il
corpo migrante (vulnerabile e resistente, imbrigliato e indocile al contempo) è
assoluto protagonista. Ed è a queste esperienze liminali che dovremmo guardare
per immaginare uno scenario futuro, non necessariamente distopico. Un futuro in
cui i corpi – in tensione con i confini che li contengono e attraversano -
giocheranno un ruolo centrale in quanto come annota ancora Preciado (2020):</span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; text-align: center;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormalCxSpFirst" style="line-height: normal; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; text-align: center;">“Contrariamente a
quanto si potrebbe immaginare, la nostra salute non dipenderà dal confine né
dalla separazione, ma da una nuova concezione della comunità che includa tutti
gli esseri viventi, da un nuovo equilibrio con gli altri esseri viventi del
pianeta. Abbiamo bisogno di un parlamento di corpi planetari, un parlamento non
definito in termini di politiche d’identità o di nazionalità, un parlamento di
corpi (vulnerabili) che vivono sul pianeta Terra”.</span><br />
<span style="font-family: inherit; text-align: center;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit; text-align: center;">RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI:</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Agier, M. (2020), </span><a href="https://www.liberation.fr/debats/2020/04/21/les-vies-encampees-et-ce-que-nous-en-savons_1785944" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Les vies encampées, et ceque nous en savons”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">Libération</i><span style="font-family: inherit;">, 21/04/2020. </span><span style="font-family: inherit;"> </span><br />
<span lang="EN-GB" style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span lang="EN-GB" style="font-family: inherit;">-Amselle, J.L. (2020), <a href="https://www.mimesis-scenari.it/2020/04/20/addio-a-foucault/?fbclid=IwAR2wFAbjvp2Jj0M8NgmTnd2CiyZBoJ5Ag5K6cti_HyP1jRtKO6mhWSCo-88" target="_blank">“Addio a Foucault. </a></span><a href="https://www.mimesis-scenari.it/2020/04/20/addio-a-foucault/?fbclid=IwAR2wFAbjvp2Jj0M8NgmTnd2CiyZBoJ5Ag5K6cti_HyP1jRtKO6mhWSCo-88" style="font-family: inherit;" target="_blank">‘Biopotere’ o‘tanatocrazia’?”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">Scenari</i><span style="font-family: inherit;">, 20/04/20. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Bargna, I. et alii (2020), </span><a href="https://www.glistatigenerali.com/arte_societa-societa/confini-sconfinamenti-antropologia-pubblica-e-frontiere/?fbclid=IwAR0y98e3mwo5Lpp9B6nfLUM8HU13QH4M4E4dCFMHRf_iKKrvtOtjiHodxt4" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Confini:(S)confinamenti. Antropologia pubblica e frontiere”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">Gli Stati Generali</i><span style="font-family: inherit;">,
01/05/2020. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Ben Lazreq, H.: Garnaoui, W. (2020), </span><a href="https://www.abc.net.au/religion/paradoxes-of-immobility-coronavirus-and-the-unsettling-of-borde/12182784" style="font-family: inherit;" target="_blank">“TheParadoxes of Immobility: Covid-19 and the Unsettling of Borders”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">ABCNet</i><span style="font-family: inherit;">, 24/04/2020. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Borriello, G.; Sahiloglu, A. (2020), </span><a href="https://www.compas.ox.ac.uk/2020/borders-in-the-time-of-coronavirus-how-the-covid-19-pandemic-upended-the-global-mobility-paradigm/" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Bordersin the Time of Coronavirus: How the COVID-19 Pandemic Upended the GlobalMobility Paradigm”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">COMPAS, School of
Anthropology, University of </i><span style="font-family: inherit;">Oxford, 20/03/2020.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Campesi, G. (2015), </span><i style="font-family: inherit;">Polizia della
frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo</i><span style="font-family: inherit;">, Roma,
Deriveapprodi.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-De Silva, V. (2020), </span><a href="http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Storie_virali_Mobilita_corpi_e_confini.html" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Mobilità, corpi e confini”</a><span style="font-family: inherit;">,
</span><i style="font-family: inherit;">Storie virali</i><span style="font-family: inherit;">, 28/03/2020. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Firouzi Tabar, O. (2020), </span><a href="http://www.euronomade.info/?p=13396" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Lemigrazioni nella Pandemia: Rappresentazioni, marginalità e nuovi spazi di lotta”</a><span style="font-family: inherit;">,
</span><i style="font-family: inherit;">Euronomade</i><span style="font-family: inherit;">, 07/05/2020. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Marmié, C. (2020), </span><a href="https://www.ehess.fr/fr/carnet/fran%C3%A7ais-bloqu%C3%A9s-maroc-ordre-migratoire-international" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Les ‘françaisbloqués au Maroc’. Une lumière crue sur l’ordre migratoire international”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">Carnets
de l’Ehess</i><span style="font-family: inherit;">, 15/04/2020. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Mezzadra, S.; Neilson, B. (2013), </span><i style="font-family: inherit;">Confini
e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale</i><span style="font-family: inherit;">, Il Mulino,
Bologna.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Preciado, P. (2020), </span><a href="https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2020/05/09/lezioni-virus" style="font-family: inherit;" target="_blank">“Le lezioni delvirus”</a><span style="font-family: inherit;">, </span><i style="font-family: inherit;">Internazionale</i><span style="font-family: inherit;">, 09/05/2020. </span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Turchetti, A. (2019a), “L’arte dei
margini: poetiche e politiche del confine Euro-Africano tra paesaggi di potere
e spazi di resistenza” in Bertoni, F.; Sterchele, L.; Biddau, F. (a cura di), </span><i style="font-family: inherit;">Territori
e resistenze. Spazi in divenire, forme del conflitto e politiche del quotidiano</i><span style="font-family: inherit;">,
Manifestolibri, pp.144-163.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>
<span style="font-family: inherit;">-Turchetti, A. (2019b), “Non solo
Fortezza Europa: lo scenario di frontiera tra Spagna e Marocco. Un confine in
movimento” in Fabini, G.; Firouzi Tabar, O.; Vianello, F. (a cura di), <i>Lungo
i confini dell'accoglienza. Migranti e territori tra resistenze e dispositivi
di controllo</i> Manifestolibri, pp. 23-40</span>.<br />
<br />
Marrakech (Marocco), 21 maggio 2020<br />
Alessandra Turchetti<br />
<div style="text-align: justify;">
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)<br />
Università di Milano Bicocca</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-58175915043191985332020-05-19T03:49:00.001-07:002020-05-19T03:49:19.952-07:00La festa è finita? // FASE 2 [STUDENTS' CORNER]<div style="text-align: justify;">
In questo periodo, si parla tanto, anche troppo (e a sproposito), di sospensione del tempo o di interruzione della normalità. Se gli studi su certe questioni avessero l’autorevolezza che gli spetta, in pochi potrebbero esprimersi. Ad oggi, sembra però che ormai ognuno abbia il diritto di fare di temi così importanti e complessi materia da talk show, da chiacchiericcio tra amici in video-call o su You Tube. E di questo, noi, ce ne dispiacciamo.</div>
<div style="text-align: justify;">
A tal proposito, inizierei dal dimensionamento del mio stesso intervento: non è nient’altro che una riflessione libera su tematiche che l’attualità ci porta ad affrontare; uno spunto per un dibattito costruttivo che, naturalmente, lascio fare a chi ne ha gli strumenti adatti.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Credo che questa sospensione di cui tutti parlano sia una condizione che realmente sussiste: ognuno, o quasi, ha stravolto le vecchie abitudini, ha smesso di incontrare le persone che facevano parte della vita personale e pubblica, ha imparato a scandire diversamente il tempo della quotidianità. Senza dubbio, la vecchia normalità non può essere più la stessa. A partire da questo, credo che si debba fare doverosamente una distinzione quasi semantica di alcuni concetti che vengono solo formalmente espressi nella stessa maniera: esiste questa sospensione momentanea e universale che rallenta e frammenta i nostri giorni, ma esiste – concettualmente e accademicamente – già ancor prima la liminarità. Qui si gioca lo scarto semantico dove, a parer mio, non si dovrebbe far confusione. Chi parla di sospensione della pratica abitudinaria oggi si riferisce generalmente alla privazione di un caffè al bar, o alla rinuncia ad un allenamento in palestra o, ancora, all’obbligo di lavorare da casa. Il concetto antropologico di tempo liminare, invece, è assai complesso; riguarda le dinamiche del rito di passaggio, rientra nelle regole che costituiscono il rito religioso, e si colloca tra le righe che definiscono la pratica della festa.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEif0w8p8wk_L1sd7hjfPD10dk8bpY9GzI4k3N2hU9vjDLnmbxrH_-b0NnW5GQL7uiS4PXiB2DO-fp2rXKKgQFVxqLhgF3eH6my6WvLrPR0THawWNrixqXIkQwClxMOi7c3CIr7rvuEhrj0/s1600/presepe-mascherina-1588959458693-638x425.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="425" data-original-width="638" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEif0w8p8wk_L1sd7hjfPD10dk8bpY9GzI4k3N2hU9vjDLnmbxrH_-b0NnW5GQL7uiS4PXiB2DO-fp2rXKKgQFVxqLhgF3eH6my6WvLrPR0THawWNrixqXIkQwClxMOi7c3CIr7rvuEhrj0/s400/presepe-mascherina-1588959458693-638x425.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Silvano Petrosino ha raccolto una serie di interventi di alcuni studiosi a margine di un seminario in un volume dal titolo <i>La festa. Raccogliersi, riconoscersi, smarrirsi</i>; qui il concetto di “uscita dal quotidiano” viene sviscerato e collocato nei significati che l’antropologia ci aiuta ad elaborare. Con un esempio di questo tipo, spero di sottolineare la differenza che sta alla base dell’enunciazione di certe funzioni sociali: la sospensione nella nostra stretta attualità è un fatto ampio, superficiale e palpabile, quella antropologica, invece, riguarda degli sviluppi culturali che si esprimono sotto varie forme sociali che perdurano nel tempo (dalla preistoria alla contemporaneità). La festa di Petrosino – quasi al contrario rispetto alla definizione inflazionata – riguarda l’incontro tra le persone, si fa espressione di legame tra uomini tramite l’istituzione di momenti collettivi di “evasione dall’ordinario”. Se oggi la sospensione è imposizione, sacrificio, in quel caso è tregua. Si tratta di prendersi il “tempo” necessario per la rottura momentanea delle regole sociali e delle logiche sui legami; sorprendentemente, questa sovversione delle norme porta anzi al rafforzamento delle regole e dei legami stessi. Il rito, e la festa, stravolgono la socialità normalmente condivisa, la portano temporaneamente su terreni che prevedono diverse strutture e diversi dettami, per poi riportarla indietro più forte di prima. Leed ci propone l’esperienza liminare nelle vite dei soldati in guerra (<i>Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale</i>); anche qui la quotidianità è stravolta dall’improvviso ritrovarsi nella “terra di nessuno”, con la separazione dal luogo abituale, la collocazione del guerriero (o festante, o passeggero) come dimorante tra due stati, e la riaggregazione o ricongiungimento.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiY_g4CwQGFT9Q7CGv1nIatLVRRk0FLAYfyBu9TchKpgVDlpAQM7fCxFVsdNYtLqxmW8thciQ8JKMUNsGmlOJU6rPNeiXavLBjvMwgZib2P-LpP2snmfaRNC_zpUJ7XElvRIoU7SaPHwNE/s1600/AFP_1QZ1Y3-001_MGZOOM.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="661" data-original-width="992" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiY_g4CwQGFT9Q7CGv1nIatLVRRk0FLAYfyBu9TchKpgVDlpAQM7fCxFVsdNYtLqxmW8thciQ8JKMUNsGmlOJU6rPNeiXavLBjvMwgZib2P-LpP2snmfaRNC_zpUJ7XElvRIoU7SaPHwNE/s400/AFP_1QZ1Y3-001_MGZOOM.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Questa è il percorso antropologico della sospensione. È quello che conosciamo, ed è quello che deve sopravvivere. Ecco, nelle “proiezioni sul mondo che verrà” ci facciamo carico di alcune responsabilità; in queste riponiamo anche un accenno di speranza e di fiducia.</div>
<div style="text-align: justify;">
Nella fase 2 o 3 o 4 che sarà: la festa non deve finire. L’antropologia, gli studi culturali, dovranno preservare, conservare e divulgare i percorsi di comprensione che sono riusciti a tracciare. La sospensione non sia mai una frivolezza; certi temi sono propri dell’antropologia e dell’antropologia dovrebbero rimanere. Su questo dobbiamo lavorare nel mondo che verrà. La semplificazione non è la strada giusta.Nel mondo che verrà, appunto, certe discipline come l’antropologia dovranno impegnarsi per mantenere nel proprio tono quella autorevolezza che, in certi casi, pare quasi venga meno.</div>
<br />
Bologna, 19 maggio 2020<br />
Diego Liaci<br />
Corso di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia<br />
Università di Bologna<br />
<div>
<br /></div>
<div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-53353521942690211772020-05-18T03:24:00.003-07:002020-05-18T03:24:45.403-07:00CALL FOR PICTURES: Oggetti visionari <div style="text-align: justify;">
Le promesse della<i> sharing economy</i>. Lo stile di vita senza radici dei <i>digital nomads</i>. Amazon Prime e le sue consegne in un giorno. Tinder e le altre app di incontri. Le distanze e i tempi che si accorciano sempre di più, almeno per certi gruppi sociali. Questa ci sembrava la direzione intrapresa, che ci piacesse o meno. E poi è arrivata la pandemia di Covid-19 e il futuro che avevamo dato per scontato è diventato improvvisamente meno ovvio, più opaco. Lo sviluppo unilineare si è rivelato essere ancora una volta un falso mito e l’impensabile si è presentato davanti ai nostri occhi: Airbnb è in difficoltà economica, gli autisti di Uber si fermano, gli spazi di co-working diventano pericolosi, Amazon non rispetta più i suoi tempi di consegna… Non è la prima volta che eventi considerati altamente improbabili, tanto dalla gente comune quanto da futurologi di professione, si verificano. La fine della Guerra Fredda, o anche, per certi versi, la Brexit, ne sono esempi eclatanti (Minvielle, Wathelet, Lauquin, Audinet 2020: 21). </div>
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La <i>design fiction</i> è un approccio ibrido, fra scienza, fantascienza e design (Bleecker 2009) che, invece di tentare (invano) di prevedere il futuro che verrà, mira ad ampliare lo spettro del pensabile, mettendo a fuoco i casi estremi, statisticamente considerati meno probabili. L’obiettivo non è l’individuazione di trend, ma piuttosto la coltivazione dell’immaginazione e la problematizzazione della rappresentazione del futuro, affinché si possa meglio agire nel presente. Si tratta di un approccio che mira all’azione più che alla descrizione, anche grazie alla creazione di oggetti concreti, da maneggiare, che, attraverso la loro dimensione sensibile, aiutino le persone a sperimentare scenari differenti e a prendere posizione. La cultura popolare, con le sue creazioni fantastiche, è in questo senso una fonte di ispirazione preziosa, poiché va oltre le visioni convenzionali, proponendo un panorama vario di situazioni fittizie, più o meno (in)credibili.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQ3yVf2w3aCPnZbfarZCkeKWWmAV6iPXFbSgOfkhhZphCWKGKtrcNAoEbFDl0CRs53oIY5CGY04_qT5tnSYfHYkqpQ3RsclVWXv8CKWQfaFtUNLlvoTyJHQ3V00ehCXSprGX1-kGrflNw/s1600/futuri-passati-viaggio-fra-parole-immagini-visioni-del-futuro-fra-900-e-2000_00.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="600" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQ3yVf2w3aCPnZbfarZCkeKWWmAV6iPXFbSgOfkhhZphCWKGKtrcNAoEbFDl0CRs53oIY5CGY04_qT5tnSYfHYkqpQ3RsclVWXv8CKWQfaFtUNLlvoTyJHQ3V00ehCXSprGX1-kGrflNw/s400/futuri-passati-viaggio-fra-parole-immagini-visioni-del-futuro-fra-900-e-2000_00.jpg" width="400" /></a></div>
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Durante la pandemia, abbiamo quanto mai bisogno di coltivare la nostra capacità di pensare futuri diversi, per sfuggire ai riduzionismi e alle semplificazioni, che ci fanno accettare alcune strade come “inevitabili”. All’idea di necessità è importante accostare anche quella di possibilità, per aprire lo spettro del pensabile e visualizzare una pluralità di alternative, da dibattere, confrontare, criticare o accogliere. In un momento in cui la stessa parola normalità è di difficile decifrazione e il futuro è scandito da “fasi” a corto raggio, la fantasia può diventare uno strumento prezioso per complicare le rappresentazioni lineari, stimolando l’immaginazione e la mobilitazione, in vista delle alternative desiderabili. </div>
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In questo spirito, lanciamo una #CallForPictures e vi chiediamo di inviarci fotografie (risoluzione almeno di 800x600 pixel) di oggetti “visionari”, che evochino, attraverso la loro materialità, diversi scenari (desiderabili, distopici, utopici, improbabili, plausibili, vicini, lontani,…), per costruire una sorta di inventario, mai completo, di futuri possibili. Si può trattare, per esempio, di oggetti auto-prodotti, oppure di oggetti d’uso quotidiano ma posti in nuovi contesti, o ancora di oggetti manipolati creativamente per potere rispondere a bisogni e utilizzi inediti. Tutte le fotografie verranno pubblicate sulla nostra pagina Instagram @anthroday_milano e sul blog #LaGiustaDistanza. Le fotografie migliori saranno anche stampate ed esposte in una mostra che verrà inaugurata durante il World Anthropology Day – Antropologia Pubblica a Milano, a Febbraio 2021. Le fotografie devono avere un titolo ed essere accompagnate da una breve didascalia (20 parole massimo). </div>
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<div style="text-align: justify;">
Bleecker J. 2009. <i>Design Fiction: A Short Essay on Design, Science, Fact and Fiction</i>. </div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Minvielle N., Wathelet O., Lauquin M., Audinet P. 2020. <i>Design Fiction and More for your Organization. Making Tomorrow Collective. </i></div>
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<i><br /></i></div>
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<div style="text-align: start;">
Milano, 18 maggio 2020</div>
<div style="text-align: start;">
Ivan Bargna, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera, Francesco Vietti</div>
<div style="text-align: start;">
World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</div>
<div style="text-align: start;">
Università di Milano Bicocca</div>
<div style="text-align: start;">
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-73524188291527886392020-05-14T07:50:00.004-07:002020-05-14T07:59:59.665-07:00Note da Maputo #3. Una riflessione sul futuro della cooperazione sanitaria post Covid-19 // FASE 2<div style="text-align: justify;">
La situazione della pandemia in Mozambico è in lenta evoluzione dovuta ad una impossibilità tecnica del paese di testare le persone e quindi di comprendere la reale entità del problema nel paese. Ad oggi esiste un unico laboratorio in tutto il paese in grado le leggere il test, la distribuzione dei kit è di poche decine per provincia e il test, una volta effettuato, richiede anche giorni per arrivare nella capitale, rischiando di compromettersi. Stiamo lavorando per la realizzazione di laboratori in ogni provincia e con centinaia di attivisti per fare informazione nelle comunità e per stabilire un sistema di vigilanza epidemiologica in modo da arrivare capillarmente nelle aree più remote.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Le difficoltà sono molteplici e di diversa natura, dalla carenza di materiale protettivo (tutta l’Africa, direi, ha optato per produrre mascherine fatte in casa, di efficacia parziale ma esteticamente convincenti), alle credenze erronee che si sono diffuse (malattia dei “bianchi”, dei “cinesi”, proteggersi è inutile perche’chi ha la pelle nera è immune..) e di carattere organizzativo-gestionale; i passaggi burocratici necessari per qualsiasi attività che invece dovrebbe essere rapida sono molteplici e rigorosamente ottemperati a tutti i livelli, dal ministero sino al più recondito comitato politico di villaggio, riflettendo un dovere di collegialità avvertito come elemento unificante necessario per la stabilità e la coesione sociale, in un paese mai completamente pacificato e dove chiaramente qualsiasi elemento di criticità assume immediatamente una valenza politica e si presta a strumentalizzazioni.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiJJqu1DS8LovlPwd6dJmFfP6EdFUtj1MMONuU4OnD8D3w-KcXQM8EjIzZJeftnYG_CgccQbJ_95fxkCQP4L_z1YUrdsfpQlQeJuNqVLFYY_SX0Q6Z_Agd4-bRVjMIFv86xo2xoJw5UPE/s1600/644596.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="930" data-original-width="1240" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiJJqu1DS8LovlPwd6dJmFfP6EdFUtj1MMONuU4OnD8D3w-KcXQM8EjIzZJeftnYG_CgccQbJ_95fxkCQP4L_z1YUrdsfpQlQeJuNqVLFYY_SX0Q6Z_Agd4-bRVjMIFv86xo2xoJw5UPE/s400/644596.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il coordinamento tra i molteplici attori internazionali è frammentario e poco lineare, riflettendo agende politiche, piani di lettura e priorità differenti. E’ dalla posizione privilegiata di operatore attivamente partecipante e partecipato che germina una riflessione su come evolverà il panorama della cooperazione internazionale sanitaria quando l’emergenza sarà superata.</div>
<div style="text-align: justify;">
Quali modelli, priorità e strategie prevarranno nel prossimo futuro è un tema irrinunciabile per provare a tracciare degli scenari che, per quanto complessi, possono darci indicazioni fondamentali per interpretare (e attrezzarci di conseguenza) le dinamiche e I discorsi relativi al campo semantico dello “sviluppo” e della salute globale.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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Sporcandosi le mani nel lavoro quotidiano, possiamo riconoscere e presentare alcuni elementi rilevanti; se gli “obiettivi del millennio”, il cui ciclo si è concluso nel 2015, identificavano ben 3 obiettivi su 8 in totale come priorità specificatamente sanitarie (gli obiettivi 4,5 e 6, volti alla riduzione della mortalità infantile, quella materna e alla lotta a HIV-AIDS, malaria ed altre malattie) con un impianto teorico e analitico inequivocabile nella sua immediatezza, così come nel fornire ai grandi organismi donatori internazionali indicazioni di investimento inequivocabili, gli “obiettivi sostenibili del millennio” (la prospettiva temporale arriva al 2030) vedono “solo” un obiettivo dedicato ad impattare su indicatori sanitari, il numero 3 volto a promuovere “buona salute e benessere” a tutta la popolazione mondiale. Il suo pronunciarsi accostando “salute e benessere”, se dà vigore ad una interpretazione ampia del concetto di “salute” e dunque apre una rivisitazione ad un rinnovamento di alcuni paradigmi deterministici, circoscrive un arretramento della sanità in sè nell’arco delle priorità planetarie percepite a favore di un programma che vede nella necessità di un riequilibrio tra ecosistemi e impronta umana la propria cifra distintiva.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiligfpjAp8tMGvzi5A7UnpPKyE4VjVR_NhaMhDCap6gKh0Zd2UpYD1RRI6VZRoIYy2cJZk2HagtWeeBXDjKV10fXQ_sI-JkvtDX613pakDeJBsIuhIyQADMNHe9YHtCofUsGhHH71JG4U/s1600/ll.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="476" data-original-width="797" height="238" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiligfpjAp8tMGvzi5A7UnpPKyE4VjVR_NhaMhDCap6gKh0Zd2UpYD1RRI6VZRoIYy2cJZk2HagtWeeBXDjKV10fXQ_sI-JkvtDX613pakDeJBsIuhIyQADMNHe9YHtCofUsGhHH71JG4U/s400/ll.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
La pandemia che stiamo faticosamente attraversando pone tutti noi di fronte all’evidenza dell’inadeguatezza strutturale di molti paesi ad affrontare emergenze sanitarie di questa portata. Se tale considerazione può essere tragicamente letta e ritagliata pensando in primis all’Italia (dove però le carenze e le conseguenze derivano da scelte di politica sanitaria degli ultimi trenta anni e da un modello di società che vede nel malato il cliente di un servizio), in Africa e in Mozambico derivano dalla assoluta fragilità del sistema sanitario nella sua totalità, in un paese ancora agli ultimi posti nell’indice di sviluppo umano e che presenta uno dei maggiori indici di Gini del pianeta.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Quali elementi sapranno trarre gli organismi impegnati nella definizione e nell’analisi della salute globale, e quali traiettorie seguiranno le strategie dei paesi in materia di sanità sono temi fondamentali che sebbene ad oggi potrebbero sembrare prematuri, potrebbero comportare scompensi nella già carenti risorse ad oggi disponibili per occuparsi di problemi di minore visibilità emotiva e di minor pericolisità in termini di diffusione ma che impattano in modo decisivo sul futuro dei paesi che ne sono affetti. Le malattie croniche e le malattie mentali sono recentemente state riconosciute dal Organizzazione Mondiale della Sanità come le “pandemie silenziose” del continente africano nei prossimi decenni, come ancora, tra altre, la malnutrizione cronica che comporta il mancato pieno sviluppo delle facoltà cognitive del bambino rappresentando un peso immenso per le generazioni future e le aspettative di “crescita” di molti paesi… o ancora la mortalità neonatale che in Africa rimane un indicatore centrale nel leggere la diseguaglianza nell’accesso a servizi sanitari equi e di qualità…temi sui quali I paesi stavano lentamente iniziando a dedicare risorse e pianificando, inserendoli nelle agende politiche e nei piani strategici; ora si rischia un arretramento dell’attenzione dedicata a queste a favore di investimenti volti ad affrontare presenti e probabili future emergenze.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
E’ evidente che, per quanto assolutamente auspicabili, provvedimenti e strategie volte a contrastare le emergenze risponde a criteri e meccanismi altri rispetto a quelli necessari ad impegnarsi contro le “pandemie silenziose”, lasciando tutti noi ad interrogarci sui possibili scenari futuri della cooperazione sanitaria, sul suo ruolo, funzione, autonomia, possibilità di contribuire.</div>
<div style="text-align: justify;">
E’ questo chiaramente solo un tassello di un riflessione ampia ma doverosa su come cambierà la cooperazione internazionale dalla sua dimensione attuale, non solo in ambito sanitaria, e quali toni assumerà nell’opinione pubblica l’investimento pubblico per la cooperazione, in un paese come l’Italia ferita gravemente dalla pandemia e che si prepara ad affrontare un crisi economica di proporzioni ancora non immaginabili.<br />
<br />
Qui due video (<a href="https://www.youtube.com/watch?v=ZL-JVuiKX2k" target="_blank">filmato 1</a> e <a href="https://www.youtube.com/watch?v=dapvMCx05N0&feature=emb_logo" target="_blank">filmato 2</a>) per un approfondimento sulle attività di Medici con l'Africa CUAMM in Mozambico durante il periodo dell'epidemia da Covid-19.<br />
<br /></div>
<br />
<div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Maputo (Mozambico), 14 maggio 2020</span></div>
<div style="text-align: justify;">
Edoardo Occa<br />
<a href="https://www.mediciconlafrica.org/" target="_blank">Medici con l'Africa CUAMM</a><br />
Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)<br />
Università di Milano Bicocca</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span>Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-25251963676382191922020-05-13T02:50:00.000-07:002020-05-13T02:51:14.956-07:00L’importanza della contaminazione<div style="text-align: justify;">
Il 15 maggio si terrà la conferenza dottorale intitolata <i>Contaminazioni</i>, organizzata dalll'Università di Bergamo, aperta al pubblico e gratuita. Il mondo in cui è nata l’idea della conferenza, originariamente prevista per il 28 febbraio, è ormai ben diverso dalla realtà con cui ci dobbiamo confrontare quotidianamente.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhBKFd89hl_Sbn7DxptXDSaohUjzeN7-AfuaJswE96mvPWLc7zq8OiNP3dy-9GUGtpSVCSq9gsgQH5pOTm6pkYCvwpwnX3TEhFv33jx1QgYFFTwqM8QpoM1KpcUvSCPyCNynmm81aXZh5k/s1600/Immagine.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="530" data-original-width="1215" height="172" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhBKFd89hl_Sbn7DxptXDSaohUjzeN7-AfuaJswE96mvPWLc7zq8OiNP3dy-9GUGtpSVCSq9gsgQH5pOTm6pkYCvwpwnX3TEhFv33jx1QgYFFTwqM8QpoM1KpcUvSCPyCNynmm81aXZh5k/s400/Immagine.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lo scorso settembre, quando
l’evento era ancora nella sua fase embrionale, parlare di contaminazioni
stimolava pensieri sull’ibridità, sull’integrazione, sulla nascita di nuove
forme. Il tema si prestava bene a una riflessione sul presente, sull’accademia,
sulle discipline sempre più interconnesse. La contaminazione, se non
necessariamente positiva, era percepita per lo meno come un valore neutro della
modernità. A voler azzardare un’affermazione prescrittiva, ne arrivava almeno
in parte a definire l’essenza.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Oggi, la parola stessa evoca ben
altri contesti. Se a metà febbraio tra gli organizzatori si commentava
sull’ironia di vedere i nostri piani per una conferenza incentrata sulle
contaminazioni rovinati da un’epidemia, oggi ritorniamo con la mente a quei
giorni e non possiamo che rimpiangere la leggerezza con cui sono state accolte
le prime ordinanze contro la diffusione del Covid-19. Non intendo nella loro
esecuzione e nel loro rispetto, su cui non è mio compito esprimere giudizi, ma
nella certezza ingenua che entro qualche giorno, qualche settimana, tutto
sarebbe tornato come prima. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A quasi tre mesi da quel momento,
tra quei pensieri distratti – saldamente ancorati alla sicurezza che tutto si
sarebbe risolto senza conseguenze – e il presente ci sono le decine di migliaia
di morti a livello nazionale e le immagini indelebili delle bare che lasciano
Bergamo a bordo di mezzi militari. </span><span style="font-family: inherit;">Bergamo, che raramente balza agli
onori della cronaca, è diventata la città simbolo della pandemia. Bergamo, che
doveva essere la sede di questa conferenza, organizzata nell’ambito del
Dottorato in Studi Umanistici Transculturali dell’ateneo cittadino.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">È in un mondo diverso che questa
giornata di studi avrà luogo, in un modalità quasi impensabile fino a pochi
mesi fa. È dunque pressoché inevitabile chiedersi quanto interventi così
“astratti” (e, di conseguenza, la conferenza tutta) mantengano un senso a
fronte di problematiche in apparenza ben più concrete.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ecco un tentativo di risposta,
parziale in ogni senso della parola: parlare di contaminazione nell’era del
Covid-19 senza lasciarsi andare a tristi considerazioni dettate dal momento
storico è fondamentale, forse più di quanto non lo fosse prima di questa
pandemia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lo è per una serie di motivi: per
primo, la contaminazione implica un contatto e, non potendo averne uno fisico,
possiamo per lo meno avvicinare i nostri pensieri, le nostre conoscenze, e le
nostre discipline. La contaminazione deve coinvolgere ogni area del sapere per
poter pensare soluzioni nuove. Secondo, la contaminazione, oggi, non fa che
evocare immagini di gel igienizzanti, mascherine, guanti e distanze di
sicurezza. Gli interventi della nostra conferenza recuperano il valore positivo
del concetto e ne celebrano i risultati. Siamo studiosi in campo umanistico, il
nostro contributo all’evoluzione del presente non può che concretizzarsi in
riflessioni sull’arte, la letteratura, la filosofia, ma rimane ancorato al
desiderio di mettere in contatto, di dialogare, di interagire ed espandere.
Terzo, ritengo sia auspicabile una società che fa della contaminazione un suo
valore fondamentale. Passato il peggio, quando le più comuni attività potranno
riprendere, non potremo, né dovremmo, tornare al passato (seppure estremamente
recente). La pandemia globale ha messo in luce gravi debolezze del
‘sistema-mondo’ in cui viviamo, ha evidenziato gli svantaggi del capitalismo
sfrenato, e forse ha permesso a molti di rivalutare le proprie priorità. Se
vogliamo rinnovare la società che abitiamo (e che formiamo), dobbiamo invitare
alla contaminazione. Vecchi rimedi per nuovi mali non sempre sono sufficienti.
Le discipline arroccate nei propri avamposti devono dialogare tra loro. Le idee
ibride possono assicurare il cambiamento. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">È questo il tipo di
contaminazione che attraversa la <i>Keynote
Lecture,</i> intitolata “La de-costruzione dell’Antropocene,” e i quindici
interventi in programma per questo venerdì. È in quest’ottica ambivalente che
abbiamo scelto l’ape, in pericolo a causa della contaminazione da pesticidi e a
sua volta promotrice di contaminazione tra specie animali e vegetali, come
simbolo della giornata. Durante la giornata di studi, si parlerà di una
contaminazione mossa dalla speranza, piuttosto che evitata per paura.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I cinque panel sono divisi in
percorsi tematici: il primo, dal titolo “‘Hard’ e ‘soft’ science: ibridazioni
interdisciplinari,” esplora i contatti tra scienze dure e discipline
umanistiche, mentre il secondo, “Riflessioni sull’essere e sull’identità,”
indaga il pensiero contemporaneo su cosa ci rende individui e umani. Il terzo
panel, “Uomo, animale, vegetale: dualità e simbiosi,” apre la sessione pomeridiana
con degli interventi sul rapporto tra umanità e natura ed è seguito da
“Incontri di culture: prospettive transnazionali,” in cui si presenterranno dei
saggi di carattere comparatistico che evidenziano punti di contatto tra culture
nazionali diverse. A conclusione della giornata, l’ultimo panel, “Uno sguardo
all’America,” si concentra sulle istanze di ibridità nella letteratura del
continente americano.<span style="background: yellow; mso-highlight: yellow;"><o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Gli interventi spaziano
attraverso le aree del sapere umanistico: antropologia, filosofia, musica,
storia, letteratura dialogheranno non solo durante gli interventi, ma anche
durante il <i>question time</i>, con
l’auspicio che ne risulti una riflessione sul presente aperta, nuova,
propositiva e, soprattutto, contaminata.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La conferenza è aperta al
pubblico ed è gratuita. Si svolgerà integralmente sulla piattaforma per
videoconferenze <i>Zoom</i> ed è necessaria
l’iscrizione.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il programma completo e le
istruzioni per partecipare sono disponibili sul sito dell’evento: <a href="https://contaminazioni.wixsite.com/website." target="_blank">https://contaminazioni.wixsite.com/website.</a></span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Bergamo, 13 maggio 2020</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Valentina Romanzi</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Dottorato in Studi Umanistici Transculturali</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Università di Bergamo<br />
<br />
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-23162845564779039582020-05-12T06:04:00.002-07:002020-05-12T06:14:24.849-07:00Spaesamento<div style="text-align: justify;">
Il <i>dépaysement</i>, ha osservato Claude Lévi-Strauss (2015: 110), è un’esperienza fondante dell’antropologia culturale. Lo straniamento che emerge dal confronto con altri modi di essere uomini e donne in società porta a denaturalizzare istituzioni, comportamenti e abitudini che sembravano ovvi ai nostri occhi. In questo senso, il viaggio attraverso le apparenti stranezze degli altri è la via più breve per riflettere su noi stessi (Remotti 1990). Quando però lo spaesamento affiora nel cuore stesso di ciò che ci è più familiare, è come se i fili che tessono la trama invisibile della quotidianità si logorassero sino a renderla irriconoscibile.</div>
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Le misure imposte per limitare il contagio da SARS-CoV-2 hanno segnato uno spartiacque tra quanto in precedenza era ritenuto consueto e scontato e la situazione attuale in cui, mentre l’Italia entra tra speranze e timori nella cosiddetta “fase due”, la possibilità di una prossimità diffusa in un certo senso pare «cosa arcana e stupenda» (1) .<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgrM7Uc5LNVdRLDFKV-ffpKwHQYh6p4lj5GHkWaePgbt7j8RZZV03O1QQRYjOEAIJOxeqz9ptz5BMQrhKe-tvGaZkjrOZ7goWMhBq2V52HtCA3BFhmfNgj7kpR-oZig7iAoOVU2JSNov0/s1600/DSC_2203.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="853" data-original-width="1280" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgrM7Uc5LNVdRLDFKV-ffpKwHQYh6p4lj5GHkWaePgbt7j8RZZV03O1QQRYjOEAIJOxeqz9ptz5BMQrhKe-tvGaZkjrOZ7goWMhBq2V52HtCA3BFhmfNgj7kpR-oZig7iAoOVU2JSNov0/s400/DSC_2203.jpg" width="400" /></a></div>
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A Sesto San Giovanni, da dove scrivo, lo stacco tra un “prima” e un “dopo” ha preso anche la forma di una frattura sonora: per più di un mese il rumore pressoché incessante del traffico è stato sostituito da un silenzio interrotto con una triste frequenza dalle sirene delle ambulanze e dagli elicotteri della polizia. Un cambiamento così drastico nel paesaggio sonoro (2) della città forse è paragonabile solo a quello avvenuto nel 1995, quando la sirena che lungo tutto il corso del Novecento aveva segnalato il cambio di turno presso le acciaierie Falck è stata spenta in seguito alla chiusura degli stabilimenti (3).</div>
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Allora la brusca interruzione di quel suono usuale sancì in modo inequivocabile che un mondo era finito; oggi lo scarto ha rappresentato una parentesi, e il rumore delle macchine è tornato a essere un sottofondo costante. Eppure, mentre il dibattito pubblico si polarizza attorno alle posizioni di chi sostiene che ora cambierà tutto (in meglio o in peggio) e di chi è convinto che non cambierà nulla (4), rimane ben salda la dolorosa consapevolezza sia del difficile momento storico che stiamo vivendo sia della cesura che ci ha spinto a guardare con sospetto quello che reputavamo domestico e familiare (luoghi, persone, lo stesso mondo esterno nel suo complesso).</div>
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Nelle pagine dedicate allo studio delle apocalissi culturali, Ernesto De Martino (2002) ha parlato del disfacimento della domesticità del mondo come di una destrutturazione progressiva dello sfondo di ovvietà non problematizzato che permette di agire efficacemente all’interno di un mondo culturale. La banalità del quotidiano dipende da un «felice oblio» di tale sfondo; quando questo si incrina, rischia di svanire un intero orizzonte di operabilità (ibidem: 644) (5). Un certo grado di automatismo e di ottundimento, come ha sottolineato Francesco Remotti (2011: 229), è indispensabile per ridurre l’arbitrarietà di un modello culturale, ma al tempo stesso ne riduce la densità e lo spessore poiché sottrae le idee di cui il modello si sostanzia alla critica e alla contestazione. </div>
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Lo spaesamento che accompagna questo tempo incerto, se da una parte ha destrutturato alcune trame stereotipate della nostra esperienza quotidiana, dall’altra ha contribuito a porre in questione attitudini e disposizioni tacite che raramente erano state rese oggetto di una riflessione così esplicita. Il disfacimento di un orizzonte domestico potrebbe quindi costituire una occasione per accrescere la consapevolezza degli elementi cardine che lo sostenevano, esponendoli a un potenziale ripensamento (6).</div>
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La limitazione delle libertà individuali imposta per la tutela della salute pubblica, ad esempio, ha indotto a interrogarsi su quello a cui si è disposti a rinunciare in nome del desiderio di sicurezza e a riflettere su ciò che distingue un’esistenza qualificata dalla mera sopravvivenza (7). La discussione sul binomio libertà/sicurezza non ha coinciso soltanto con una disamina dell’attuale stato di eccezione, ma ha anche riguardato una possibile estensione di quest’ultimo nel tempo. Tuttavia, nei discorsi sulla libertà sono stati talvolta riprodotti in modo più o meno consapevole stereotipi di stampo nemmeno troppo vagamente orientalista sulla presunta differenza tra un’Asia in cui i cittadini sarebbero pronti ad accettare forme di sorveglianza e di controllo sociale e un Occidente dove interventi lesivi dei diritti individuali e della privacy risulterebbero insopportabili (8).<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhU4GgG586m-oNX4_Dnf7Dt2UHXNp9wsrKGyCDSer0gMmC_VdQ9dSxJubu18DAOBm-7FJRBMPw0N-mth9YVGNwgOgEI89DZRdUp9LDonArYY1nPsDHD5BgzIRQRcnETBZfr07bZFrrzl_4/s1600/Biennale-di-Venezia-2017-Padiglione-Cile-Ph.-Serena-Achilli-1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="735" data-original-width="980" height="298" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhU4GgG586m-oNX4_Dnf7Dt2UHXNp9wsrKGyCDSer0gMmC_VdQ9dSxJubu18DAOBm-7FJRBMPw0N-mth9YVGNwgOgEI89DZRdUp9LDonArYY1nPsDHD5BgzIRQRcnETBZfr07bZFrrzl_4/s400/Biennale-di-Venezia-2017-Padiglione-Cile-Ph.-Serena-Achilli-1.jpg" width="400" /></a></div>
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Il disorientamento di fronte a un virus percepito come un nemico da combattere ha fatto emergere la nostra difficoltà a riconoscere le interdipendenze che ci legano agli attori ambientali e ha stimolato interventi che, ribaltando la retorica del virus invasore, hanno preso in esame la connessione tra deforestazione e intensificazione dell’agricoltura industriale da un lato e rischio di sviluppo e diffusione di agenti patogeni dall’altro (9). Questi interventi hanno permesso di mettere in luce processi sociali ed economici che, se trascurati, avrebbero considerevolmente ristretto lo sguardo sulla pandemia e sul suo impatto.</div>
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Lo sconcerto provocato dai pareri non sempre concordi degli epidemiologi ha portato all’attenzione questioni sollevate nell’ambito degli studi di sociologia della scienza quali la natura della produzione della conoscenza scientifica e il grande lavoro di fabbricazione, discussione e composizione che occorre per giungere a una qualche certezza in materia di fatto (Latour 2004: 178). Inoltre, riflettere sul rapporto tra “esperti” e decisori politici ha spinto a tematizzare <a href="http://www.leparoleelecose.it/?p=38050" target="_blank">la posizionalità storica e sociale delle conoscenze</a> e a rendere esplicito che le domande di ricerca non sono indipendenti dai contesti socio-culturali che le hanno prodotte.</div>
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La pandemia potrebbe dunque rappresentare uno di quei periodi tumultuosi in cui i legami tessuti nell’uso comune delle cose (gli accordi interiorizzati su ciò che costituisce una “vita buona”, i modi di produzione, la visione della scienza) si aprono a una potenziale ridefinizione o a una riconfigurazione parziale (Descola 2014: 383) se la sospensione del nostro cammino (10), avendo spezzato la «cieca furia del fare» (11), ci consentirà di tradurre le riflessioni sugli elementi fondativi e sulle implicazioni dei nostri modelli economici e culturali in un confronto plurale su ciò che riteniamo socialmente desiderabile. La capacità di aspirare infatti, come ha sostenuto Arjun Appadurai (2014: 397), trae la propria forza da sistemi di significati e valoriali specifici.</div>
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Il rischio, tuttavia, è che le lacerazioni inferte al tessuto sociale, accentuando drammaticamente la vulnerabilità di chi si trova già in una condizione marginale, rendano un possibile ampliamento di orizzonti immaginativi una prerogativa di una élite intellettuale. Sebbene l’antropologia abbia posto spesso l’accento sulla creatività culturale e sull’agency di gruppi in condizione di marginalità sociale ed economica, la prospettiva di un riscatto dalla crisi passa (anche) dal riconoscimento del suo impatto ineguale sulle vite delle persone.<br />
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<i>Note</i><br />
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(1) Così il coro dei morti definisce la vita nel «Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie» contenuto nelle <i>Operette Morali</i> di Giacomo Leopardi (2008: 337). (2) Il paesaggio sonoro può essere considerato parte integrante della quotidianità di una determinata comunità: è infatti intimamente connesso alla sua organizzazione sociale, ai suoi sistemi di produzione e ai suoi strumenti di comunicazione (Bordone 2002: 134). (3) A partire dal 2004 la sirena ha ripreso a suonare simbolicamente ogni giorno alle 12, ma lo scorso anno è stata definitivamente spenta. Secondo <a href="https://www.ilgiorno.it/sesto/cronaca/sirena-falck-1.4422473" target="_blank">alcuni ex operai</a>, è come se fosse stato silenziato un elemento cruciale nel tenere viva la memoria delle conquiste collettive dei lavoratori. (4) Si vedano, a titolo di esempio, gli auspici dell’avvento di una <a href="https://www.internazionale.it/opinione/slavoj-zizek/2020/03/21/comunismo-salvarci-coronavirus" target="_blank">nuova forma di comunismo</a> o di un <a href="https://www.internazionale.it/opinione/thomas-piketty/2020/04/26/crisi-nuovo-stato-sociale" target="_blank">nuovo stato sociale</a>, le preoccupazioni per <a href="https://ilmanifesto.it/la-pericolosa-mutazione-del-virus-populista/" target="_blank">possibili svolte autoritarie</a> e gli inviti a <a href="http://www.leparoleelecose.it/?p=38213" target="_blank">non confondere la spettacolarità di un evento con la sua significazione storica</a>. (5) L’idea del non annunciarsi del mondo come condizione di possibilità perché gli enti risultino utilizzabili senza suscitare sorpresa è stata trattata diffusamente da Martin Heidegger in Essere e Tempo (2010). De Martino (2002: 668) prende però le distanze dal filosofo tedesco scegliendo di considerare non l’essere bensì il dover essere come fondamento dell’esistenza umana. (6) “Ripensare”, <a href="https://www.doppiozero.com/materiali/le-humanities-e-il-coronavirus" target="_blank">è stato notato</a>, è in effetti uno dei verbi che più ricorrono nei discorsi orientati al prossimo futuro. (7) Questo è avvenuto soprattutto sulla scia degli <a href="https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia" target="_blank">interventi</a> molto dibattuti di Giorgio Agamben. (8) Una visione dicotomica discussa criticamente <a href="http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Storie_virali_Regimi_di_tracciabilita.html" target="_blank">qui</a>, per esempio. (9) La necessità di una transizione ecologica è stata espressa in numerosi articoli. <a href="https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/?fbclid=IwAR3Lx7FMEIb6p4SObnJdYXzpEMii97tD1uBmuhWj5dnO3zlUm5zTJ_BwOyM" target="_blank">Questo</a>, tra gli altri, problematizza apertamente l’impianto su cui si è edificata la nostra normalità. (10) La possibilità di sospendere il cammino è stata definita da Lévi-Strauss (2013: 439) come uno dei maggiori benefici concessi agli uomini in quanto permetterebbe di trattenere l’impulso che li costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la propria opera mentre chiudono la propria prigione. (11) Un’espressione utilizzata da Theodor Wiesengrund Adorno in un aforisma di <i>Minima moralia. Meditazioni della vita offesa </i>(2011: 185). Nel medesimo aforisma Adorno scrive: «L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un’insaziabilità sbuffante, della libertà come superattività, attinge a quel concetto borghese della natura che ha servito sempre e soltanto a sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternità» (<i>ibidem</i>: 184).<br />
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<i>Riferimenti bibliografici</i></div>
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Adorno, Theodor Wiesengrund, <i>Minima moralia. Meditazioni della vita offesa</i>, Einaudi, Torino 2011 (ed. or. <i>Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben</i>, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1951).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Appadurai, Arjun, <i>Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale</i>, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014 (ed. or. <i>The Future as A Cultural Fact: Essays on the Global Condition</i>, Verso, New York 2013).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Bordone, Renato, <i>Uno stato d’animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale italiano</i>, Firenze University Press, Firenze 2002. </div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
De Martino, Ernesto, <i>La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali</i>, ed. a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Descola, Philippe,<i> Oltre natura e cultura</i>, SEID, Firenze 2014 (ed. or. <i>Par-delà nature et culture</i>, Gallimard, Paris 2005).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Heidegger, Martin, <i>Essere e tempo</i>, Longanesi, Milano 2010 (ed. or. <i>Sein und Zeit</i>, Max Niemeyer Verlag, Halle 1927).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Latour, Bruno, <i>Politics of Nature. How to Bring the Sciences into Democracy</i> (ed. or.<i> Politiques de la nature. Comment faire entrer les sciences en démocratie</i>, La Découverte, Paris 1999).</div>
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<div style="text-align: justify;">
Leopardi, Giacomo, <i>Operette Morali</i>, BUR, Milano 2008.</div>
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Lévi-Strauss, Claude, <i>Tristi Tropici</i>, il Saggiatore, Milano 2013 (ed. or. <i>Tristes Tropiques</i>, Plon, Paris 1955).</div>
<div style="text-align: justify;">
̶ <i>Antropologia strutturale</i>, il Saggiatore, Milano 2015 (ed. or. <i>Anthropologie structurale</i>, Plon, Paris 1958).</div>
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Remotti, Francesco, <i>Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia</i>, Bollati Boringhieri, Torino 1990.</div>
<div style="text-align: justify;">
̶ <i>Cultura. Dalla complessità all’impoverimento</i>, Laterza, Roma-Bari 2011.</div>
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Milano, 12 maggio 2020</div>
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Amina Bianca Cervellera</div>
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Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)</div>
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Università di Milano Bicocca<br />
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<i>Il presente contributo è stato scritto da Amina Bianca Cervellera e raffinato grazie alla revisione dei suoi colleghi di dottorato nell'ambito del Laboratorio di Scrittura realizzato dal DACS. Il testo intende rappresentare la seconda voce di un "Piccolo dizionario antropologico della pandemia", finalizzato a interpretare l'attualità attraverso concetti chiave della disciplina. </i></div>
</div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-3917415337034284062020-05-11T06:53:00.002-07:002020-05-11T06:54:47.241-07:00Tabu<div style="text-align: justify;">
Nel corso della sua esistenza, l’antropologia sociale e culturale ha elaborato innumerevoli concetti per permettere la comprensibilità dei fenomeni sociali che caratterizzano gli esseri umani. Le infinite varianti in cui le società umane si sono organizzate e in cui hanno pensato sé stesse, hanno generato il bisogno di proporre numerose teorie, le quali si sono rivelate, tuttavia, spesso tanto specifiche quanto effimere. Classificazioni che parevano auto evidenti e certezze teoriche apparentemente inamovibili, si sono velocemente susseguite una dopo l’altra in una disciplina che ha a lungo faticato a trovare stabilità teorica. E nonostante ciò, sarebbe a mio avviso un errore rifugiarsi in solipsismi autoflagellanti che dichiarano l’impossibilità della pratica etnografica o l’inutilità tout court delle teorie antropologiche. Ma ben prima di me Eric Wolf (1990) espresse queste idee meglio di quanto possa fare io e con parole che mi paiono tuttora attuali. Per questo lascerò che parlino per me riportandole qui:</div>
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“I think that the world is real, that these realities affect what humans do and that what humans do affects the world, and that we can come to understand the whys and wherefores of this relationship. We need to be professionally suspicious of our categories and we should be aware of their historical and cultural contingencies; we can understand a quest for explanation as approximations to truth rather than the truth itself. <b><i>But I also believe that the search for explanation in anthropology can be cumulative; that knowledge and insights gained in the past can generate new questions, and that new departures can incorporate the accomplishments of the past.</i></b>” (enfasi mia).</div>
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E’ sulla base di questo assunto che ritengo opportuno guardare a concetti passati dell’antropologia per aiutare a comprendere un’attualità sfuggente e drammatica. Ovviamente sarà necessario concedere una certa licenza poetica per stirare fin quasi al punto di rottura concetti creati per ambiti a volte profondamente diversi da quelli in cui si tenterà di applicarli. Ma gli orizzonti di pensabilità dischiusi dall’uso di idee quasi dimenticate, potranno forse aiutare a ordinare un reale opaco e in rapidissimo riassestamento.</div>
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Il concetto che propongo qui di maltrattare, costringendolo in un contesto apparentemente estraneo a quello della sua origine, è quello di Tabu: un oggetto (materiale o simbolico) interessato da interdizioni e attentamente normato, tanto da venire spesso reso intoccabile, a volte indicibile o addirittura impensabile. E’ chiaro come d’altronde concetti come questo non possano venire usati in modo ingenuo e acritico, quanto piuttosto come strumenti di ragionamento che tengano conto delle loro criticità e limitazioni (per una illustrazione introduttiva sull’origine e il contesto di costruzione del concetto di Tabu in antropologia, oltre che della sua organicità ad una visione evoluzionista e funzionalista, si rimanda a Pignato, 2001). Il motivo per il quale tale concetto mi pare interessante da rievocare in questi giorni di crisi sanitaria, è che vi sono diversi elementi del dibattito pubblico che sembrano rientrarvi abbastanza confortevolmente. Di alcune cose nell’attuale configurazione socio-storica, è impossibile, o molto difficile, parlare pubblicamente. E questa impossibilità genera delle ellissi nella spiegabilità dei fenomeni drammatici in cui siamo immersi, fortemente caricati di un’emotività collettiva, costretta a trovare oggetti alternativi su cui posarsi. Ciò che vorrei quindi fare è proporre una breve serie di temi che mi pare di aver individuato come possibili candidati per successive indagini nel tema dell’emersione o della soppressione dell’indicibile.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYcLa4Sk7GCMpTphQBMu5VrJ-rqkJ5pnoLJb2LDL7reBU028aYJbdmPwDSZXRbPGnUBSXW2LF-nHfifHDPVEEQwY3X4WI34dJ0X2_GW9Y9_K4KXVQzD5lSOQMfIomuhysRXwin_S5M9jc/s1600/rbrudolph-pixabay-dali-mural-pompidou.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1067" data-original-width="1429" height="297" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYcLa4Sk7GCMpTphQBMu5VrJ-rqkJ5pnoLJb2LDL7reBU028aYJbdmPwDSZXRbPGnUBSXW2LF-nHfifHDPVEEQwY3X4WI34dJ0X2_GW9Y9_K4KXVQzD5lSOQMfIomuhysRXwin_S5M9jc/s400/rbrudolph-pixabay-dali-mural-pompidou.jpg" width="400" /></a></div>
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Uno di tali oggetti, fortemente ritualizzato e stilizzato nel discorso pubblico, e pertanto quindi anche sterilizzato dalle conseguenze radicali che una sistematica risoluzione richiederebbe, è quello delle relazioni con la post-colonia. I paesi del terzo mondo continuano a venire intesi come luoghi di un’umanità qualitativamente diversa, in cui quasi <a href="https://www.cdc.gov/healthywater/pdf/global/programs/Globaldiarrhea508c.pdf" target="_blank">un milione di morti all’anno per dissenteria</a> risultano pensabili come normali. L’epidemia corrente, che ha colpito per prima le aree centrali del sistema capitalistico mondiale, ha per un istante catapultato almeno in parte quel centro nella realtà quotidiana della periferia. Eppure lo shock della tragedia decisamente reale che stiamo vivendo, invece di dimostrare l’inaccettabilità universale di ciò che altrove si avvicina alla normalità, sembra nuovamente negare un comune statuto di umanità ad alcune parti del mondo, rimarcando implicitamente la frattura artificiosa tra un noi ed un loro ai quali in fin dei conti si potrebbe applicare, e si è a lungo applicato, una diversa categoria di ciò che è moralmente accettabile.</div>
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Un altro oggetto messo tra parentesi è stato quello di classe: concetto che pareva ormai neutralizzato dalla sua carica conflittuale, dichiarato morto, ma che riemerge nel momento in cui si riscopre la rilevanza della stratificazione di lavori (e di lavoratori) ritenuti essenziali o meno. La soppressione di tale tema, parzialmente ribaltata da azioni di contestazione collettiva quali sono stati i numerosi scioperi (in <a href="https://www.usb.it/leggi-notizia/sciopero-generale-il-25-marzo-usb-al-governo-chiudete-le-fabbriche-e-gli-uffici-non-ce-niente-di-piu-importante-della-salute-1523.html" target="_blank">Italia</a>, ma anche<a href="https://paydayreport.com/covid-19-strike-wave-interactive-map/" target="_blank"> nel resto del mondo</a>) durante l’epidemia, impedisce di individuare i luoghi di un contagio che continua a mietere vittime, generando quindi il bisogno di trovare in sparuti corridori solitari i nuovi colpevoli, untori (o, per connettersi con un altro termine antropologico classico, stregoni?) su cui dirigere un dolore sociale soverchiante.</div>
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Ulteriore tema che propongo, caro alla tradizione marxista anche in antropologia, è quello della produzione. Apparentemente scomparsa dal discorso pubblico, scopriamo solo in queste settimane la sua centralità nella letale mancanza di oggetti materiali come mascherine e ventilatori, ma anche di sparute dosi di antivirali sperimentali come il Remdesivir e di inibitori JAK e dell’interleukina-6. Questi oggetti acquistano un valore d’uso inestimabile e divengono oggetto di relazioni di dono e reciprocità spesso non disinteressati (altri termini classici dell’antropologia), sul piano di comunità immaginate collettive (ma capaci di esercitare un’azione sul mondo decisamente reale), come case farmaceutiche e istituzioni pubbliche, in cui le prime donano, all’implicito prezzo di enormi risparmi in termini di sperimentazione, le proprie scorte di medicinali per uso <i>compassionevole </i>(il termine indica tecnicamente la possibilità di somministrare farmaci sperimentali a casi in pericolo di vita).</div>
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Infine vorrei aggiungere un aspetto che ultimamente mi sembra stare riacquistando forza: quello di un fascismo strisciante che non sembra essere mai morto in un paese che, al contrario di altri vicini europei come Germania o Spagna, non ha mai tagliato i ponti genealogici con quell’eredità (il che non toglie che simili processi di riemersione di organizzazioni di estrema destra non stiano avvenendo anche in tali paesi e nel resto d’Europa, vedi Gingrich & Banks 2006 e Kalb & Halmai 2011). Non ci si vuole riferire qui a vaghe idee di fascismo interiore o ur-fascismo che rischierebbe di trasformare chiunque in una camicia nera (né alla possibilità improbabile di un suo ritorno), ma al fascismo reale, istituzionale e sostanziale, che non ha mai abbandonato parti di una classe dirigente italiana in continuità tra prima e dopo la seconda guerra mondiale. Se è indubbio che il regime democratico-liberale del dopoguerra è stato ed è tuttora molto distante da quello fascista del ventennio, è anche vero che modalità di governo e di gestione della cosa pubblica italiana hanno mantenuto in alcuni casi una notevole continuità (si pensi ad esempio al breve intervallo del governo Tambroni), pur vigendo una cancellazione formale della parola “fascismo” al suo interno. Sarebbe necessario forse indagare come fenomeni di adorazione di massa (anche esplicitamente <a href="https://www.facebook.com/groups/914622965665392/" target="_blank">erotica</a>) di figure leader del contesto politico italiano siano collegabili con tale continuità. Sarebbe forse anche necessario capire se l’impossibilità di esplicitare le cause sistemiche materiali della tragedia sociale che stiamo vivendo concretizzino un rischio di generare nuove adesioni a narrazioni escludenti. Tale tragedia infatti, sembra esplicitare un dramma sociale (Turner 1957), con le annesse accuse di responsabilità stregoniche di forze che agiscono a distanza (spaziale quanto logica, nei termini di quelle ellissi di spiegabilità di cui sopra) in un “conflitto […] endemico nella struttura sociale”, ben distante però nel nostro caso dalla funzione di rimarcare “l’unità del gruppo” (ibidem: 129), a meno che per gruppo non si intendano parti sociali specifiche (in termini partitici e di classe) con interessi altrettanto specifici. In particolare ci si potrebbe chiedere se, con la probabile lunga coda di questa crisi, la possibile catastrofe epidemica (che rischia di diventare molto peggiore nel sud del mondo che non nei paesi del centro) potrà causare l’attribuzione di responsabilità di nuovi contagi a persone provenienti da tali aree. Attribuzione di responsabilità che rischiano di aggregarsi lungo linee di ragionamento ormai divenute senso comune, relative all’attribuzione di appartenenza e alienità, anche grazie a quelle tabuizzazioni degli aspetti sopra elencati. D’altronde ciò si è già visto brevemente poco prima dell’esplosione pandemica con i numerosi attacchi xenofobi verso persone semplicisticamente identificate come orientali. In effetti l’indice di gradimento dei leader politici italiani <a href="https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/29/conte-record-di-gradimento-61-meloni-in-testa-tra-i-leader-politici-lega-stabile-al-31/5752971/" target="_blank">crescono</a> sia per il premier Giuseppe Conte che per Giorgia Meloni (quest’ultima dalle simpatie e genealogie ideologiche piuttosto chiare), il cui partito ha assistito ad una recente importante crescita di consensi. Un’enfasi sulla salute pubblica e la protezione dei cittadini potrebbe paradossalmente dar forza infatti a parti sociali mai sopite che si giovano di quei non detti di cui si diceva sopra, pur riconoscendo difficile una loro nuova egemonia. Nondimeno, seguendo l’esempio di interessanti e recenti studi di antropologia su movimenti di estrema destra (vengono alla mente, tra le altre Cammelli 2015 e Pasieka 2019, ma anche Holmes 2000 e 2019) e le condizioni del loro emergere, gli spunti qui indicati possono forse aprire piani d’indagine per la nuova congiuntura che si va in questi mesi aprendo.</div>
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<i>Bibliografia</i></div>
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Cammelli, G. Maddalena. 2015. Fascisti del terzo millennio. Per un'antropologia di CasaPound. Ombre Corte Editore.</div>
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Gingrich, Andre, and Banks, Marcus. 2006. Neo-Nationalism in Europe & Beyond. Perspectives from Social Anthropology. Berghahn Books.</div>
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Holmes, R. Holmes. 2000. Integral Europe: Fast-Capitalism, Multiculturalism, Neofascism. Princeton University Press.</div>
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Holmes, R. Holmes. 2019. Fascism at eye level. The anthropological conundrum. Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology. Volume 2019, Issue 84 (Jul. 2019): Counter Politics, pp. 62-90.</div>
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<br /></div>
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Kalb, Don, and Halmai, Gábor. 2011. Headlines of nation, subtexts of Class. Working-Class Populism and the Return of the Repressed in Neoliberal Europe. Berghahn Books.</div>
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<br /></div>
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Pasieka, Agnieszka. 2019. Anthropology of the far right. What if we like the ‘unlikable others’? Anthropology Today. Vol. 35, No. 1, February 2019.</div>
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Pignato, Carmela. 2001. Totem, mana, tabù. Archeologia di concetti antropologici. Booklet Milano.</div>
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<br /></div>
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Turner, Victor. 1957. Schism and Continuity in an African Society. Study of Ndembu Village Life. Manchester University Press.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Wolf, R. Eric. 1990. Distinguished Lecture: Facing Power - Old Insights, New Questions. American Anthropologist, New Series, Vol. 92, No. 3 (Sep., 1990), pp. 586-596.</div>
<div>
<br /></div>
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Milano, 11 maggio 2020</div>
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Andrea Tollardo</div>
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Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (DACS)</div>
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Università di Milano Bicocca<br />
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<i>Il presente contributo è stato scritto da Andrea Tollardo e raffinato grazie alla revisione dei suoi colleghi di dottorato nell'ambito del Laboratorio di Scrittura realizzato dal DACS. Il testo intende rappresentare la prima voce di un "Piccolo dizionario antropologico della pandemia", finalizzato a interpretare l'attualità attraverso concetti chiave della disciplina. </i></div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-42927974899279078002020-05-08T00:30:00.002-07:002020-05-11T06:30:17.767-07:00In stasi, in corsa // FASE 2 - seconda parte<div style="text-align: justify;">
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<i>Scambio epistolare tra Vera Pravda [artista] e Giulio Verago [curatore]</i></div>
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<i><br /></i></div>
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<i>SECONDA PARTE</i></div>
<i><br /></i>
<i>Vera Pravda</i></div>
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<i>Lunedì 27 Aprile 2020, ore 21:32 </i><br />
<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKnVvQEC2Q5Sp7_O0ZKtAznLW77FRAjxNC8ZayD6FhFsGAxkXUoYWf1cHjBBlnVLf-UPLz15qbpxPPikss0VjHnMq7jOLrxREO-j_QC8QDSm5AspyxgbyJIjJaVBVKMFACVciBB8DNS6M/s1600/ConfiniArtProject+-+22.03.2020+-+Giulia+Flavia+Baczynski%252C+still+da+video%252C+2020+%25281%2529.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1280" data-original-width="720" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKnVvQEC2Q5Sp7_O0ZKtAznLW77FRAjxNC8ZayD6FhFsGAxkXUoYWf1cHjBBlnVLf-UPLz15qbpxPPikss0VjHnMq7jOLrxREO-j_QC8QDSm5AspyxgbyJIjJaVBVKMFACVciBB8DNS6M/s640/ConfiniArtProject+-+22.03.2020+-+Giulia+Flavia+Baczynski%252C+still+da+video%252C+2020+%25281%2529.jpg" width="360" /></a></div>
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<i><span style="font-size: x-small;"><a href="https://www.instagram.com/p/B-ClaZOowaW/?utm_source=ig_web_copy_link" target="_blank">ConfiniArtProject - 22.03.2020 - Giulia Flavia Baczynski, still da video</a></span></i></div>
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Caro Giulio,<br />
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Sono felice che tu stia bene, e te lo scrivo non per forma.</div>
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Ho temporeggiato a risponderti. La mia testa è densa di pensieri. È entrato lo Shabbat, ho pensato di scriverti dopo l’Havdalà, ma la settimana è iniziata da tempo e i pensieri continuano ad affastellarsi. Stasi inquieta. Scrivo ugualmente, dubito del resto che si acquietino a breve. </div>
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Quanto hai ragione sul futuro, e se la visione è sempre parziale, già nell’immanente, per il futuro sono solo previsioni, giochi d’azzardo. La natura dell’uomo è limitata, finita, i confini qui sono ben delineati, e probabilmente molto più stretti di quanto l’ego vorrebbe. Non ci è dato di sapere, non ci è dato di precorrere il tempo. </div>
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<br /></div>
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Penso però che, pur nella parzialità estrema - e nella complessità dei sistemi in cui ci muoviamo, di molti dei quali non abbiamo nemmeno coscienza - possiamo esprimere dei desiderata, e che esprimendoli e condividendoli, possiamo sostenere delle idee o delle visioni del mondo e della società. Penso sia il momento della semina, il tempo è propizio e il terreno è aperto, è un caso raro, penso si possa approfittarne per seminare specie che vorremmo più diffuse, rispetto alle colture intensive già in uso, che certamente continueranno ad esistere. Idee come piccoli semi in germoglio.</div>
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Personalmente opto per un approccio molto pragmatico: concentrare le forze su obiettivi definiti, fare ‘massa critica’, unire canotti arancioni insieme, per evitare alla nave gli scogli (o gli iceberg) che gli strumenti di bordo non captano perché troppo a ridosso, ma che visti dal vivo, toccati con mano, sono tutt’altro che irrilevanti e rischiano davvero di provocare squarci importanti nella chiglia. Nella mia arte ho deciso di parlare degli iceberg.</div>
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<br /></div>
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Sul ruolo dell’artista sono con te sul preservare il diritto alla contraddizione, alla speculazione, all’errore (errare, vagare alla ricerca di qualcosa): l’allargare i limiti del dibattito è una funzione fondamentale per la società. Altrimenti rischiamo di vedere solo ciò che sappiamo già. È la differenza tra visualizzazione e visione. La visualizzazione porta a business plan a 1-3-5 anni, la visione a riflettere su ciò che vogliamo fare ed essere, a ottimizzare, a ripensarci, a porre sul piatto nuove idee, a evolvere. Servono entrambe e, poiché la visione sia ampia, é fondamentale il dibattito intellettuale, l’apertura, la ricchezza di stimoli, l’humus creativo. Recentemente ho avuto il piacere di tenere una lezione a un master executive su arte e cambiamento e i legami sono molti.</div>
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Gli Highlights di /Confini/ su Gli Stati Generali in fondo nascono da questo: artisti, intellettuali e professionisti da saperi altri, chiamati a riflessioni generali su temi definiti, divulgate fuori dall’ambito di riferimento abituale. Sono contenta che stiamo portando avanti insieme questi contatti e mi sembra che si stia creando un bel think tank. Penso che in questo senso il progetto possa prolungarsi anche dopo la quarantena. Cosa ne pensi? Come potremmo ampliarlo? con che strumenti? </div>
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<br /></div>
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Come sottolinei l'arte visiva non deve svolgere un ‘compito’, ma certo è una funzione, così come la curatela.</div>
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Il punto è come si sostiene questa funzione. </div>
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Attraverso il ruolo la funzione viene esplicata. Penso che in Italia questo ruolo manchi.</div>
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Sulla condizione degli artisti visivi ti rispondo con il codice ATECO: 90.03.09, ‘ALTRE creazioni artistiche e letterarie’, nella sezione R, ‘attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento’ dopo teatro, musica, giornalismo, restauro; nella stessa classe di chi redige manuali tecnici. Tutte figure comunque attualmente in gestione separata, che di fatto possono accedere a scarse protezioni sociali, non solo in tempo di crisi. Questo ammesso che si arrivi ad avere un reddito, cosa per nulla scontata nel campo dell’arte visiva, dove si rischia di passare anni a creare la basi per carriere comunque precarie, da integrare necessariamente con redditi altri. È però il reddito che permette di portare avanti la funzione, è una questione di soddisfacimento di bisogni primari e di uso del tempo. Ci troviamo altrimenti con artisti formati, preparati, professionalizzati, ricchi di energie, che decidono di fare altro, perché la vita spinge e non è possibile vivere d’aria. Come sarebbe la nostra società senza gli artisti? Davvero siamo specie in via d’estinzione? Davvero l’arte non serve a nessuno? Non credo, e tu?</div>
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Non sono un’economista, ma personalmente penso che una struttura che permetta di inquadrare meglio gli artisti dal punto di vista legale sarebbe utile. Un albo e un ordine professionale non penso sarebbero una cattiva idea. Aiuterebbero il ruolo, e con esso la funzione. Auspicando un maggior coinvolgimento degli artisti nella vita pubblica. Forse nella riscrittura delle regole post-coronavirus si potrebbe prendere in considerazione una revisione del quadro normativo in cui si muovono queste professioni, e magari agevolare il mercato artistico e le collaborazioni con altri settori produttivi, estendendo ad esempio incentivi fiscali come l’artbonus alla produzione artistica contemporanea in toto. E anche rivedendo la legge del 2%, magari estendendola anche ai privati e a importi di cantiere inferiori. Significherebbe sostenere un intero settore, rendendolo produttivo, e permettendone un reddito. Come curatore come la vedi? </div>
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Sono anche io curiosa di sapere come vedi le nostre professioni e come si potrebbe uscire da questa impasse. </div>
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Siamo ai saluti: niente Munch né Cronenberg, ne ho solo paura. Forse ci saluteremo con gli occhi. In questo caso avverrebbe un contatto più profondo, con i pro e i contro della cosa. Le buone maniere sono un cuscinetto tra noi e gli altri, una zona franca che permette la giusta distanza: ecco, forse si svilupperà un nuovo galateo! Affascinante, anche molto divertente a tratti. Potrebbe nascerne una nuova opera! Che ne dici, ci lanciamo nella creazione?</div>
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(to be continued?)</div>
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Giovanni Della Casa, <i>Galateo overo de' costumi</i>, 1558 (p.); Edgar Lee Masters, S<i>poon River Anthology</i>, 1915; L. 717/1949; Abraham H. Maslow, <i>Motivation and Personality</i>, 1954; De André <i>‘Un ottico’</i>, 1971; Achille Bonito Oliva, <i>Arte e sistema dell'arte</i>, 1975; <a href="http://www.teche.rai.it/2018/11/gino-de-dominicis-lartein-questione/">http://www.teche.rai.it/2018/11/gino-de-dominicis-lartein-questione/</a>, dal mi. 9,35 ca., 1997; <i>Codice dei beni culturali e del paesaggio</i>, D.Lgs. 42, 22 gennaio 2004; <a href="https://www.istat.it/it/archivio/17888">https://www.istat.it/it/archivio/17888</a></div>
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<i>Giulio Verago</i></div>
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<i>Giovedì 30 Aprile 2020, ore 20:47</i><br />
<i><br /></i>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIjECTNXxg216_0RvGSRruqKfdy0ShdFIeI5HzZg4fgKNrhMUSznHEXX_yzPo2Yd-4IacCt7e_tjm9UwrRikXg1Pjuv5evhkAcfoRuPO_sryR06fjP-cC5qIRvtwuCViWUcj-blsNmVwQ/s1600/ConfiniArtProject+%25281%2529.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIjECTNXxg216_0RvGSRruqKfdy0ShdFIeI5HzZg4fgKNrhMUSznHEXX_yzPo2Yd-4IacCt7e_tjm9UwrRikXg1Pjuv5evhkAcfoRuPO_sryR06fjP-cC5qIRvtwuCViWUcj-blsNmVwQ/s400/ConfiniArtProject+%25281%2529.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<i><span style="font-size: x-small;"><a href="https://www.instagram.com/confiniartproject/" target="_blank">Confini, 2020</a></span></i></div>
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Cara Vera,<br />
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Stasi inquieta è un ossimoro interessante.</div>
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Di recente ho conversato con un mio amico che osserva il Ramadan e gli ho chiesto che differenza ci trovi a viverlo in quarantena. Non mi ha saputo rispondere, mi ha detto che proprio non trovava le parole.</div>
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E' importante penso, come cittadini prima che come artisti o curatori, impegnarsi per far sì che il vocabolario per descrivere quello che stiamo vivendo sia condiviso, per evitare manipolazioni. Purtroppo anche in Europa (penso alla Ungheria ma anche alla Polonia e non solo) abbiamo governi che stanno imponendo un perimetro tra ciò che può essere detto e ciò che si deve tacere. E sappiamo che c'è chi vuol far passare la pandemia per una scusa. Eppure anche in questi contesti l'arte continua a sopravvivere. Nietzsche giustamente ammoniva contro la presunzione di un’epoca di avere più “giustizia” di un’altra. Resta da capire come gli artisti visivi riusciranno a metabolizzare questa nuova idea di confine che la pandemia sta solo rendendo più evidente. Quale alfabeto inventeranno e quali domande, di fronte a quale specchio ci metteranno.</div>
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Gli iceberg di cui mi parli mi sono chiari sia conoscendoti personalmente che approfondendo la tua ricerca. Penso sia fondamentale questa "consonanza" tra ciò che si fa come cittadini e il proprio lavoro. La differenza tra visualizzazione e visione è essenziale ma deve essere chiara all’artista come a chi ci governa.</div>
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Sulla condizione degli artisti visivi sto seguendo con grande interesse il dibattito nato da un gruppo di colleghi e artisti di cui ho grande stima - <i>Artist Workers Italia</i> - attorno alla risposta della scena emergente e indipendente. Come anche altre iniziative più vecchie e strutturate, penso al Forum dell’Arte Contemporanea, aiutano a rivendicare la necessità di maggiori tutele per chi crea, di aiuti concreti per chi investe energie e risorse per la creazione emergente. Temo però che un cambiamento reale possa avvenire solo se cambia la percezione del ruolo dell’artista nell’opinione pubblica e per quello ci vuole un cambio di strategia. Giustamente il codice ATECO è una metafora di un problema più ampio, penso ad esempio a quanto le rivendicazioni del mondo dello spettacolo siano più efficaci, perché quel settore si è meglio organizzato e resiliente delle arti visive e non a caso è più presente nei pensieri della politica.</div>
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<br /></div>
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Il ruolo del curatore è evidentemente in una fase di profondo cambiamento, come sta cambiando del resto il senso del fare le mostre. E non mi riferisco solo alla smaterializzazione cui siamo forzati dalla pandemia. Vedo i segni di stanchezza di questa figura di curatore-factotum che ha l’ambizione di assumere “pieni poteri” (legislativo, esecutivo e giudiziario). Forse sono un reazionario ma vedrei utile tornare a una scomposizione delle funzioni reali del sistema per adempiere le quali ci vuole, più che un master costosissimo, deontologia e il coraggio di esporsi alla critica. Che poi le funzioni possano coesistere nella stessa figura lo deve decidere di volta in volta un meccanismo legittimante che non può più permettersi di scimmiottare quello dello star system.</div>
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Penso che nella curatela sia utile uscire dalla <i>comfort zone</i> del proprio <i>statement </i>per provare a semplificare senza banalizzare. L’Italia post-pandemia ha bisogno di percepire il linguaggio dell’arte contemporanea meno distante e autoreferenziale. Il concetto di contemporaneo per me è solo una convenzione utile a scrivere la storia dell’arte ma a prenderla troppo seriamente si rischia di dimenticare la filogenesi, qualcosa che sappia tenere insieme ad esempio i dipinti ottocenteschi di Angelo Morbelli al Pio Albergo Trivulzio con il video girato da Anri Sala nel Duomo di Milano.</div>
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Grazie per l’ascolto,</div>
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Giulio</div>
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(to be continued?)</div>
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<i>“The Boat is Leaking. The Captain Lied”</i>, Fondazione Prada - Venezia, 2017 (catalogo); Olafur Eliasson et al. <i>“Chaque matin je me sens différent, chaque soir je me sens le même”</i>, Palais de Tokyo 2002 (catalogo); Kit White, <i>“101 things to learn in Art School”</i>, MIT Press 2011; Enrico Boccioletti, <i>U+29DC aka Documento Continuo</i>, Link Editions, 2014; Hugh Trevor-Roper, “Carlo V e il fallimento dell’umanesimo”, in <i>“Principi e Artisti: mecenatismo e ideologia alla corte degli Asburgo”</i>, Einaudi 1980.<br />
<br />
Milano, 8 maggio 2020<br />
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-22981273697582021782020-05-07T07:43:00.003-07:002020-05-11T06:29:58.650-07:00In stasi, in corsa // FASE 2 - prima parte<div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Scambio epistolare tra Vera Pravda [artista] e Giulio Verago [curatore]</i></div>
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<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>PRIMA PARTE</i><br />
<br />
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<i>Vera Pravda</i></div>
<div>
<i>Giovedì 23 Aprile 2020, ore 21:23 </i><br />
<i><br /></i></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi9MRwBMqJQh7mtBtCIlVb4mMfuC8S-HDzbCv4OPI4Vp4GluGahQ1a8PlV6r9CkeWktlOTwHFHcVO9fHKC5PzR7AEcyz_eYIbrmUUs92MKAqZmu3lLspOb-f7RmPfphJAMf-4SsliVz03I/s1600/Confini%252C+Vera+Pravda+-+small.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1334" data-original-width="1002" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi9MRwBMqJQh7mtBtCIlVb4mMfuC8S-HDzbCv4OPI4Vp4GluGahQ1a8PlV6r9CkeWktlOTwHFHcVO9fHKC5PzR7AEcyz_eYIbrmUUs92MKAqZmu3lLspOb-f7RmPfphJAMf-4SsliVz03I/s640/Confini%252C+Vera+Pravda+-+small.jpg" width="480" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<i><span style="font-size: x-small;"><a href="https://www.instagram.com/p/B9qr6_uIvuk/?utm_source=ig_web_copy_link" target="_blank">Vera Pravda, Confini, immagine fotografica da smatphone, 2020</a></span></i></div>
<div style="text-align: center;">
<i><span style="font-size: x-small;"><br /></span></i></div>
</div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Caro Giulio, </div>
<div style="text-align: justify;">
come stai?</div>
<div style="text-align: justify;">
Guardo fuori dalla finestra e penso: come sarà il mondo di domani?</div>
<div style="text-align: justify;">
Tu cosa ne pensi? Domani è tra qualche settimana, cosa succederà?</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Per me è come se avessero spento di colpo la luce, abbassato a uno a uno gli interruttori generali - a ogni conferenza stampa mi sembrava di sentire il rumore di queste grandi leve e il ronzio sordo dei generatori e delle luci d’emergenza - e il tempo interiore, sempre più lento, come un’ombra fuori sincrono, si sta adeguando solo ora.</div>
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Lo stop era auspicabile, per cambiar rotta è necessario frenare. Ma quali i prezzi dell’andare e dello stare?</div>
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Pensieri veloci, stasi estrema, silenzio, cinguettio d’uccelli in cortile, luci come comete che mi vagano per la testa.</div>
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Crisi climatica, quarantena, riconversione ecologica, diseguaglianze sociali, gender gap, zoom, disuguaglianze di genere, coscienza collettiva, fame, <i>business as usual</i>, libertà personale, <i>green washing</i>, <i>smart working</i>, nuovi populismi, povertà, ritorni religiosi, cultura da salotto, resilienza, crisi economica, diretta instagram, solidarietà, <i>e-learning</i>, salto quantico, era post-ideologica, comunità virtuali, società fluida, solitudine connessa, identità, mediosfera digitale. Cosa succederà? Saremo in grado di rispondere a tutti questi interrogativi e ad altri ancora in modo intelligente, + +, positivo per noi e per gli altri? Qual’è la priorità? La possibilità di cambiamento va sfruttata o negata? Penso agli appelli di IPCC, FAO, OHCHR. Si proclamerà il cambiamento, questo è certo, è una delle parole più in voga del momento: ma nella pratica cosa avverrà?</div>
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E cosa possiamo fare noi nel nostro piccolo, cosa possono fare gli artisti, i curatori? Che ruolo pensi che possiamo avere nella società di domani?</div>
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Immagino la rotta dei transatlantici che sono le nostre società come influenzate da tanti piccoli lillipuziani canotti arancioni che tirano, ognuno dalla propria parte, alcuni travolti, alcuni generano spostamenti irrisori, alcuni provocano virate improvvise, a volte inaspettate, in un mare agitato dagli eventi estremi causati dall’innalzamento della temperatura globale.</div>
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Leggendo i media penso che siamo portati a pensare che il covid-19 sia la sola crisi da risolvere, mentre sono certa che siamo immersi in un sistema problematico, parziale, abituato all’omissione, allo sguardo selettivo, salvo poi redimersi quando qualcuno ci pulisce gli occhiali da strati di polvere. Forse ora che abbiamo imparato l’igiene delle mani inizieremo anche a lustrarci gli occhiali da soli? </div>
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Uno dei compiti dell’arte può essere lustrar gli occhiali, o è solo arroganza, visione mono-dimensionale? perché è vero che gli occhiali sono prismi sfaccettati, poliedri complessi, che mutano al mutare del tempo e dell’individuo che li inforca. E soprattutto a dove si punta lo sguardo.</div>
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La mia non è un’arte dell’IO, ma del NOI. Ma chi è questo noi? E come cambia?</div>
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Un grande grazie a te e a Viafarini per collaborare così attivamente a <a href="https://www.instagram.com/confiniartproject/" target="_blank">/Confini/</a> e agli <a href="https://www.glistatigenerali.com/users/confiniartproject/" target="_blank">Highlights</a> su Gli Stati Generali. Queste tante produzioni individuali formeranno un lungo, abbacinante video collettivo, un affresco di questo tempo sospeso, - parziale, certo - ma ricco di spunti, emozioni, pensieri, come germogli in nuce che attendono d’essere irrorati dal tempo per sbocciare. Far da cassa di risonanza a questo appello è, in definitiva, dargli voce. Dar voce ad un piccolo NOI. Grazie.</div>
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Poi la tempesta di parole mano a mano decanta, come sabbia in un bicchiere d’acqua, e penso che faremo appello alle nostre capacità interiori, all’umanità profonda, alla scintilla che sta all’interno di ciascuno di noi, nessuno escluso. E penso che questa crisi, nella sua crudeltà e crudezza, ci abbia necessariamente resi più forti, più capaci di accorgerci delle nostre capacità, non solo individuali, ma collettive. Siamo cresciuti come singoli e come società, sono cresciuti i nostri politici nel fronteggiarla, sono cresciuti i capi di stato, i referenti religiosi, gli insegnanti, i genitori, i bambini. Siamo cresciuti tutti noi. Siamo diventati capaci di vedere l’umanità dell’altro. E forse non dobbiamo andare da nessuna parte, ma solo aver cura.</div>
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Caro Giulio, ti ringrazio di questo dialogo continuo.</div>
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Pochi riferimenti molto sparsi, ma in ordine cronologico:</div>
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aa.vv., Pirkei Avot; Jonathan Swift, <i>Travels into Several Remote Nations of the World, in Four Parts. </i>By Lemuel Gulliver, First a Surgeon, and then a Captain of Several Ships, 1726; Voltaire, <i>Candide, ou l'Optimisme,</i> 1759; Herbert Marcuse, <i>One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society</i>, 1964; John Lennon, <i>Imagine</i>, 1971; Carlo Cipolla, T<i>he Basic Laws of Human Stupidity</i>, 1976; Lucio Dalla, <i>L’anno che verrà</i>, 1978 ; Vasco Rossi, <i>T’immagini</i>, 1985; CCCP, <i>Morire</i>, 1986; Noir Desir feat. Brigitte Fontaine, <i>L’Europe</i>, 2001; Linkin Park, <i>Castle of glass</i>, 2012; Jonathan Safran Foer, <i>We are the Weather</i>, 2019.</div>
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<i>Giulio Verago</i></div>
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<i>Venerdì 24 Aprile 2020, ore 12:29</i><br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhy-1oTsFONm5mfw-tUTs3JItS5DQYFaXHpxERDm-dxGd1Wr9jMfM6kkv3-q5nu5fnxMB9qS_zn78fFZuJtsYtjgUrmq1LHxhhLgC1qab8lONQo9JtxU9rWQfJh2uK4s2KMadzSc29rofk/s1600/Confini+Art+Project+-+13.03.2020+-+Giulio+Verago%252C+still+da+video%252C+.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1138" data-original-width="640" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhy-1oTsFONm5mfw-tUTs3JItS5DQYFaXHpxERDm-dxGd1Wr9jMfM6kkv3-q5nu5fnxMB9qS_zn78fFZuJtsYtjgUrmq1LHxhhLgC1qab8lONQo9JtxU9rWQfJh2uK4s2KMadzSc29rofk/s640/Confini+Art+Project+-+13.03.2020+-+Giulio+Verago%252C+still+da+video%252C+.jpg" width="356" /></a></div>
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<span style="color: #0000ee; font-size: x-small;"><i><u><a href="https://www.instagram.com/p/B9rJoy_H8fP/?utm_source=ig_web_copy_link" target="_blank">Confini Art Project - 13.03.2020 - Giulio Verago, still da video, “Aging is rude”, courtesy Dragana Sapanjos</a></u></i></span></div>
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Cara Vera,</div>
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quante questioni importanti tocchi.</div>
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Innanzitutto mi chiedi come sto. Sto bene e ne ho una consapevolezza completamente diversa, in alta definizione. </div>
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E' giusto chiedersi che mondo sarà domani ma partendo dall'oggi non rischiamo di averne una visione parziale? </div>
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A guardare fuori dalla finestra quello che mi fa più paura è ciò che non riesco ancora immaginare. Come ci saluteremo? Quali ritualità? De Chirico e Fellini lasciano il posto a Munch e Cronenberg.</div>
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I tanti aspetti che evochi mi sembrano tutti in qualche modo interdipendenti e mi sembra difficile individuare la priorità. Sarebbe il compito della politica. O in un sua assenza della filosofia. Forse è un vizio di forma del pensiero occidentale l'ossessione a dover necessariamente ordinare tutto gerarchicamente. </div>
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<br /></div>
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Mi piace la sequenza di concetti contraddittori che citi. Alcuni di loro (penso ad esempio a resilienza, coscienza collettiva e società fluida) sono belli e utili ma logori, come un tappeto persiano male calpestato. L'arte può suggerire parole nuove e accezioni "fuorvianti" e inaspettate. L'opera d'arte come eterogenesi dei fini, conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali. Navigando a vista in un mondo più povero, diviso e impaurito dobbiamo salvaguardare il diritto alla contraddizione, alla tensione, all'errore e alla dissacrazione, senza questo l'arte è artigianato.</div>
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Quanto alla post-ideologia che giustamente evochi per me c'era già tutta nel Manierismo grottesco di Rosso Fiorentino e solo di conseguenza posso casomai vederla nelle banane appese con lo scotch.</div>
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Lavoro con gli artisti visivi. Con loro e per loro. Anzi curando una residenza posso dire anche di vivere fra loro. Consapevole delle sfumature tra queste preposizioni. Umanamente lo considero una grande fortuna. A volte persino un privilegio. Ma non dovrebbe essere così. Non dovrei considerarmi un privilegiato ma un povero diavolo capace di esprimere, come può, una funzione piuttosto basilare (se non addirittura elementare) in una società democratica. Aggiungo che per me la curatela è una funzione e non una professione. </div>
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Questo Paese, che si ricorda più facilmente di santi e navigatori che dei poeti, non riconosce all'artista contemporaneo un ruolo. Lascia gli artisti visivi in un vuoto simbolico ma anche in un limbo legale e amministrativo. Vorrei da te una opinione su questo aspetto. Come vivi questa contraddizione? E' uno "svantaggio" essere un*artista in Italia? Non senti tradita una qualche fiducia?</div>
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<br /></div>
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In questo vuoto entra la crisi dell'intero sistema dell'arte, nel momento in cui le opere non possono essere esposte. Un'opera smette di esistere se non viene esposta? Se già i critici erano decimati quando le mostre erano fruibili il fatto di non poter nemmeno vedere l'opera come cambia il consumo culturale? Forse nuovi formati non sono ancora nati e i vecchi non sono ancora morti... In fondo il tuo progetto Confini, come altre proposte e inviti a narrazioni collettive, è anche un modo per interrogarsi sulla genesi di una narrazione collettiva, sulla sua complessità e contradditorietà.</div>
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Mi sembra che siamo di fronte a un bivio rispetto al vecchio imperativo kantiano di trattare se stessi e gli altri "sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo". Fino a ieri ero piuttosto pessimista in merito. Ora, paradossalmente, vedo un'occasione per un riallineamento dei poteri anche all'interno del sistema dell'arte o almeno lo spazio per un dibattito sincero, dove gli stracci volano davvero.</div>
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A partire dagli anni Novanta (invitando artisti come Vito Acconci, Jimmie Durham, Franco Vaccari, Mona Hatoum e Wurmkos) e più recentemente con Engage Public School Viafarini ha attivato riflessioni sul ruolo dell'artista nella lettura dei cambiamenti nella società ma questo "destino" rimane ancora marginale nel dibattito italiano e ho la sensazione che molta sia la strada ancora da fare.</div>
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Fortunatamente l'arte non ha un compito. L'opera non è un esperimento da svolgere per dimostrare una tesi, o un tema da sviluppare per ricavarne una morale. L'arte ha una funzione. Importante ribadirla e non fraintenderla.</div>
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Grazie a te Vera, questo dialogo sembra portarci lontano, è un piacere viaggiare con te.</div>
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[to be continued?]</div>
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Pochi riferimenti sparsi e sbarazzini:</div>
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John Williams, <i>stoner </i>(1965); A.A.V.V. <i>Perché continuiamo a fare e a insegnare arte? corso in nove lezioni</i>, Bologna (1977); David Balzer, <i>Curatori d'assalto</i> (2016); <i>Il libro dei ventiquattro filosofi </i>(XII secolo); Franco Russoli, <i>Senza utopia non si fa la realtà. Scritti sul museo</i> (1952-1977); Junichiro Tanizaki, <i>Libro d'ombra</i> (1935); <i>Ten fundamental questions of Curating</i> (2013); Amanda Lear, <i>La mia vita con Dalì </i>(1984); <i>Learning to love you more</i>, Miranda July & Harrell Fletcher (2007), Erlend Loe, <i>Naiv. Super </i>(1996).</div>
<div style="text-align: justify;">
New Trolls, <i>Duemila</i>; Billie Holiday, <i>Summertime</i>; Billie Eilish, <i>Everything I wanted</i>; Tim Buckley, <i>Song to the Siren</i>; The Cure, <i>Disintegration</i>; CCCP, <i>Inch'Allah - Ça Va</i>; Cigarettes after sex, <i>Nothing's gonna Hurt you baby</i>; Koudlam, <i>See you All</i>; Whitney Houston, <i>My Love is your Love</i>; Fabrizio De André, <i>Crêuza de mä</i>. </div>
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Intervista a Giorgio De Chirico mentre dipinge,<i> Come nasce un'opera d'arte</i>, RAI 1975;</div>
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<i>Smashing</i>, by Jimmie Durham @ Parasol Unit, performance.</div>
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Milano, 7 maggio 2020<br />
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-91769687392855060022020-05-06T02:47:00.001-07:002020-05-06T02:47:19.948-07:00La liminalità dei corpi [STUDENTS' CORNER]<div style="text-align: justify;">
Sono trascorsi esattamente due mesi da quella notte di marzo in cui venne decretata l’estensione della “zona rossa” a tutta Italia. Gli spostamenti vengono vietati; ai cittadini viene imposto l’obbligo di restare a casa, se non per emergenze di salute o motivi lavorativi. Da quel giorno, l’Italia si blocca. Le mura di casa diventano i confini del proprio mondo, le relazioni interpersonali sono delegate al virtuale. Molti altri paesi dell’Unione Europea e del mondo hanno adottato drastiche misure di contenimento del virus Covid-19, riconfigurando profondamente le vite dei cittadini e gli immaginari collettivi sull’altro, sul passato e sul futuro. Ogni evento, locale o mondiale, si lega inevitabilmente ad un’unica costante: il contagio. Lavoro, tempo libero, economia, religione, relazioni sociali, benessere psico-fisico, educazione. Tutti questi aspetti sono interconnessi nell’incertezza del momento e co-partecipano ad un processo di rivalorizzazione individuale e collettiva. Il virus assume le sembianze di un rituale di passaggio a cui tutto il mondo è obbligato a sottoporsi. Ci troviamo attualmente nella fase liminale (Van Gennep, 2002): una fase di sospensione identitaria, di risignificazione dell’ambiente, del sé e dei propri ruoli, siano essi sociali o legati maggiormente alla sfera dell’intimità. Ne consegue un pervasivo - e forzato - lavoro sul sé.</div>
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<br /></div>
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Contemporaneamente, stiamo portando addosso i segni di questo processo: come spesso accade, in un momento di crisi la società intensifica il controllo dei corpi (Scheper-Hughes, Lock, 1987). I segni della quarantena si imprimono fisicamente su e dentro di noi, incorporando la liminalità del rituale e manifestandosi nella fisicità di tutti noi. Quando questo momento passerà, la condizione di ognuno di noi, obbligato nell’oggi a riflettere più o meno profondamente sul sé, sarà inevitabilmente variata, sia a livello microscopico - nelle relazioni più personali - sia a livello più ampio - nella propria società di appartenenza. </div>
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<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjG7B-64Ibui7efc3_LPYVyvJEUf5KZYitB3J8yPvlMaR6sbiNchUpWBRpqmBt74kkLdlP_pJnpOLMgtOB3RDlxXZJZgXiTyJ2tWSWNZDjnjQsa8iBZzyO6AYXsakqPBJsG6uafYofqJNU/s1600/GettyImages-1207849316.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1067" data-original-width="1600" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjG7B-64Ibui7efc3_LPYVyvJEUf5KZYitB3J8yPvlMaR6sbiNchUpWBRpqmBt74kkLdlP_pJnpOLMgtOB3RDlxXZJZgXiTyJ2tWSWNZDjnjQsa8iBZzyO6AYXsakqPBJsG6uafYofqJNU/s400/GettyImages-1207849316.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<i><span style="font-size: x-small;">Richiedenti asilo sull'isola di Lesbo, in Grecia</span></i></div>
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<i><span style="font-size: x-small;"><br /></span></i></div>
<div style="text-align: justify;">
Il virus è quindi permeante, totalizzate, estremizzante; assume le sembianze dell’ideologia. Niente viene più espresso se non in relazione ad esso. Cosa succedeva nel mondo prima di questa crisi? Di cosa si discuteva? Migliaia di migranti erano bloccati sul confine greco-turco, Lesbo era teatro di scontri violenti, la popolazione di Idlib stava fuggendo da una guerra instancabile. Dov’è tutto questo, ora? Ancora è, esiste, a prescindere dal virus. Ma in funzione di esso viene letto. Non si parla più di profughi al confine greco-turco, ma di quanto potrebbe essere rischioso un loro contagio. Idlib viene nuovamente dimenticata. Allo stesso modo, sui giornali, le notizie non concerni al virus si trovano in sezioni minori, sottolineando l’estraneità di tali notizie alla situazione attuale. </div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQKNHkswONFtkuVorJ141iX_1890Tvhs9BwYSPDIetKTxOtfqMUeX7O_VgfvLMS4_ETSwM3VMeN4ab2SYZhe7TlA0_mKEZX-VDaLF9p8rKy84js3NAaUwiqPXemTVusiP5nTswvKaTksk/s1600/6460c61e9fd72a9ac9fa1912e18a87fd3e6a6917.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="432" data-original-width="768" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQKNHkswONFtkuVorJ141iX_1890Tvhs9BwYSPDIetKTxOtfqMUeX7O_VgfvLMS4_ETSwM3VMeN4ab2SYZhe7TlA0_mKEZX-VDaLF9p8rKy84js3NAaUwiqPXemTVusiP5nTswvKaTksk/s400/6460c61e9fd72a9ac9fa1912e18a87fd3e6a6917.jpeg" width="400" /></a></div>
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Come si modifica il nostro atteggiamento verso “l’esterno”? Come cambiano le dinamiche sociali e su quali elementi si pone maggiore attenzione? Sono domande che necessitano risposte complesse e che non possono né devono essere decontestualizzate. Tuttavia, la crisi sanitaria mette sicuramente in evidenzia forme di disuguaglianza dalle radici antiche; le loro intersezioni consolidano la gerarchizzazione di classe la quale, a sua volta, influisce fortemente sulle possibilità di benessere e di sopravvivenza di specifiche fasce di popolazione. Emergono sempre più drasticamente le carenze dei sistemi sanitari, le nature più profonde dei politici, le ingiustizie e le ipocrisie della democrazia, la pericolosità di una comunicazione mal gestita. Ed in tutto questo, il Covid-19 cessa di essere altro da noi, il nemico comune delineato dal linguaggio bellico utilizzato dai media - linguaggio che forse vuole proprio celare e negare l’ormai famigliare convivenza con il virus. Esso si trasforma, diventa una lente attraverso cui guardare alla realtà; un termine di paragone per il passato (“quando non c’era il virus”, “quando si poteva uscire”), in un binomio di contrapposizione al negativo con l’oggi, e per il futuro, il quale dipende profondamente dall’evoluzione incerta e speranzosa della situazione attuale. </div>
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Quello che resta - e che deve restare - è la ricerca di una sempre nuova consapevolezza, un memento sull’importanza della conoscenza anche e soprattutto in momenti così difficili, per rinnegare l’odio, accogliere la differenza e, faticosamente, tenere duro, portando avanti le riflessioni nate nell’oggi ed utilizzando il virus come strumento d’analisi e di maggior comprensione sulla realtà. </div>
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<i>Scheper-Hughes, N., Lock, M.M., 1987, “The Mindful Body: A Prolegomenon to Future Work in Medical Anthropology”, in Medical Anthropology Quarterly, New Series, Vol. 1, No. 1 (Mar., 1987), pp. 6-41</i></div>
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<i><br /></i></div>
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<i>Van Gennep, A., 2002, “I riti di passaggio”, Torino, Bollati Boringhieri</i></div>
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<i><br /></i></div>
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Milano, 6 maggio 2020</div>
<div style="text-align: justify;">
Lidia Tortarolo</div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche<br />
Università di Milano Bicocca</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span><i>Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.</i><br />
<br />
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-6325402103512912712020-05-05T06:54:00.002-07:002020-05-05T06:54:20.105-07:00Io, corpo e oggetto [STUDENTS' CORNER]<div style="text-align: justify;">
<i>L’esperienza umana, tra grafici e curve</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Ai tempi delle scuole elementari, la mattina mi ritrovavo a far colazione con la televisione sintonizzata sul telegiornale. Le notizie uscivano dallo schermo senza che io riuscissi a comprenderle. Poi toccava agli andamenti delle borse. Quei grafici e quegli indici sono sempre stati per me un vero e proprio mistero. A oggi fatico ancora a comprendere cosa quei numeri volessero realmente comunicarmi. Sono trascorsi vent’anni da quei giorni dell’infanzia e la sensazione che ieri mi provocava il grafico dell’andamento delle borse, oggi me la provoca il grafico dell’andamento del covid-19. Semplicemente, attraverso i grafici, riesco a rappresentarmi ben poco di tutto quanto nel mondo si sta consumando. O meglio: quei numeri non riescono a dirmi tutto.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1RRYxGgI-UWIheSK7HUruziQ1_uN_lYUaj0Os0y7fCGHp5JC5v8jIlSOnJ0uN53tsPJBGhlW4Itzh8ExVwR5M-VNxlT7erQpdth7nfqj2ZNgYurX1SYZSy9S3JKsRvyFzBpuC0Hbe49s/s1600/penny.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="683" data-original-width="1023" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1RRYxGgI-UWIheSK7HUruziQ1_uN_lYUaj0Os0y7fCGHp5JC5v8jIlSOnJ0uN53tsPJBGhlW4Itzh8ExVwR5M-VNxlT7erQpdth7nfqj2ZNgYurX1SYZSy9S3JKsRvyFzBpuC0Hbe49s/s400/penny.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
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Ai tempi dell’epidemia da coronavirus l’esperienza umana è ridotta a numeri, dati, curve. Informazioni, queste, che restituiscono una rappresentazione matematica della realtà. Una rappresentazione percepita come l’unica possibile. Perché è sulla base dei numeri, dei dati e delle curve che pensiamo le soluzioni, soprattutto quelle politiche e economiche. Eppure i numeri non sempre mantengono la promessa di raccontare la portata di un fenomeno. Perché i numeri non hanno nomi o cognomi. Non svolgono professioni, non hanno età, né aspettative. Non provano emozioni, non versano lacrime. Non soffrono l’ansia, non assumono farmaci. Non hanno una famiglia da aspettare sulla porta di casa, non hanno nonni o padri o madri. Non hanno figli o amici. Non hanno paure né tanto meno frustrazioni. Non pregano né imprecano. I numeri non pensano né desiderano. Più che la realtà, rappresentano i parametri che abbiamo adottato per capirci qualcosa in più. Così, al cambiare dei parametri, cambiano anche i risultati che i numeri vogliono raggiungere. E insieme a questi, infine, cambia anche la realtà che stiamo rappresentando. Osservare fenomeni e raccogliere dati ha infatti un prezzo da pagare. Karl Popper affermava proprio questo quando sosteneva che “la credenza secondo la quale possiamo partire da delle pure osservazioni, senza niente di simile a una teoria, è davvero assurda: l’osservazione è sempre selettiva”. Per dirla in altri termini: per cercare qualcosa è necessario sapere cosa si sta cercando. Dunque, per cercare una rappresentazione dell’epidemia, è necessario avere già a disposizione una particolare idea di cosa sia la malattia, la salute e la cura. A tenere insieme questi concetti è il corpo. E’ quest’ultimo a essere colpito dalla malattia. E’ il corpo a essere l’oggetto della salute così come della cura. Per queste ragioni le politiche di contrasto al covid-19 prevedono il distanziamento fisico (distanziamento fisico, non sociale). Sono i corpi che stiamo curando e sono sempre i corpi che stiamo conteggiando.</div>
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<i>Numeri, soggetti e significati</i></div>
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I numeri dell’epidemia continuano allora a promettere di comprendere la portata del fenomeno. Eppure, a quei numeri, manca qualcosa. Manca il significato. Non rendono conto dei lutti, dei legami tra persone, dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri, dei comportamenti individuali. Perché è sulla base di tutto questo che le persone agiscono e, soprattutto, re-agiscono. I grandi numeri non tengono conto delle motivazioni che inducono le persone all’azione. Eppure è proprio a partire da essi che viene prodotta la norma, una norma che ambisce poi a monitorare i comportamenti. </div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEghRWIXhmY2sG3AuN-sb84dOnea9xk0t_kRoWCPqHHLXmXmjHLMEdGaeNiEAP4F_MOf5GfE6u1GJN1MmpQqCxd__8xZQSI5T249NlfVR9a8IsfJN5onEoT83vkmYZL1kl_c5h-IUiEc2ic/s1600/GettyImages-1207991490.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="422" data-original-width="635" height="265" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEghRWIXhmY2sG3AuN-sb84dOnea9xk0t_kRoWCPqHHLXmXmjHLMEdGaeNiEAP4F_MOf5GfE6u1GJN1MmpQqCxd__8xZQSI5T249NlfVR9a8IsfJN5onEoT83vkmYZL1kl_c5h-IUiEc2ic/s400/GettyImages-1207991490.jpg" width="400" /></a></div>
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Un esempio empirico può essere d’aiuto. Tra i dati dell’epidemia troviamo anche quelli riguardanti la mobilità o gli spostamenti delle persone. Attraverso l’attività di monitoraggio delle forze dell’ordine sui territori è possibile conoscere quanti individui, in una particolare area, stanno circolando. Questi dati sugli spostamenti, se messi in relazione a quelli riguardanti l’aumento dei contagi nella medesima area, mostrano una connessione. Da qui una conseguenza: circolare favorisce il contagio. Dunque la norma diventa una soltanto: “stare a casa”. E’ a questo punto che i numeri mostrano tutti i propri limiti: essi non ci dicono nulla sulle motivazioni che hanno spinto alcuni di quei corpi a uscire dalle proprie case. I numeri sembrano negare le motivazioni. Puoi infatti uscire perché soffri di attacchi di ansia e hai bisogno di camminare oppure perché mamma è ricoverata in una Rsa e l’idea di non rivederla fa male. Puoi uscire perché ti manca il tuo compagno, con il quale condividi la vita da anni. Puoi infrangere la quarantena perché sei un eroinomane e, ai tempi dell’epidemia, è meglio contrarre il virus anziché provare sulla propria persona i sintomi drammatici dell’astinenza. Oppure puoi uscire da casa perché, in fondo, nulla ti importa. Che piaccia o meno, che si condividano oppure no, sono queste le motivazioni che spingono quei corpi all’azione. E sono queste motivazioni che danno sapore all’esperienza umana. Perché le persone, per i propri affetti o per le proprie dipendenze, infrangono leggi e le trasgrediscono: i corpi si riscoprono così soggetti capaci di desiderio e di motivazione. Non solo corpi inermi da conteggiare.</div>
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<i>Il corpo: non solo oggetto</i></div>
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Se l’analisi dei numeri è compito degli epidemiologi, considerare le motivazioni è invece compito degli scienziati sociali, antropologi compresi. Perché le motivazioni che spingono all’azione vengono percepite direttamente e in prima persona. I numeri no. I numeri contano i corpi malati, quelli guariti, quelli che si spostano: corpi e soltanto corpi. Per questa ragione, a volte, i numeri sembrano essere privati di un qualsiasi significato. Il modello matematico dell’epidemia è un “concetto lontano dall’esperienza”, per citare Clifford Geertz. Nell’immaginario delle persone, esso è distante da quanto quotidianamente vivono. I soggetti, secondo il modello matematico, sono oggettivizzati e dunque espropriati della propria dimensione relazionale e sociale. Tuttavia, l’esperienza dell’epidemia, mostra il contrario. Ha infatti a che fare con il distanziamento fisico, l’uso di oggetti quali mascherine e guanti, l’uso di dispositivi digitali per rimanere aggiornati sull’andamento del fenomeno, l’uso di autocertificazioni cartacee per giustificare i propri spostamenti: tutto questo modifica inevitabilmente il nostro modo di relazionarci e di percepirci come soggetti che agiscono e interagiscono. E’ sociale, questa esperienza, proprio perché gli individui la percepiscono attraverso il corpo e attraverso la propria presenza corporea nel mondo. E, attraverso di esso, costruiscono nuovi significati: il corpo non è mai solo un oggetto, è qualcosa di più.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjy0Z3lE7Q3Pt3mAcsVod9uubZUJFta2weTVgxSthOnorQf10YBbG79_0S8jG6K_2qHTEfjjt5_w1lxrpwJJ-m2EPMaOdQ7z8OlJHA69TIu0CwgYsx3TmRaVyx7Wy13RbFrucKr_-G4PvU/s1600/6d0fc21e-fea4-4e07-b6cb-cc649405f106_16x9_600x338.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="337" data-original-width="600" height="223" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjy0Z3lE7Q3Pt3mAcsVod9uubZUJFta2weTVgxSthOnorQf10YBbG79_0S8jG6K_2qHTEfjjt5_w1lxrpwJJ-m2EPMaOdQ7z8OlJHA69TIu0CwgYsx3TmRaVyx7Wy13RbFrucKr_-G4PvU/s400/6d0fc21e-fea4-4e07-b6cb-cc649405f106_16x9_600x338.jpg" width="400" /></a></div>
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<i>La promessa dell’antropologia</i></div>
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La narrazione di quanto sta avvenendo sembra aver rimosso la dimensione relazionale e sociale. E uno dei risultati è la mancanza di un orizzonte di significato capace di offrire una spiegazione, non tanto dei numeri ma di quanto i soggetti stanno vivendo socialmente in questo capitolo della storia umana. E’ questa la sfida che l’antropologia ha di fronte a sé: trovare nuovi significati, ritualizzare nuovamente l’esperienza e costruire nuovi modelli esplicativi. Sono queste le ragioni che spingono tanti giovani a studiare l’antropologia. Una disciplina che promette sguardi inediti.</div>
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<span style="font-family: inherit;">Milano, 5 maggio 2020</span></div>
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Daniele Pascale<br />
Studente del Corso di Laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche<br />
Università di Milano Bicocca</div>
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<span style="font-family: inherit;"><br /></span><i>Continuiamo con questo post la pubblicazione dei contributi ricevuti da studenti e studentesse di antropologia interessati a condividere il loro punto di vista sulla situazione che stiamo attraversando. Il blog intende così proporsi come uno spazio di ascolto e confronto tra studiosi che si trovano in fasi diverse del loro percorso formativo e professionale.</i><br />
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.<br />
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-82638808782791944602020-05-04T06:06:00.002-07:002020-05-04T11:52:56.208-07:00La giusta distanza educativa. La didattica universitaria dopo il coronavirus // FASE 2<div style="text-align: justify;">
Nell’aprile dell’anno scorso il mio collega Ferdinando Fava mi ha invitato a Padova a presentare il mio libro sulla responsabilità educativa, in programma d’esame, agli studenti del suo corso. La lezione era prevista alle 8.00 del mattino e poiché aimè da Cremona (dove abito) arrivare in treno a Padova per le otto è pressoché impossibile, sono partita il giorno prima e ho dormito in albergo. La lezione è stata viva e partecipata; ho potuto, poi, visitare il bel dipartimento e lo studio del mio collega e anche la città (persino vedere sant’Antonio); il collega mi ha offerto un’ottima colazione e una bella chiacchierata. </div>
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Quest’aprile, in tempo di coronavirus, il mio amico Ferdinando Fava mi ha invitato al suo corso per presentare la mia ricerca sul social network. La lezione sempre alle 8.00. Mi sono svegliata alle 7,30, a casa mia a Cremona, ho preso un caffè e sono intervenuta puntuale dal mio soggiorno grazie a Zoom. Ho potuto invitare alla lezione l’insegnante del liceo di Crema coinvolta nella ricerca che tranquillamente, da casa sua, non ha avuto problemi (certo a Padova sarebbe stato impossibile per lei venire). La lezione è stata molto partecipata e dal momento che sono nate diverse domande da parte degli studenti il mio collega mi ha invitata a “ritornare al corso ” la settimana successiva per un’altra lezione, in cui approfondire alcuni aspetti. Certo, niente visita della città, dolcetto, il piacere di rivedere un amico, il calore di un’aula. Ma niente spese per il dipartimento, la possibilità di riprendere il discorso in una seconda lezione e di aprire facilmente il dialogo ad interlocutori che non avrebbero potuto essere presenti fisicamente.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi1n55z65f785EWFSO6Qvze0xQ5lq7_njT7FNIT2WfNr1WICCdSLhLr_bS-0z8_GLtOEk3Zz8Gx-5guLc6KNntmCFXwKIxSV9OemWSN24i945OeZIw1GdBw4WKTQP7v5Cxfcc8m8hUeFQU/s1600/aule-affollate-1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="378" data-original-width="660" height="228" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi1n55z65f785EWFSO6Qvze0xQ5lq7_njT7FNIT2WfNr1WICCdSLhLr_bS-0z8_GLtOEk3Zz8Gx-5guLc6KNntmCFXwKIxSV9OemWSN24i945OeZIw1GdBw4WKTQP7v5Cxfcc8m8hUeFQU/s400/aule-affollate-1.jpg" width="400" /></a></div>
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Credo che la cosiddetta didattica a distanza (per alcuni un ossimoro) ci sta facendo prendere consapevolezza del valore della didattica in presenza, che per tanti anni abbiamo praticato: il nostro essere lì, in aula, a volte così faticoso, ma così denso di emozioni; la possibilità di modulare il discorso in relazione alle espressioni sul volto dei nostri interlocutori (che abbiamo imparato a decifrare nel corso degli anni), i molti significati legati alla fisicità dell’incontro (il chiacchiericcio di sottofondo, vedere chi arriva in ritardo e chi esce prima, chi messaggia di nascosto sotto il banco…)</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6XMF21tFMu50GWSCta_LXHUXDM8RK1w0nu8U4s35f5KgMpHBMRVxWU6dH744MAm3uydzAkDL8melnObT_cZ9WtUfC_FspejrOcN5794EKLZhDrc0kVtlulufPjl7sbLLMcK3i1Rq9sbE/s1600/317.0.958472753-k2aB-U3180267198697qAB-656x492%2540Corriere-Web-Sezioni.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="492" data-original-width="656" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6XMF21tFMu50GWSCta_LXHUXDM8RK1w0nu8U4s35f5KgMpHBMRVxWU6dH744MAm3uydzAkDL8melnObT_cZ9WtUfC_FspejrOcN5794EKLZhDrc0kVtlulufPjl7sbLLMcK3i1Rq9sbE/s400/317.0.958472753-k2aB-U3180267198697qAB-656x492%2540Corriere-Web-Sezioni.jpg" width="400" /></a></div>
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Ma credo anche che la didattica a distanza ci sta permettendo di accorgerci che i nuovi media possono davvero diventare degli alleati, e non nel modo in cui ingenuamente avevamo pensato (“ragazzi trovate le slide della lezione e la bibliografia aggiuntiva sul sito del corso”) </div>
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Se un nuovo medium si caratterizza per la capacità di prefigurare campi del pensabile e di possibile <i>agency</i>, allora la didattica a distanza mi ha permesso di iniziare a pensarmi come ospite nelle più diverse università senza spostarmi da casa (a costi zero) e al tempo stesso di pensare che potrei ospitare nel mio corso, per i miei allievi, interventi interessanti di bravissimi colleghi che si trovano all’estero. Che potremmo fare lezione anche dal campo e ospitare a lezione colleghi che si trovano sul campo. Che la rete può venire in supporto quando nevica e i mezzi non vanno, quando il treno si rompe, quando siamo un po’raffreddati. Insomma, che non occorre in molti casi sospendere la lezione, si può anche fare diversamente (e mi chiedo: perché non lo abbiamo mai fatto?). E poi che potremmo caricare sulla piattaforma dell’università audiolezioni o parti registrate di lezioni (non le semplici <i>slides</i>) che possono riprendere i concetti fondamentali del corso per chi è assente o non frequentante o in difficoltà (anche questo: perché non lo abbiamo mai fatto?).</div>
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Se devo immaginare la didattica universitaria dopo il coronavirus penso che non sarà più solo “in presenza” o solo “a distanza”, e credo che adesso sia inutile dividersi tra fautori e detrattori dell’una e dell’altra forma. </div>
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Spero che potrà essere una didattica che prende da entrambe le esperienze il meglio per mantenere e al tempo stesso rinnovare il significato autentico della relazione che si crea, in modi diversi, tra docenti e discenti: l’intenzionalità di un incontro che si basa sull’idea che la trasmissione e la condivisione del sapere – nel nostro caso del sapere antropologico- è, anche in questi tempi incerti, un valore in cui ancora ci riconosciamo.</div>
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Milano, 4 maggio 2020</div>
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Angela Biscaldi</div>
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Università degli Studi di Milano "La Statale"</div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a></div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-6843396866244292692020-05-03T07:08:00.000-07:002020-05-03T07:10:24.844-07:00Confini e sconfinamenti all'epoca del Covid-19<div style="text-align: justify;">
<i>Il gruppo di lavoro del "World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano" ha contribuito con una propria riflessione al <a href="http://www.confiniartproject.it/" target="_blank">progetto "Confini" dell'artista Vera Pravda</a>.</i></div>
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<i>Vi proponiamo qui di seguito l'incipit del testo, invitandovi a leggere l'articolo completo su <a href="https://www.glistatigenerali.com/" target="_blank">Gli Stati Generali</a>, uno dei più interessanti spazi online di giornalismo partecipativo.</i></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh17EmrfP2i86SSu9QhMQlRCeJz0Z8C4h9nMVFudfxpAcqtrjsuyeR_5pWPmRiZ_NtoI3UK95gOcq-SmITqJxLcGovEmuUoc9c6kJd_DjuGclmNTJte7QwgS7rLgNbH3M99qUrnzLdZ6lI/s1600/007.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="812" data-original-width="1500" height="216" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh17EmrfP2i86SSu9QhMQlRCeJz0Z8C4h9nMVFudfxpAcqtrjsuyeR_5pWPmRiZ_NtoI3UK95gOcq-SmITqJxLcGovEmuUoc9c6kJd_DjuGclmNTJte7QwgS7rLgNbH3M99qUrnzLdZ6lI/s400/007.jpg" width="400" /></a></div>
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<span style="font-size: x-small;"><i>Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007, video, 5’30’’, </i></span></div>
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<span style="font-size: x-small;"><i>courtesy dell’artista e di Kaufmann Repetto, Milano, Peter Kilchmann Gallery, Zurich</i></span></div>
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In un’opera dell’artista albanese Adrian Paci, un gruppo di persone accalcate su una scala di imbarco al centro di una pista di atterraggio vuota attende un aereo che non è ancora arrivato, non arriva o, più realisticamente, non arriverà mai. Immersi nella vacuità di un terminal aeroportuale, circondati da asfalto bollente, i viaggiatori aspettano, paralizzati in una permanenza temporanea che sembra sfuggire alle logiche del tempo e dello spazio. L’opera riflette evidentemente sulla condizione dei migranti transnazionali e delle politiche migratorie, ma, in tempi di pandemia e di isolamento forzato, ci interroga con insistenza sulle sorti di questo tempo così peculiare. A ben guardare l’opera, infatti, notiamo diversi elementi che raccontano la nostra recente quotidianità. La lunga fila ci ricorda quelle del supermercato; lo spazio aeroportuale ci ricorda del blocco della mobilità nazionale e internazionale; lo stato di attesa del gruppo di persone illustra la nostra condizione quotidiana di fronte a una situazione liminale che sembra non sbloccarsi, apparentemente temporanea ma possibilmente eterna.</div>
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Eppure, dell’opera di Paci vorremmo concentrare l’attenzione su un aspetto particolare: il confine. L’installazione sembra infatti interrogare proprio la nozione, la pratica, la poetica del confine, mostrandone al tempo stesso l’impalpabilità, il simbolismo, la concretezza degli esiti della sua esistenza. Attraverso un riposizionamento significante dell’opera nel contesto attuale, Centro di permanenza temporanea interroga anche noi sulla percezione del confine e dei confini all’epoca del Covid19, mostrando la piena rilevanza di un’interrogazione artistica, intellettuale e umana a partire da questo elemento. Ci ricorda inoltre la centralità dei confini e del distanziamento sociale nella vita quotidiana, in particolare di alcuni gruppi sociali, ben prima dell’attuale pandemia.</div>
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<i>Continua a leggere <a href="https://www.glistatigenerali.com/arte_societa-societa/confini-sconfinamenti-antropologia-pubblica-e-frontiere/" target="_blank">l'articolo su Gli Stati Generali</a>.</i></div>
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Torino-Milano, 3 maggio 2020</div>
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Ivan Bargan, Ilaria Bonelli, Giacomo Pozzi, Giovanna Santanera e Francesco Vietti</div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a></div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-62903690390252771492020-05-02T05:53:00.003-07:002020-05-03T06:56:10.508-07:00Ritorno al futuro // FASE 2<div style="text-align: justify;">
Nel 2016 andai per una breve trasferta in Sierra Leone, per incontrare le principali Università ed alcune istituzioni che si occupano di formazione, Paese di cui colpevolmente conoscevo poco.</div>
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Una delle poche cose che ricordavo bene, oltre alla guerra civile, era naturalmente l'epidemia di Ebola che era stata dichiarata conclusa da poco e che aveva colpito duramente in quella fase Liberia, Guinea e appunto Sierra Leone.</div>
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Poco prima di partire, grazie a un consiglio di un amico che aveva condotto la sua etnografia lì, avevo visto un documentario, <i>Back in touch</i>, che raccontava il ritorno alla vita normale, dopo un lungo periodo di scuole chiuse, assembramenti vietati, stadi vuoti, relazioni amorose distanti.</div>
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Suddiviso in otto capitoli, raccontava di famiglie, sepolture, negozi, partite di calcio, gravidanze indesiderate, economia informale e dello slum di Freetown.</div>
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Parlava della vita al tempo di Ebola, che era un tempo con una data di inizio (il cosiddetto “paziente zero”) ma più difficilmente una data certa di fine: i cittadini si trovavano a vivere una fase di convivenza con l'epidemia, fatta di precauzioni, paura, trasgressioni delle norme e grande incertezza, a cui si aggiungevano i problemi strutturali del Paese, la disoccupazione, la povertà, le diseguaglianze.</div>
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Durante quel breve viaggio l'epidemia e il suo fantasma erano presenze silenziose, poco citate ma in realtà evocate spesso: cartelli per le città e nei bagni delle università dichiaravano <i>“Ebola is not over”</i>, bottigliette di disinfettante per mani erano sui tavoli di tutti i bar e gli studenti e i professori incontrati avevano a che fare con un anno accademico nuovo, con nuove sfide e carenze.</div>
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Lo studio di fattibilità per cui ero partita non si è trasformato in un progetto e in quel Paese non sono più tornata: da alcune settimane però ripenso spesso a quei cartelli e ai racconti della ripresa della normalità, che allora – evidentemente vittima anch'io dell'alterizzazione della malattia e della fragilità – avevo percepito come così distanti e irriproducibili nel mio contesto.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdjhr8TK6Qu-DPSCS8Rveo9omj0zUrboUMphmtkatQEZyroRT4jAqMKUieGLlFxdTrt3urNvRiUYad2EytKogPpmrANURSiWr8mpY0MDNw5FCBvM0ri229QO_ixLgcQq_hTsrqI28kcPo/s1600/Preparedness-against-Ebola-and-other-emerging-infectious-diseases-in-Sierra-Leone-and-Guinea-Editorial-use-High-2400x1700.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1134" data-original-width="1600" height="282" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdjhr8TK6Qu-DPSCS8Rveo9omj0zUrboUMphmtkatQEZyroRT4jAqMKUieGLlFxdTrt3urNvRiUYad2EytKogPpmrANURSiWr8mpY0MDNw5FCBvM0ri229QO_ixLgcQq_hTsrqI28kcPo/s400/Preparedness-against-Ebola-and-other-emerging-infectious-diseases-in-Sierra-Leone-and-Guinea-Editorial-use-High-2400x1700.jpg" width="400" /></a></div>
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Invece, per le prime settimane di epidemia Covid in cui l'Italia risultava il secondo Paese dopo la Cina per contagi, il mio telefono ogni mattina riceveva messaggi preoccupati da altri Paesi africani frequentati, il Madagascar e il Ghana, che si assicuravano della mia salute e mi chiedevano dettagli della vita in quarantena: come si va al mercato? Come si pagano le multe se non si hanno soldi?</div>
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Eravamo noi di colpo l'oggetto di attenzione del mondo, eravamo noi quelli vulnerabili da guardare con apprensione.</div>
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La traduzione reciproca di cosa stava accadendo si è per certi versi semplificata quando i confinamenti sono stati applicati anche dalla maggior parte dei governi africani e il tema delle mascherine, del limitare gli spostamenti, del “restare a casa” è diventato quotidiano, seppur con alcune marcate differenze, anche nella vita dei miei amici, conoscenti, interlocutori africani.</div>
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E in questo dialogo virtuale di rimandi, in cui a richieste di suggerimenti su precauzioni da prendere che mi sono state fatte o domande sui tempi di produzione del vaccino, si è affiancato l'annuncio il 21 Aprile 2020 del Presidente del Madagascar Andry Rajoelina del Covid-Organics, un rimedio a base di piante medicinali che è stato poi distribuito a tutti gli studenti malgasci in vista della riapertura delle scuole.</div>
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Di nuovo, l'assunto base che impariamo nel primo esame di antropologia, il decentramento, si stava realizzando: la medicina occidentale e il credito di fiducia che le si attribuisce “dal sud del mondo” non era più sola al centro della soluzione e, pur con scetticismo e critiche da fronti locali e internazionali, un'isola dell'Oceano Indiano conquistava (alcune) pagine dei giornali e diverse piattaforme delle diaspore africane in Italia.</div>
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Nei giorni si sono succedute altre notizie come quella di un test di diagnostica rapida per individuare i positivi al virus prodotto dai laboratori dalla seconda università ghanese, il KNUST di Kumasi, rimanendo nell'ambito dei Paesi su cui mi informo maggiormente.</div>
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Questo dialogo a singhiozzo, dove si intrecciano i ricordi di un breve soggiorno in Sierra Leone, la ricerca di notizie sui media africani, le conversazioni con amici malgasci su Messanger, l'immaginazione delle nostre reciproche quotidianità in casa, le riflessioni degli analisti, porta naturalmente ad interrogarsi sul futuro, in una prospettiva globale, che è quella che la pandemia per sua stessa definizione ci suggerisce.</div>
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In alcuni contesti culturali, tra cui appunto il Madagascar (e il Perù, in un'espressione <i>quechua</i>), il futuro è visto dietro di noi, perchè non lo possiamo vedere, mentre il passato è davanti agli occhi, in quanto conosciuto e osservabile: questa metafora linguistica mi ha sempre fatto pensare che in contesti dove l'incertezza (economica, sociale, a volte politica) prevale, la capacità di essere radicati nel presente sia maggiore, pur lasciando spazio ovviamente ai desideri e alla “capacità di immaginare” che l'antropologia contemporanea giustamente celebra.</div>
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Ripartire allora dal passato che abbiamo davanti agli occhi e da equilibri precari del presente che mai come adesso sembrano venire in superficie in tutta la loro zoppicante verità sembra necessario: dal lavoro ai rapporti di genere, da quale ruolo attribuiamo alla scuola alla questione della casa e dell'abitare, dalle responsabilità individuali a quelle delle istituzioni.</div>
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Il mondo che verrà, dall'osservatorio che questi mesi di cambiamenti rappresentano, spero saprà alimentare ancora un dialogo con un altrove che per ciascuno di noi (etnografi in primis) si colloca in alcuni luoghi specifici, ma che è soprattutto un esercizio di distanziamento, questa volta (speriamo) non letterale, dalle nostre convinzioni, dalle nostre certezze, dal nostro modo di guardare alla vulnerabilità e al futuro.</div>
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Milano, 2 maggio 2020</div>
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Valentina Mutti</div>
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Università degli Studi di Milano "La Statale"<br />
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<i>Valentina Mutti è Dottore di ricerca in antropologia, lavora come consulente per istituti di ricerca ed enti del terzo settore occupandosi di migrazioni, comunità diasporiche ed istruzione superiore in Africa. È tutor del corso "Antropologia culturale" presso l'Università degli Studi di Milano "La Statale".</i></div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a></div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-37084464780581170302020-04-30T03:03:00.001-07:002020-04-30T03:04:37.719-07:00Note etnografiche dalle Cure Primarie e Territoriali // FASE 2<div style="text-align: justify;">
Come ci muoveremo nel “dopo”? Che cosa erediteremo da queste settimane? In quale forma restituiremo le emozioni, i racconti e le azioni che stiamo intercettando giorno dopo giorno, presi dalla frenesia di tenere traccia di tutto ciò che sta accadendo? Iniziamo con queste domande una delle ultime riunioni virtuali tra le numerose di questo periodo, accompagnati da un senso di incertezza ormai costante. L’obiettivo che ci siamo prefissati è quello di trattenere le narrazioni di questo momento, mantenerle come se fossero ancore.</div>
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In quanto antropologhe e antropologi della <a href="https://2018phc.wordpress.com/" target="_blank">Campagna Nazionale “Primary Health Care Now or Never”</a> già da tempo ci interroghiamo su quale possa essere il nostro ruolo all’interno delle Cure Primarie e Territoriali e su quali competenze sia necessario mettere in campo. Un’esigenza che in questo momento sentiamo più vicina che mai e che ci muove, assieme al desiderio di sentirci in qualche modo utili, presenti e uniti. Per questo oggi proviamo a raccontarvi l’esperienza che stiamo vivendo e che, secondo noi, sta lasciando affiorare alcuni spunti fertili per immaginare e costruire insieme il mondo che verrà.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhCf3UPwxPi_qZF_LAOlT0PnGxlugJeTcrWQFY-hMpLSDDpVn-RFpMDqUXS_6gVfanqsGcLUiJ9aVoatv0S74119jQVMNNi-ytOhCNaqZsTniqyGh7idqIMUOxqE3gaJrnpqzW7dfKLF14/s1600/fotografia+1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="899" data-original-width="1272" height="282" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhCf3UPwxPi_qZF_LAOlT0PnGxlugJeTcrWQFY-hMpLSDDpVn-RFpMDqUXS_6gVfanqsGcLUiJ9aVoatv0S74119jQVMNNi-ytOhCNaqZsTniqyGh7idqIMUOxqE3gaJrnpqzW7dfKLF14/s400/fotografia+1.jpg" width="400" /></a></div>
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<i>La Campagna PHC Now or Never: cenni storici</i></div>
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La Campagna PHC è nata alla fine del 2017 da un nutrito gruppo di giovani professioniste e professionisti della salute attivi sul territorio nazionale, con l’obiettivo di promuovere una riforma dell’assistenza socio-sanitaria basata sui principi della Primary Health Care di tipo Comprehensive (C-PHC). Sulla scia della Dichiarazione di Alma Ata (1978), del World Health Report (2008) e della più recente Dichiarazione di Astana (2018), la C-PHC propone un approccio integrato (assieme promotivo, preventivo e curativo), centrato sul paziente, sulle sue relazioni significative e le comunità di cui è parte. I programmi ispirati alla C-PHC mirano a tessere assieme l’approccio clinico, incentrato sulle dimensioni biologiche della malattia, con interventi improntati ad interferire con la determinazione sociale della salute. Per tener conto delle specificità di ogni contesto geografico, economico e sociale, si stabilisce un confronto attivo con il territorio, per scoprirne e valorizzarne le diverse risorse, formali e informali. In un’ottica di cooperazione e di sostenibilità, si negozia con gli attori comunitari per costruire reti di assistenza. La C-PHC è quindi una strategia per strutturare la cura territoriale in maniera politicamente impegnata, proattiva, attenta all'equità e che si articola mediante azioni multi-professionali, interdisciplinari, orizzontali e partecipate (cfr. Abadía-Barrero e Bugbee, 2019).</div>
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La sfida posta dalla C-PHC può essere colta guardando al progressivo aumento delle cronicità e delle fragilità sociali che il modello sanitario attuale, basato sull’ospedale, non è in grado di affrontare. Per questo, nei suoi due anni di vita la Campagna si è mossa principalmente su due fronti. Il primo è quello dell’autoformazione, attraverso l’organizzazione autogestita di seminari, workshop e site visit presso diverse realtà italiane basate sul modello di C-PHC (fra le diverse realtà italiane visitate, nel 2018 la Campagna si è riunita a Trieste per conoscere da vicino l’esperienza delle Microaree, cfr. Belluto, Benedetti, Pecora e Occhini in Maciocco, 2019). Il secondo invece consiste nel portare all’interno del proprio contesto quanto appreso, mettendo in atto a livello locale “pratiche di cambiamento”, volte a costruire forme di prossimità con le comunità e a promuovere la formazione trasversale dei professionisti (prima, durante e post laurea).</div>
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Come Campagna, oltre agli appuntamenti in presenza, ci confrontiamo quotidianamente su un canale Whatsapp che include ormai più di cento persone. Spesso ci organizziamo in sottogruppi tematici, per lavorare a proposte progettuali e approfondimenti.</div>
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<i>La Campagna PHC ai tempi della pandemia</i></div>
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A partire dalla fine febbraio, il nostro spazio virtuale si è trasformato: il telefono suona in continuazione, ci svegliamo la mattina con un’infinità di messaggi non letti, i gruppi non bastano più, dobbiamo allargarci, sentiamo la fretta e l’esigenza di includere altre persone. Sono specialmente i Medici di Medicina Generale (MMG) a scrivere. Alcuni di loro vivono nelle zone rosse, altri hanno iniziato a lavorare nelle USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale nate per la gestione domiciliare dei pazienti Covid-19. Scrivono perché vogliono sapere cosa succede nelle altre regioni, sentono il bisogno di confrontarsi sulle strategie elaborate per la gestione dell’emergenza, oltreché di condividere le difficoltà e le preoccupazioni che stanno vivendo.</div>
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<i>“Chi risponde alle decine e decine di telefonate e mail?”</i></div>
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<i>“Nel vostro caso la valutazione del paziente è telefonica o tramite visita?”</i></div>
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<i>“Ho fatto un registro, li monitoro telefonicamente. Accetto di stare nove ore al telefono al giorno”.</i></div>
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<i>“Provo a specificare meglio la mia fatica di questi giorni: riceviamo quotidianamente (come MMG) telefonate di pazienti con sintomatologia simil influenzale. Come ci comportiamo? […] Confrontandoci con l’Ufficio di Igiene abbiamo definito insieme questi percorsi, che condivido volentieri con voi (vi state comportando diversamente?)”.</i></div>
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<i>“Quello che vorrei capire è se qualcuno si rende conto che il nostro ruolo è importante, e se abbiano dato un indirizzo agli MMG in tal senso”.</i></div>
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<i>“Mi sto accorgendo che la conclusione ulteriore delle nostre riflessioni è… ABBIAMO BISOGNO DI DPI [Dispositivi di Protezione Individuale] SUL TERRITORIO”.</i></div>
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Questi sono solo alcuni dei messaggi che riempiono la nostra chat ogni giorno, in cerca di possibili consigli e di supporto. “All’improvviso, la mattina del 9 marzo ci siamo svegliati e tolti i corpi c’era il telefono” ci racconta Viviana, una dottoressa che lavora a Cagliari, mentre insieme proviamo a riordinare le esperienze di queste ultime settimane. Mancano indicazioni, non si sa bene chi contattare, non si capisce come proteggersi e proteggere adeguatamente, in quale modo visitare i pazienti a domicilio. Non si è formati per un triage telefonico ma è necessario essere operativi. Si sente soprattutto la mancanza, da parte delle istituzioni, di una linea comune di intervento, per evitare di ripetere errori già commessi.</div>
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Per rispondere a questa esigenza abbiamo creato insieme delle brevi guide in costante aggiornamento, per accompagnare i medici sul territorio e monitorare la gestione dei casi Covid-19 a domicilio. Nascono così, fra i molti materiali, anche delle flowchart (diagrammi di flusso), utili a orientare la decisioni e le scelte clinico-organizzative; un testo sul monitoraggio e le indicazioni dei possibili quadri clinici; un protocollo di gestione domiciliare dei pazienti vulnerabili o con patologie pregresse. Il materiale al quale facciamo riferimento è <a href="https://2018phc.wordpress.com/covid19/" target="_blank">qui disponibile</a>. Le proposte redatte dalla Campagna PHC intendono essere un supporto per i professionisti sanitari che in questa fase di emergenza lavorano sul territorio: necessitano di essere contestualizzate nelle singole realtà territoriali e possono essere utilizzate previa autorizzazione delle Ausl locali o enti sanitari di competenza.<br />
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Man mano che proviamo ad orientarci nel caos frammentato di informazioni per affrontare questa pandemia, sempre più vengono a galla particolari degni di attenzione, i non-visti del quotidiano. Emergono bisogni che erano rimasti sottesi, appena percettibili, e che ora si fanno evidenti. L’isolamento crea e alimenta nuovi bisogni e ne rende poco riconoscibili altri; aumenta le disuguaglianze e l’emarginazione sociale. Il vuoto che si trova fuori dagli ospedali rinnova la consapevolezza della necessità di avere una medicina di famiglia radicata sul territorio (e parte di quel territorio), basata sul lavoro multidisciplinare e di rete, capace di mobilitare le risorse formali e informali. “Conosci il luogo che abiti?” è il mantra che permette di fare la differenza e di sentirsi meno soli.</div>
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Salta la prossimità, saltano gli ospedali, aumenta il controllo sociale e l’incertezza. Crescono anche l’ansia e il senso di colpa degli operatori: per non poter fare abbastanza, per aver ospedalizzato o meno un paziente, per essere potenziali veicoli di contagio per gli altri e per i propri cari, per essere compagni, genitori, figli o amici poco presenti.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWUrAy_pjRUinXP6ov0mEVCCxXnBNB_H9cP5SlL-pjMRDS9jvHSlk_s9WsXfxgphGuwowTBbgNy7q6Eh8tM7mGYc0vNo0F7du6TyEKzPY9grKyCqXeLrp9wNhslCyfqMxV7C03rRaoTNg/s1600/fotografia+2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="1089" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWUrAy_pjRUinXP6ov0mEVCCxXnBNB_H9cP5SlL-pjMRDS9jvHSlk_s9WsXfxgphGuwowTBbgNy7q6Eh8tM7mGYc0vNo0F7du6TyEKzPY9grKyCqXeLrp9wNhslCyfqMxV7C03rRaoTNg/s640/fotografia+2.jpg" width="433" /></a></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOJqr-zt-vSE_G5yPbrmOCqbYhguVutN0rlrjRLgM497e7MgZoROc3LitTYToyrpICEwAd_ES3ZkuODot9a0dywLBxQqYdM64DI_Tiq5-5telSFjM7dyRs294tFe74NwdP6ntXHK53754/s1600/fotografia+3.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1119" data-original-width="800" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOJqr-zt-vSE_G5yPbrmOCqbYhguVutN0rlrjRLgM497e7MgZoROc3LitTYToyrpICEwAd_ES3ZkuODot9a0dywLBxQqYdM64DI_Tiq5-5telSFjM7dyRs294tFe74NwdP6ntXHK53754/s640/fotografia+3.png" width="456" /></a></div>
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<i>Storie Covid nelle Cure Territoriali</i></div>
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Tra le diverse iniziative che sono state avviate, come team antropologico della Campagna PHC (insieme a Valerio D’Avanzo e Francesco Diodati) ci siamo fatti promotori di “Storie Covid nelle Cure Territoriali”. Si tratta di un progetto pensato per intercettare il bisogno di condivisione e confronto degli operatori (firmatari e non della Campagna) e per provare a offrire loro, in risposta, alcuni strumenti utili a “fare ordine” (possiamo essere contattati attraverso numeri Whatsapp, un gruppo Facebook e un indirizzo email: <a href="https://2018phc.wordpress.com/storiecovid/" target="_blank">qui maggiori informazioni</a>). La proposta nasce dalla convinzione che in queste settimane le nostre chat siano un campo preziosissimo e traboccante di risorse, sebbene gli scambi avvengano in modo fisiologicamente disordinato. In questo sfibrante navigare a vista, avvertiamo come nostro compito quello di supportare la creazione di saperi e significati condivisi in grado di donare senso a ciò che sta accadendo. Attenti a non perdere la complessità che giorno dopo giorno si va generando, a chi ci contatta chiediamo:</div>
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Come è cambiato il tuo lavoro nelle cure territoriali dall’arrivo del Covid-19?</div>
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Quali strategie hai messo in campo dal punto di vista lavorativo e personale?</div>
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Quali racconti, paure e riflessioni sono emersi da questa situazione?</div>
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Attraverso le narrazioni raccolte, l’obiettivo è quello di produrre un “diario di bordo” da restituire ai professionisti, una sorta di archivio delle narrazioni che possa, da una parte, far affiorare il carico di sofferenza che si dispiega oggi sul territorio e, dall’altra, supportare gli operatori nei loro tentativi di “addomesticare” la situazione (Freire, 1994). La nostra iniziativa si ispira infatti all’Educazione Permanente in Salute (e.g. Ceccim e Feuerwerker, 2004), una strategia sviluppata nel contesto brasiliano che, mediante la messa in dialogo di diverse discipline, mira ad aprire spazi collettivi per riflettere sugli atti prodotti nel proprio quotidiano e, a partire da questi momenti, ad attivare pratiche collaborative di formazione. Abbiamo quindi messo a disposizione le nostre competenze per mappare e raccogliere la grossa mole di informazioni di questi giorni , cercando di sostenere processi di (auto)apprendimento e di (self)empowerment utili ad affrontare questa crisi con maggiore resilienza.<br />
Parallelamente, sempre nell’ottica di promuovere approcci interdisciplinari alla gestione dei problemi, per rendere fruibile la grossa mole di informazioni, materiali e link è nato GLOCARED (“Global-Local Center per l'Aiuto e la Ricerca Ecosistemica Divergente”). GLOCARED è un team multiprofessionale che coinvolge designers, informatici, esperti di scienza della cooperazione, professionisti sanitari e antropologi, impegnati nella progettazione di piattaforme sensibili ai bisogni di natura tecnologica rilevati. </div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3rK4yzG1R2UrQY406I5XajASHqV2m9UfixzEeVQGBHmjqmZQZUwktafZPe0jdMIc-hHxkf1ituJ5YTgzlKga3Rp7XWpY_MTYq390qN2k21JTlrbjBvYuyndB2fRO5ykNbmV-b0YFU8Hw/s1600/fotografia+4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="876" data-original-width="1600" height="218" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3rK4yzG1R2UrQY406I5XajASHqV2m9UfixzEeVQGBHmjqmZQZUwktafZPe0jdMIc-hHxkf1ituJ5YTgzlKga3Rp7XWpY_MTYq390qN2k21JTlrbjBvYuyndB2fRO5ykNbmV-b0YFU8Hw/s400/fotografia+4.jpg" width="400" /></a></div>
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<i>Le Cure Primarie che vogliamo (adesso!)</i></div>
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Come antropologhe e antropologi abbiamo vissuto queste settimane attraversando diverse fasi. In un primo momento, ci scoprivamo angosciati da un certo senso d’impotenza, dall’inadeguatezza dei nostri modi di guardare e dei nostri saperi, di fronte all’emergenza che si stava consumando. Mentre le nostre certezze si sfaldavano, ci confrontavamo tra noi, ci raccontavamo di come stessimo rimodulando i nostri progetti di ricerca e ci chiedevamo: che futuro può nascere dall’inaspettato?</div>
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La certezza che le Cure Territoriali dovessero essere differenti prendeva sempre più piede. Recluse, sofferenti e inascoltate durante il lockdown, le comunità sembrano più invisibili durante la pandemia. Una cura basata solamente sulla persona non è in grado di rappresentare il disagio che si sta vivendo sul territorio. La fragilità sociale e la cronicità non sono solo fattori clinici di cui tenere conto, bensì delle realtà di solitudine e abbandono. Realtà che la comunità è in grado di curare meglio di qualunque terapia.</div>
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Prendendo parte alle riunioni della Campagna, un’altra certezza diventa sempre più forte: la formazione in medicina non può più essere solo di natura biomedica. Se i corpi si volatilizzano e rimane il telefono, quali competenze possono mettere in campo i professionisti per offrire un supporto concreto, terapeutico e relazionale?</div>
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Non si può aiutare le persone a recuperare e a mantenere la salute senza comprendere le loro preoccupazioni, i loro bisogni e, soprattutto ora, le loro speranze per un futuro migliore. Il distanziamento sociale richiesto dalla gestione dell’epidemia deve allora trasformarsi in un allontanamento fisico in cui si riescano ad instaurare dei legami comunitari forti (per una discussione sul recupero della dimensione sociale nell’assistenza in tempi Covid-19 si veda Buffel, Doran, Lewis, Philipson e Yarker, 2020), dove curare e prendersi cura anche dei professionisti stessi, provati fisicamente ed emotivamente.</div>
<div style="text-align: justify;">
Forse una parte di tutto questo lo avevamo già in mente. Non a caso, gli incontri residenziali della Campagna che si sarebbero dovuti tenere in queste settimane avevano come titolo “Multidisciplinarietà e Primary Health Care: immaginare il futuro” (Firenze, 11-13 marzo) e “Le Cure Primarie che vogliamo” (Trento, 17-19 aprile 2020). Queste sono le Cure Primarie che vogliamo. E le vogliamo adesso, subito.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Bibliografia</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Abadía-Barrero, C. E., Bugbee, M. (2019) Primary health care for universal health coverage? Contributions for a critical anthropological agenda, Medical Anthropology, Cross-Cultural Studies in Health and Illness, 38(5), 427-435.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Belluto, M., Benedetti, C., Pecora, N., Occhini, G. in Maciocco, G. (a cura di) (2009) Cure primarie e servizi territoriali. Esperienze nazionali e internazionali, Roma: Carocci Faber Professioni Sanitarie.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Buffel, T., Doran, P., Lewis, C., Phillipson, C., Yarker, S. (2020) <a href="http://somatosphere.net/2020/covid-19-bringing-the-social-back-in.html/" target="_blank">Covid-19: Bringing the social back in, The Age of COVID-19</a>, Somatosphere, on-line.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ceccim, R. B., Feuerwerker, L. (2004) O quadrilátero da formação para a área da saúde: ensino, gestão, atenção e controle social. Physis: revista de saúde coletiva, 14(1), 41-65.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Freire, P. (1994) (ed. it. 2004) Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA, Torino.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>WHO: World Health Organization (1978) <a href="https://saluteinternazionale.info/wp-content/uploads/2009/01/declaration_almaata1978.pdf" target="_blank">Declaration of Alma-Ata, International Conference on Primary Health Care</a>, Alma-Ata, URSS, Geneva (Health for All Series N° 1), on-line.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>WHO: World Health Organization (2008) <a href="https://www.who.int/whr/2008/08_overview_en.pdf" target="_blank">The World Health Report - Primary Health Care (Now More Than Ever)</a>, on-line.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>WHO: World Health Organization and UNICEF (2018) D<a href="https://www.who.int/docs/default-source/primary-health/declaration/gcphc-declaration.pdf" target="_blank">eclaration of Astana, Global conference on primary health care</a>, Astana, Kazakhstan, on-line.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Bologna-Uppsala, 30 aprile 2020</div>
<div style="text-align: justify;">
Campagna PHC – Primary Health Care: Now or Never</div>
<div style="text-align: justify;">
Martina Belluto, Dottorato in Scienze Umane - Antropologia della Salute, Università di Ferrara</div>
<div style="text-align: justify;">
Martina Consoloni, Dottorato in Storie, Culture e Politiche del Globale - Antropologia della Salute, Università di Bologna</div>
<div style="text-align: justify;">
Mirko Pasquini, Dottorato in Antropologia Culturale, Università di Uppsala (Svezia)</div>
<div style="text-align: justify;">
<div style="text-align: justify;">
<br />
Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
</div>
Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-3071970446526588053.post-2114023801253064982020-04-28T03:17:00.001-07:002020-04-28T03:28:38.925-07:00Qui Perugia: sull’antropologia medica e le politiche (regionali) della salute<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;">Molti anni fa abitavo in
provincia di Napoli, ma ammiravo moltissimo la città di Perugia, dove oggi vivo.
Non solo perché chi ci veniva poteva mangiare bene alla mensa comunale per
poche lire, accanto a funzionari di amministrazioni diverse, a persone che
vivevano in strada, a studenti e docenti universitari e a turisti di vario
genere; non solo perché Edoardo Bennato, da Napoli, aveva cantato la prima scala
mobile di una bella città dell’Italia centrale; non solo perché lo stereotipo
del <i>qui-si-fermano-al-semaforo-rosso</i> corrispondeva a più dell’usuale cinquanta
per cento di verità e neanche solo perché c’era la piscina pubblica o perché eravamo
accolti da un abbraccio corale e rispettoso, sincero e franco, sobrio e mai scontato.
Non solo. Pensavo sempre a Perugia per altri due motivi: il jazz e l’antropologia
culturale. <o:p></o:p></span></span><br />
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></span>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1F73MWvJ3y-n6JZz7rXUN_ktcxTIGiMBJNBiyeCUQzJocvd-iejC8jMtFaoVAnAL5JnigcUQoS9wpOglh7UYHVsyA9tBzGpGKdL8H6DXC7lo8eWSNFqo_PPd3qLBQrwCE-cANGNSrV64/s1600/Umbria+Jazz-3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="563" data-original-width="1000" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1F73MWvJ3y-n6JZz7rXUN_ktcxTIGiMBJNBiyeCUQzJocvd-iejC8jMtFaoVAnAL5JnigcUQoS9wpOglh7UYHVsyA9tBzGpGKdL8H6DXC7lo8eWSNFqo_PPd3qLBQrwCE-cANGNSrV64/s400/Umbria+Jazz-3.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;">Durante il festival “Umbria
Jazz” a Perugia si poteva dormire nei sacchi a pelo per terra. Beh, forse proprio
dappertutto no… in effetti ricordo che quando arrivammo in città all’alba di un
giorno di luglio del 1982, io rimasi a dormire in macchina, il mio compagno di viaggio
si distese in un portico libero. Ma in mattinata fu risvegliato da un vocione: –
“Documenti!”, esclamò il carabiniere. Per poi chiedergli perché stesse dormendo
sotto le arcate della prefettura.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;">Nel mese di gennaio di
quell’anno avevo iniziato a Napoli a frequentare il corso di studio di Lingue e
letterature straniere all’Istituto Universitario Orientale, allora si chiamava
così, ed ero diventato allievo di Alfonso Maria di Nola (1926-1997), antropologo
e storico delle religioni in quell’Ateneo. L’antropologia mi piaceva, di Nola
allora lavorava al libro <i>L’arco di rovo</i> (che sarebbe uscito a Torino,
per Boringhieri nel 1983), una lettura storico-culturale di alcune pratiche del
corpo in Europa che andava ben oltre le forme otto-novecentesche della
“medicina popolare” italiana ed europea. Al ritorno da Perugia gli chiesi una
tesi di laurea sul male dell’arcobaleno: volevo sciogliere l’enigma di numerose
tradizioni popolari europee del perché ti fai giallo se ci urini contro. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 107%;">Nei primi anni Ottanta Alfonso
M. di Nola ancora ammirava diverse persone importanti nel campo accademico
italiano e tra coloro che ricambiavano stima e affetto c’era sicuramente Tullio
Seppilli (1928-2017). Questi alla fine dell’anno successivo, a metà dicembre
del 1983, da Perugia, aveva organizzato a Pesaro il Convegno internazionale </span><i><span style="line-height: 107%;">Salute e malattie nella medicina tradizionale delle
classi popolari italiane</span></i><span style="line-height: 107%;"> (dedicandolo alla
memoria del suo maestro Ernesto de Martino) per il quale nell’ottobre del
medesimo anno 1983 aveva pubblicato un numero monografico della Rivista “La
Ricerca Folklorica” dal titolo <i>La medicina popolare in Italia</i> (n. 8),
lasciando che di Nola lo aprisse con un saggio intitolato <i>Questioni di
metodo</i>. Uomini straordinari, alla memoria dei quali manifesterò sempre la massima
gratitudine. Poche settimane prima del convegno, Seppilli era stato a Napoli,
all’Orientale, invitato a un ciclo seminariale del dottorato di ricerca che da
studente seguivo, coordinato da Clara Gallini (1931-2017): la grande
antropologa italiana in quel periodo insegnava alla facoltà di Scienze Politiche
all’Orientale e nel 1983 stava pubblicando per l’editore Feltrinelli di Milano
il celebre volume <i>La sonnambula meravigliosa</i>. Di Nola mi aveva detto di
seguire con attenzione quella lezione. Fu il primo ponte che potei esperire tra
i due, tra Napoli/Roma, città quest’ultima dove di Nola viveva, e Perugia, dove
Seppilli abitava e lavorava. Tutti ci potemmo avvalere di quel sodalizio
amicale e politico. A Perugia, come anche a Firenze, Seppilli aveva avviato un
monitoraggio moderno e critico sulle forme, le pratiche e le figure di
operatori della medicina popolare in Italia centrale. A Napoli, come già ad
Arezzo, di Nola era andato rielaborando con originalità il modello gramsciano della
cultura popolare e ora provava a interrogare su quello gli esponenti più aperti
delle medicine democratiche italiane. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 107%;"><br /></span></span>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8ANo0e1B25xmXXNwkoCLXybH2QNpyeQNz7Ez76MZxjGa9vI4mJnJrLCEjNJ-2J1Fo8RQupTNT0lcIQZ8FHWKn4FZScJddVPHVPtvbv5eR1nk2XZSfba5ASTGfFRofN-kO3fdsWdBl1no/s1600/immagine.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="204" data-original-width="493" height="165" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8ANo0e1B25xmXXNwkoCLXybH2QNpyeQNz7Ez76MZxjGa9vI4mJnJrLCEjNJ-2J1Fo8RQupTNT0lcIQZ8FHWKn4FZScJddVPHVPtvbv5eR1nk2XZSfba5ASTGfFRofN-kO3fdsWdBl1no/s400/immagine.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;">Questo
ricordo è per me un modo di testimoniare il rapporto stretto fra antropologie
mediche nascenti nell’Italia dei primi anni Ottanta del Novecento. Intorno alla
capacità dialogante, istituzionale, operativa e trasformativa di Tullio
Seppilli e insieme alla genialità profondamente colta, creativa, dialettica e
critica di Alfonso M. di Nola si andava costruendo una libertà intellettuale e
scientifica che puntava a unire il Centro e il Sud Italia, per disarticolare la
nozione di “medicina popolare” e aprirla all’attualità dell’antropologia
medica. Non senza uno sguardo critico alle politiche sanitarie nazionali.
D’altronde all’antivigilia di Natale del 1978 era stata approvata dal
Parlamento la legge n. 833 che istituiva il Sistema sanitario nazionale
rendendo finalmente operativo l’articolo 32 della Costituzione repubblicana sul
diritto alla salute. Come questo evento doveva interpellare le diverse antropologie
italiane?<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;">Ma cos’è
l’antropologia medica? Diciamo che essa è lo studio sociale, culturale e
politico, del corpo, dei processi di salute/malattia, delle diverse medicine
praticate sul nostro pianeta, ivi compresa la presa in carico della cura nei
sistemi democratici contemporanei. Di lì a poco con maggior forza,
l’antropologia medica, in tanto che antropologia politica dei processi corporei,
avrebbe studiato direttamente con il suo metodo etnografico il <i>welfare
sanitario</i>, cioè lo stato sociale inteso come offerta pubblica ed
egualitaria dei servizi sanitari moderni, che negli stati di diritto sono
garantiti a tutte e a tutti le/i cittadine/i. Un campo di ricerca antropologica
non solo sincronico, ma a suo agio tra passato e presente, del quale ancora
oggi si colgono le feconde influenze anche sul piano operativo dell’uso sociale
e formativo delle conoscenze prodotte. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 107%;">Ma c’è
un’altra questione molto importante: proprio in questo momento globale così
drammatico che tutti stiamo attraversando in maniera analoga, stante la gravità
della pandemia mondiale da Covid-19 che ci sgomenta, l’enormità della distanza
che separa le regioni del Nord Italia da quelle del Sud Italia, e la funzione straordinaria
del Centro Italia, tornano come diversificati nodi al pettine, tali da indurre
allo svolgersi doveroso di più di una riflessione. La facciamo e la faremo, a
caldo e a freddo.</span><span style="line-height: 107%;"><o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 107%;">In verità non è</span><span style="line-height: 107%;"> certo da ora che l’antropologia medica, in Umbria fondata
e guidata da Seppilli fin dai primi anni Cinquanta del Novecento, ha aperto un
fronte critico verso i recenti processi di aziendalizzazione dell’assistenza
sanitaria, contrapponendosi a un declino complessivo della cura della salute
pubblica che, pur analogo su tutto il territorio nazionale, non appare oggi pienamente
omogeneo. Il regresso dello stato sociale in Italia è stato diverso da una regione
all’altra sia nei tempi sia nei modi di attuazione della legge nazionale. Appare
legittimo dunque interrogarsi sulle ragioni di tale mancata uniformità. E
probabilmente, proprio alla luce di quel che accade, si potrebbe rilevare come in
Italia centrale la resistenza di una pur residuale struttura a rete della cura
sanitaria costituisca il tronco su cui innestare un nuovo futuro di rapporti
sociali. E come in Italia meridionale, a causa del ridotto processo di
industrializzazione, l’incidenza pandemica sia apparsa minore, laddove sembra
avere attecchito in maniera più virulenta nei luoghi del Nord, in quelle aree
periferiche e urbane che costituiscono veri e propri motori della nave
industriale italiana. Rigetto certamente antichi stereotipi di razzializzazione
del Sud e respingo con analoga forza improbabili quanto banali capovolgimenti
della “questione meridionale” in “questione settentrionale”. Nondimeno credo
sia legittima la seguente domanda: la resistenza di elementi connessi all’organizzazione
sanitaria in area umbra può essere considerata una ragione valida per spiegare
la diversa virulenza della pandemia da Covid-19 in atto?<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 107%;"><br /></span></span>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwjuIVGpxbemrLIjIgo4u0ExtresZOJC3Fqib95WtmNLE_b7dyBRfQ95N5G_oSYUuzTbUCGSLhnBIkEY8GqGEErdij69dRoNNXVOmMzEKMNNDdqHQgRUquPlYZaAUP45kHfWW6JORyOTA/s1600/ITALIA-DATI-CONTAGI-25-APRILE-532x330.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="330" data-original-width="532" height="247" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwjuIVGpxbemrLIjIgo4u0ExtresZOJC3Fqib95WtmNLE_b7dyBRfQ95N5G_oSYUuzTbUCGSLhnBIkEY8GqGEErdij69dRoNNXVOmMzEKMNNDdqHQgRUquPlYZaAUP45kHfWW6JORyOTA/s400/ITALIA-DATI-CONTAGI-25-APRILE-532x330.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
Certamente vanno rilevate le motivazioni “oggettive” espresse nei termini di una componente demografica molto diversa e di una profonda distinzione nella mobilità umana sul territorio. Ad esempio tra Lombardia e Umbria. Ma tale oggettività può essere fatta oggetto di un esercizio critico? O si tratta di dati che non possono essere revocati in dubbio? Esiste una lotta per l’oggettività? Pongo questi interrogativi proprio per comprendere il ruolo che il discernimento può avere nell’analisi della pandemia che ci tormenta.<br />
<br />
Vent’anni fa, l’allora governo di centro-sinistra italiano approvò una legge che modificava la Costituzione repubblicana conferendo alle singole regioni poteri federalistici nella gestione dell’assistenza sanitaria. Fu la famigerata legge che modificò il cosiddetto Titolo V della Costituzione. Oggi la principale forza politica che allora la portò a termine, il Partito Democratico, sembra fare ammenda. Da quel momento la missione del Ministero della Salute si andò significativamente modificando da “pianificazione e governo della sanità” a “garanzia di salute” per il cittadino, talora metaforica e spesso affidata alle competenze della singola persona.<br />
<br />
Ora il Covid-19 ha causato troppi morti nel Nord Italia nel corso di questa pandemia per non porre queste domande. Ma la colpa non è solo del virus. Sono parimenti responsabili i tagli alla sanità pubblica determinati dalle scelte dei poteri di governo centrali e locali e la volontà di azzerare l’assistenza sanitaria di base messa in atto pienamente al Nord Italia grazie a quella legge. Specifiche scelte politiche ed economiche si sono andate sovrapponendo a dati oggettivi, ma è indubbia l’impressione che quel che resiste dei modelli di salute distrettuale e territoriale in Centro Italia sia anche esito dell’esperienza sociale di lungo periodo dei piani sanitari storici che hanno caratterizzato il welfare di quest’area culturale italiana. Ciò è avvenuto a dispetto della profonda erosione di quel modello beveridgeano che aveva prodotto nel secondo dopoguerra un nesso concettuale e operativo nazionalmente valido tra sanità e resistenza, collegando la salute alle lotte di liberazione dei popoli che caratterizzarono Italia ed Europa e che raggiunsero esito positivo nel 1948 allorché, anche grazie alla Costituzione italiana, si dimostrarono in grado di guidare un nuovo processo mondiale di istituzionalizzazione della pace.<br />
<br />
L’Umbria non è stata certo estranea ai tagli governativi. Anzi, la sua sanità risulta falcidiata da una simile tendenza imposta da chi ha introdotto una commistione tipicamente italiana tra pubblico e privato fino a causare una vera e propria crisi del welfare. Nondimeno, l’Umbria sembra conservare i resti di una rete di sanità pubblica che almeno nella sua dimensione di memoria strutturale pare costituirsi come il frutto di scelte politiche passate che continuano, ancorché carsicamente, a resistere. La drastica riduzione del personale sanitario ha di certo determinato anche in questa regione rarefazioni, disuguaglianze ed erosioni del diritto alla salute sul territorio. Ma credo che occorra prendere atto della resistenza che il modello sanitario e sociale umbro, certo in crisi radicale e messo in mora dalle scelte di governi di destra e di sinistra, continua a mostrare.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi555ZSnXSaV51ITdJlNnbjM36JK-AwPelBDFymDJG_IDqf4nIW9sr_j32PGO149jlZu-VkYDX2fq6u_LuTUzp_ulgBIEg07cQ4LHwbhVaJMwy4p3O_B8dwFmjrvQN16p4qA4spBtRKDnM/s1600/Ospedale-Santa-Maria-della-Misericordia.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1067" data-original-width="1600" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi555ZSnXSaV51ITdJlNnbjM36JK-AwPelBDFymDJG_IDqf4nIW9sr_j32PGO149jlZu-VkYDX2fq6u_LuTUzp_ulgBIEg07cQ4LHwbhVaJMwy4p3O_B8dwFmjrvQN16p4qA4spBtRKDnM/s400/Ospedale-Santa-Maria-della-Misericordia.jpg" width="400" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;">«<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Lombardia ultima, Umbria prima</i>» titolavano giorni fa i quotidiani
chiedendosi quando vi sarebbe stato, e con quali differenze regionali, lo stop
dei contagi. Sono titoli ironici che tuttavia espongono un problema reale: se
gli spazi pubblici italiani costituiscono altrettanti laboratori (la nostra
patria è un laboratorio politico internazionale permanente da secoli) quale
esemplarità politica esprimono le singole regioni? Se si dovesse guardare al
dibattito pubblico apparirebbe evidente che la Lombardia da molti decenni a
questa parte ha costituito un laboratorio di livello europeo in cui si sono
sperimentate le risposte neoliberiste più ciniche alla crisi. E questo nel
quadro di uno statuto del lavoro reso volutamente precario, seppure attraverso
strumenti legali che tuttavia nella nostra Costituzione hanno trovato sempre un
baluardo di resistenza, al punto che questa, come ricordavo all’inizio, fu
manipolata da leggi di cui solo ora ci si pente. Fin dai tempi della cosiddetta
stagione di “Mani pulite” il capoluogo lombardo, Milano, è stato un esempio
dello scontro tra diverse visioni della convivenza sociale. Da un lato la
magistratura legalista, dall’altro la corruzione politica. E i dirigenti
politici italiani di allora cosa fecero? Dopo un timido tentativo di difesa,
essi rivendicarono la propria immunità, quasi come decenni prima era avvenuto
nel lugubre discorso all’aula parlamentare giudicata “sorda e grigia”. Forse
l’assemblea risultava troppo burocratica, ma certo non era il contesto adatto a
evocare spettri di correità dell’intera classe politica. Ironia della sorte,
oggi come allora, dalla corruzione al contagio, torna come luogo di partenza il
Pio Albergo Trivulzio. Oggi che le “mani pulite” sono letterali e non più
metaforiche, le residenze sanitarie assistenziali sono l’oggetto di nuove
inchieste. Un gesto davvero incomprensibile quello di “nascondere” nelle RSA i
casi iniziali di coronavirus, anche perché queste residenze per anziani non
autosufficienti in Lombardia rappresentano affari milionari e pertanto sono
l’oggetto di indagini permanenti. Come pure è incomprensibile quella pressione esercitata
con successo da parte di Confindustria affinché i lavoratori continuassero a
lavorare anche nelle numerose fabbriche di Bergamo. Mi rifiuto di comprendere
la logica del profitto a tutti i costi. Anche quello della vita. Tutti possono
andare sulla rete a verificare i dati attendibili, le lamentele, ad esempio, di
cittadini ammalati come la dolente testimonianza di Veronica che si sfoga con il
web, o i titoli che parlano di “disastro lombardo” da spiegare e che tentano di
farlo. Mi viene in mente, certo dall’Umbria, che mentre il Veneto ha conservato
la traccia territoriale di un rimasuglio di stato sociale, un barlume di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">welfare</i> pubblico, la Lombardia è stata
il laboratorio politico di un’operazione di smantellamento delle garanzie e dei
diritti. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="line-height: 107%;">Credo che le vestigia del <i style="mso-bidi-font-style: normal;">welfare</i> in Umbria, così come i resti
delle prassi culturali meridionali del paese, possano essere utili per
ripartire. Si tratta di una dimensione sociale che c’è e si incarna nelle
persone, nelle istituzioni e nel rapporto tra le due. Occorre dunque valorizzare
questa capacità di esserci e di agire, è una presenza, individuale e collettiva.
D’altronde abbiamo dalla nostra parte l’articolo 3 e l’articolo 32 della Costituzione.
Sono testi importanti e vincolanti che non si potranno mai cambiare. Andiamo a
rileggerli e cerchiamo di attuarli. Vi troveremo </span></span> i valori antichi che possono guidarci verso una forma radicalmente nuova di mutualità sociale.<br />
<br />
Perugia, 28 aprile 2020<br />
Giovanni Pizza<br />
Università di Perugia</div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<span style="background: white; color: #222222; line-height: 107%;"><o:p><span style="font-family: inherit;"><br /></span></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 6.0pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i>Giovanni
Pizza è professore associato di antropologia medica e culturale presso
l’Università degli studi di Perugia dove dirige la Scuola di specializzazione
in beni demoetnoantropologici e la Rivista <a href="https://www.antropologiamedica.it/am-rivista-della-sicieta-italiana-di-antropologia-medica/" target="_blank">“AM. Rivista della Società italianadi antropologia medica”</a>.</i></span><span style="font-family: "garamond" , serif; font-size: 10pt;"><o:p></o:p></span></div>
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Per inviare il vostro contributo, scrivete a: anthroday@gmail.com.</div>
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Il blog è curato dal gruppo di lavoro del <a href="https://www.anthrodaymilano.formazione.unimib.it/" target="_blank">World Anthropology Day - Antropologia pubblica a Milano</a>.</div>
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Francesco Viettihttp://www.blogger.com/profile/05829514864346077141noreply@blogger.com